giovedì 26 gennaio 2012

Addio a Morsello, cambiò il carcere(26 gennaio 2012)
Aveva appena compiuto 74 anni. Luigi Morsello, il direttore di carcere che ha innovato il sistema detentivo italiano, se n’è andato ieri mattina, intorno alle 6, nel suo letto d’ospedale. Da 15 giorni era ricoverato per problemi di fegato e non si è più ripreso. La sua scomparsa lascia un grande vuoto nel mondo penitenziario. Molto apprezzato per le sue doti umane, Morsello era arrivato a Lodi nel settembre del 1997 ed era rimasto qua fino al pensionamento, nel gennaio 2005. Proveniva da una lunga esperienza, nelle carceri italiane. Era stato in 18 istituti, dal Nord al Sud dello stivale, affrontando anche momenti difficili, negli anni caldi della contestazione, finendo persino a processo, per essere poi assolto. Morsello non faceva mistero neanche della sua malattia, la depressione bipolare che l’aveva condotto persino a spararsi un colpo di pistola. L’aveva dichiarato, senza problemi, nel corso di un’intervista rilasciata al direttore del «Cittadino» Ferruccio Pallavera, alla vigilia del pensionamento. Negli ultimi anni era riuscito a curarla, con l’uso di un farmaco che nessuno gli aveva mai consigliato. Era molto soddisfatto per questo. Eppure il tentativo di suicidio, aveva detto pensando in positivo, l’aveva legato ancora di più alla vita, alla moglie e ai suoi tre figli.
Parole di cordoglio arrivano dal provveditore Luigi Pagano. «È stato un mio direttore - commenta - e poi un amico quando è andato in pensione. Ci scrivevamo molto. La sua era una personalità a tutto tondo. Si interessava di tutto e su tutto aveva un’idea. Un’idea non da bar, ma da tecnico che entra nei dettagli con competenza. Era un uomo puntiglioso. Le sue note erano piene di riferimenti giurisprudenziali e bibliografici. Ci siamo visti l’ultima volta a Lodi per il suo libro “La mia vita dentro”», che era stato poi presentato anche in Parlamento.
«Era un direttore decisionista - aggiunge Pagano -, ovunque andasse lasciava il segno. Quando arrivava in un istituto, in quattro e quattro otto sistemava le cose. A tutto pensava, tranne che si potesse riposare. È stato il primo direttore di carcere in Italia che ha avviato, proprio a Lodi, il reinserimento lavorativo dei detenuti che avevano compiuto reati come violenze sessuali o pedofilia. Ci voleva un bel coraggio, in una struttura di provincia come la Cagnola, in quel periodo. Sulla base di questa sua esperienza è stato aperto un reparto analogo, successivamente, a Bollate. Ovunque andasse risolveva i problemi aperti. Era un burbero apparente: dietro la facciata si nascondeva un’infinita generosità». Sabato Pagano avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Invece ha scelto di venire con i suoi collaboratori ai funerali che si terranno nella chiesa di San Lorenzo, alle 9. (La salma partirà dalla casa, al 4 di via Vignati e sarà sepolta al cimitero di San Bernardo). «Era una persona originale - aggiunge con affetto il comandante della Cagnola Raffaele Ciaramella -, esercitava l’autorità senza problemi, non posso che dire bene di lui. Io e tutto il personale siamo molto rattristati e vicini alla famiglia. Per tutto il giorno non abbiamo parlato d’altro».
Pasquale Franco dell’Associazione lodigiana volontariato carcere riconosce a Morsello «doti di grande umanità. «Era una persona molto disponibile - racconta -. Ci diceva sempre: “Trovate un lavoro a questi detenuti che li facciamo uscire tutti. Il carcere non serve a niente. Se queste persone vanno fuori guadagnano qualcosa e mantengono la famiglia. Non si redimono certo stando in branda”. Avevamo portato anche il lavoro in carcere. La Bassani motori forniva i motori da avvolgere e assemblavano le plafoniere della Brocca. Poi le porte si sono aperte e i detenuti hanno iniziato a lavorare per la cooperativa San Nabore e per la Luna. Alcuni lavorano ancora lì adesso. Morsello era un uomo capace di comprendere i grandi drammi esistenziali che si nascondono dietro le persone ristrette. «Se ci fossimo trovati nelle stesse circostanze di vita di queste persone - diceva - avremmo fatto anche noi come loro. Veniva sempre incontro ai volontari. Capiva che eravamo preziosi. Morsello ha umanizzato il carcere». Il volontario di “Los Carcere” Andrea Ferrari è sinceramente commosso. «A lui - dice - devo il mio ingresso in carcere come volontario, insieme ad Alex Corlazzoli e Cristiano Marini. Con lui e il direttore del Cittadino abbiamo dato il via al giornale “Uomini liberi”. Sotto la sua direzione a Lodi abbiamo avuto il record di “articoli 21”, cioè di detenuti che uscivano in permesso di lavoro. Nonostante l’età, aveva molto più a cuore il lavoro all’esterno che le attività ludiche in carcere. Era uno che riusciva a pensare a tutto, persino a progetti sul territorio. Dopo il suo pensionamento il nostro rapporto di incontri è stato sempre costante. Parlavamo di tutto, di carcere, ma anche di politica. Amava molto questa città (Morsello era nato in Basilicata e si era laureato all’università di Napoli, ndr). La sua perdita non sarà facile da compensare. Morsello andava fino in fondo nelle sue battaglie. Quando mi capitava di andare in direzione, già in lontananza sentivo la musica classica che usciva dal suo ufficio. L’augurio è che ritrovi là dove andrà la musica che amava tanto e che questa gli dia serenità».
Cristina Vercellone


Cari amici blogger, il babbo è mancato questa mattina presto.
Mancherà a tutti moltissimo.Era un uomo straordinario.
Daniela

sabato 7 gennaio 2012

C’è del marcio in Danimarca




di Marco Travaglio


Ieri e oggi il Fatto pubblica il calendario dei processi eccellenti del 2012: una lista impressionante di politici, ex premier (uno, il solito), presidenti del Senato in carica (uno, il solito), ex ministri, ex sottosegretari, governatori, sindaci, assessori, banchieri, finanzieri, imprenditori, generali e altri presunti servitori dello Stato imputati o già condannati in primo grado per reati gravissimi. Il fior fiore della “classe dirigente” alla sbarra.
Basta quell’elenco a spiegare l’improvviso ritorno di fiamma per il “dramma delle carceri”, che naturalmente non li angoscia per l’esorbitante numero delle persone attualmente in galera, ma per quello altrettanto spaventoso dei Vip che potrebbero finirci presto.
Intanto il principale partito di opposizione, la Lega Nord, denuncia il vero scandalo che ammorba la politica italiana: la festa di Capodanno del premier Monti e famiglia nell’alloggio di servizio di Palazzo Chigi. Un baccanale trimalcionico così scandaloso da indurre Roberto Calderoli, novello Catone il Censore, a invocare le immediate dimissioni di Monti, previe scuse agli italiani, e a presentare un’interrogazione parlamentare per sapere “se corrisponda alla verità la notizia secondo cui la notte dell’ultimo dell’anno si siano tenuti dei festeggiamenti presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri in Palazzo Chigi” e “chi ha sostenuto gli oneri diretti e indiretti della serata” perchè “mentre i cittadini sono costretti a tirare la cinghia, per usare un eufemismo, dalle misure del suo governo, sarebbe incredibile, oltre che gravissimo, se venisse confermato che il premier ha utilizzato un Palazzo istituzionale e il relativo personale per una festa privata”.
Il neomoralizzatore padano dev’essere lo stesso che prendeva soldi da Fiorani e non batteva ciglio quando il suo premier (il solito) scarrozzava nani, ballerine e mignotte sugli aerei di Stato o faceva scortare le Papi-girl da plotoni di poliziotti e carabinieri. Purtroppo gli è andata male: Monti ha risposto di aver cenato sobriamente con una decina di parenti stretti senza spendere un euro di denaro pubblico: “gli acquisti di cotechino, lenticchie, tortellini e dolce sono stati effettuati a proprie spese dalla signora Monti”, che poi ha provveduto a cucinare e servire in tavola. A mezzanotte e un quarto erano già tutti a dormire. Una scena di tale sobrietà e mestizia che parlare di “festa” pare davvero eccessivo.
Ma, non contento della figuraccia, Calderoli ha voluto collezionarne una seconda con un’intervista alla Stampa in cui insiste a definire la cena “assolutamente inaccettabile” perchè “la signora Monti che sparecchia e lava i piatti non me la vedo” e a pretendere “una risposta nelle sedi istituzionali”. Bravo, parole sante, avanti così.
Ma, se gli scandali della politica italiana sono questi, fa bene il Corriere ad allestire un paginone intitolato “Corruzione in Europa, gli scandali degli altri”. Direbbe Totò: malcostume, mezzo gaudio.
Il bello è che, fra gli scandali degli altri, c’è il caso del presidente tedesco Wulff sull’orlo delle dimissioni per aver telefonato a un cronista della Bild pregandolo di interrompere una campagna di stampa contro di lui (l’ingenuo non sa che, in questi casi, si chiama direttamente l’Agcom per far chiudere un programma tv sgradito o l’editore del giornale per far licenziare il direttore).
C’è il caso, ancor più inquietante, del ministro della Difesa britannico Liam Fox che avrebbe spacciato un amico per un collaboratore per portarlo nei viaggi ufficiali (non gli era venuto in mente di spacciarlo per igienista dentale o nipote di Mubarak).
E soprattutto c’è il caso gravissimo della premier danese, Helle Thorning-Schmidt, travolta dallo scandalo non per una casa pagata a sua insaputa da un pubblico appaltatore, ma per la “dichiarazione fiscale poco trasparente del marito inglese”.
Tutto sommato, a noi va di lusso: abbiamo solo un premier che mangia cotechino e lenticchie nell’alloggio di Palazzo Chigi.
C’è del marcio, in Danimarca.

La droga del proibizionismo




BRUNO TINTI

Ho un amico laureato (anche) in teologia. Ci capita di discutere. Oggi abbiamo litigato sulla necessità del “male”, sulle scelte tra i “mali”, sull’ananke, la “necessità” che ci impone di fare non ciò che si dovrebbe ma ciò che si deve; sul traffico di stupefacenti. Gli ho detto (ma lui fa lo stesso mestiere che facevo io e quindi tutte queste cose le sapeva benissimo) che la percentuale di successo nel contrasto al traffico di droga è ridottissima. Che per sequestrare il 5 % del traffico di cocaina dall’America del Sud agli Usa si spendono miliardi di dollari. Che, secondo la Commissione Globale sulle politiche delle droghe, in dieci anni, dal 1998 al 2008, i consumatori di oppiacei sono aumentati del 34,5 % (da 12,9 milioni a 17,35); quelli di cocaina del 27 % e i dipendenti dalla cannabis sono aumentati da 147 a 160 milioni.

Lui mi ha detto che la ragione per cui si combatte la droga è che la droga è “male” e che combatterla è un imperativo etico. E che comunque anche una minima diminuzione del traffico si traduce in difficoltà di approvvigionamento. Io gli ho detto che impedire ai cartelli della droga di tenere in schiavitù intere nazioni (Colombia, Bolivia, Perù, Messico, Afghanistan, Pakistan e paesi emergenti dell’est europeo), di assassinare migliaia (magari di più?) di persone ogni anno, di condizionare la vita politica ed economica di milioni di persone; mi pareva imperativo etico di maggiore rilievo che combattere spinelli e righe di coca. Lui mi ha detto (non è mica scemo): “Lo so, tu vorresti legalizzare l’uso delle droghe: se le vendi in farmacia a 30 euro la dose i trafficanti spariscono di incanto. E per la verità anche la microcriminalità dei drogati che scippano e rapinano per comprarsi la dose. Ma non va bene perché a questo punto la facilità di approvvigionamento porterebbe a un incremento dell’uso”.

Io gli ho detto che l’incremento c’era già, ogni anno e che comunque oggi, con il proibizionismo, s’incrementa il marketing. Gli spacciatori stanno fuori delle scuole e regalano le prime dosi per farsi i clienti. È intervenuta sua figlia: “È vero papà, fuori della mia scuola lo sanno tutti che Ciccio è il capo dei ragazzi che ti vendono la marijuana”. Gli ho dato qualcos’altro di cui preoccuparsi: “Secondo te in qualsiasi discoteca c’è difficoltà a procurarsi ogni tipo di droga?”. “Il male va combattuto – ha concluso; secondo te, se una banda di terroristi sequestra 100 studenti e minaccia di ucciderli se lo Stato non ti ammazza (tu, il più probo e brillante degli uomini – ho annuito entusiasticamente), sarebbe giusto ammazzarti per salvare 100 ragazzi? Sarebbe una barbarie”. “No, non sarebbe giusto – gli ho detto – ma non per la ragione che dici tu. Perché, se lo Stato cedesse al ricatto, domani prenderebbero altri 100 studenti e gli ordinerebbero di ammazzare te, il secondo più probo e brillante etc etc”. Prima che desse fondo alla sua preparazione di filosofia teoretica gli ho dato il KO: l’ipse dixit che è alla base della filosofia tommasea. “Guarda che tutto questo lo dice quella Commissione di cui ti ho parlato”: “Terminare con la criminalizzazione delle droghe. Sfidare i luoghi comuni sbagliati invece di rafforzarli. Incoraggiare i governi a sperimentare modelli di regolamentazione giuridica della droga per minare il potere del crimine organizzato e salvaguardare la salute e la sicurezza dei cittadini.” Non l’ho convinto.

Il Fatto Quotidiano, 6 Gennaio 2012

Non ci provate



MARCO TRAVAGLIO

Il Corriere della Sera comunica: “Non sarà una sentenza della Consulta a far saltare il clima di tregua in Parlamento, non sarà la Corte a provocare fibrillazioni che metterebbero in difficoltà il governo di emergenza nazionale: in prossimità del verdetto sui referendum elettorali, istituzioni e partiti di ‘maggioranza’ sono stati rassicurati sul fatto che i quesiti per abrogare il Porcellum verranno bocciati. Così le forze politiche contrarie ai referendum non sarebbero costrette a muoversi d’urgenza per cambiare la legge, con l’obiettivo di evitare la consultazione. Una corsa affannosa contro il tempo alzerebbe il rischio di tensioni tra i partiti che si scaricherebbero sull’esecutivo. Con la bocciatura dei referendum, verrebbe quindi messo in sicurezza il sistema politico, non il sistema elettorale”. Secondo Repubblica, anch’essa molto informata, sei giudici sarebbero pro referendum, cinque contro e quattro incerti. Fra i contrari figurano i soliti Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano (noti per la cena con B., Letta e Alfano prima della decisione sul lodo Alfano), oltre a Grossi (nominato dal presidente Napolitano),Frigo (indicato dal Pdl) e al presidente Quaranta (eletto dalla Corte dei conti e gradito al Pdl). Non sappiamo se tutto ciò sia vero, ma è molto probabile, visto che ieri nessuno ha smentito nulla.

Quindi, a una settimana dalla sentenza dell’11 gennaio, la Corte costituzionale, “giudice delle leggi” e massimo presidio di legalità del Paese, fa filtrare a due giornali, ai “partiti di maggioranza” e a imprecisate “istituzioni” gli orientamenti dei suoi membri, che devono restare segreti anche dopo la decisione, figurarsi prima. E se Repubblica attribuisce le divisioni a questioni giuridiche (il presunto “vuoto legislativo” che seguirebbe all’abolizione del Porcellum, peraltro smentito dai promotori che vogliono resuscitare il precedente Mattarellum), il Corriere dà una lettura tutta politica. Come se spettasse alla Consulta “mettere in sicurezza il sistema politico” (manco fosse una fognatura da coibentare) o preoccuparsi della “tregua in Parlamento” e del “governo di emergenza nazionale” (che i partiti, pur di sventare il referendum, rovescerebbero per andare al voto anticipato). E come se il referendum non fosse la più alta espressione della democrazia diretta, ma una cosa sporca da “evitare” a ogni costo per scongiurare “tensioni tra i partiti” e “sull’esecutivo”. Il tutto in barba a quei poveri illusi (1.210.466 cittadini) che hanno firmato il referendum pensando di vivere in una democrazia. Ora invece apprendono che non bisogna disturbare i manovratori: una casta, anzi una cosca di partitocrati nascosti dietro un pugno di banchieri e “tecnici” autoproclamatisi salvatori della Patria.

Destra e sinistra non esistono più: sopravvive solo la cultura autoritaria e oligarchica di queste sedicenti sentinelle del Bene che si sono autoinvestite del compito di confiscare la sovranità popolare e decidere loro, riunite in qualche tunnel, catacomba, loggia o angiporto, cosa è giusto per noi. Il silenzio della Consulta fa il paio con quello dei partiti: anche quelli che sei mesi fa esultavano per i referendum contro nucleare, acqua privata e impunità dopo averli sabotati in ogni modo; anche quelli (Pd e Fli) che hanno raccolto le firme contro il Porcellum con Parisi, Segni, Di Pietro e Vendola. Bersani e Fini non hanno nulla da dire su una Consulta che preannuncia la bocciatura del referendum? Nel 2009, alla vigilia della sentenza sul lodo Alfano – l’ha accertato il Tribunale del Riesame di Roma – la P3 riuscì “a ottenere l’assicurazione sul voto, nel senso voluto dai sodali, di sette dei 15 giudici della Corte”. Poi uno cambiò idea e il lodo fu bocciato nove a sei: ma “resta il fatto che tale ingerenza ci fu e venne esercitata su almeno sei giudici costituzionali che anticiparono a un soggetto come il Lombardi la loro decisione”. Ora la P3 è imputata per un’impressionante serie di reati. Ma i sei giudici sono sempre alla Consulta. Nessun’istituzione ha pensato di stanarli e cacciarli. Nessun monito si è levato dai colli più alti contro questo scandalo a cielo aperto. Da oggi però quei sei giudici infedeli devono sentirsi osservati: 1.210.466 cittadini italiani li guardano.

Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2012

(Aggiornamento del 6 Gennaio 2012, 19.17) - La Corte Costituzionale ha diffuso oggi una nota in cui “smentisce categoricamente le fantasiose illazioni relative a presunte dichiarazioni attribuite dalla stampa a componenti della Corte in relazione alla prossima decisione riguardante l’ammissibilità dei quesiti referendari in materia elettorale”. 


Caso Raphael Rossi, il Mattino: ‘Rapporto finito per questioni di soldi e di consulenze’




VINCENZO IURILLO

Il quotidiano di Napoli cita un report commissionato ai dirigenti di Asìa dal vice sindaco con delega all’Ambiente, Tommaso Sodano, sui sei mesi della presidenza Rossi
Dietro il licenziamento o le dimissioni che dir si voglia di Raphael Rossi dalla presidenza di Asìa, la municipalizzata dei rifiuti di Napoli, ci sarebbe stato uno scontro su questioni di soldi. E più precisamente, sui costi di gestione e sulle consulenze firmate dal giovane manager venuto da Torino su chiamata del sindaco Luigi de Magistris per rilanciare un’azienda ingrippata e per avviare sul serio la raccolta differenziata nella città delle emergenze continue. E’ la tesi che fa capolino da un documentato articolo di Adolfo Pappalardo su Il Mattino. Nel quale si fa riferimento a un report commissionato ai dirigenti di Asìa dal vice sindaco con delega all’Ambiente, Tommaso Sodano, sui sei mesi della presidenza Rossi. Interpellato per dire la sua sulla vicenda, Sodano preferisce non commentare precisando però di non aver commissionato nessuna relazione. Ma non ne smentisce il contenuto, limitandosi ad aggiungere “che quando c’è un cambio di management in un’azienda è normale che chi subentri voglia sapere come ha lavorato chi lo ha preceduto”.

Il report citato dal Mattino, punta il dito su 5 consulenze decise da Rossi per un totale di 150.000 euro circa. Quattro di queste consulenze sono state chieste ai collaboratori più fidati di Rossi, provenienti anch’essi da Torino: si chiamano Robiati, Di Polito, Varisotti e Vecchiottie da tempo fanno squadra con il manager torinese. La quinta consulenza riguarda Studium, società che si occupa di studi in materie ecologiche, fondata dal professore di Sociologia della Sapienza di Roma Domenico De Masi. Sono tutte consulenze inferiori alle 50.000 euro, limite entro il quale Rossi, conformemente ai pieni poteri attribuitigli dall’azionista (il Comune di Napoli), poteva deliberare senza informare il Cda. Circostanza che però avrebbe fatto arrabbiare qualcuno, indispettito dal non aver potuto analizzare il curriculum e le competenze dei professionisti scelti. O forse semplicemente per non averne potuti indicare altri al loro posto. Malumori comunque generici, quelli messi nero su bianco sul documento, nel quale sarebbero finite anche le spese relative alla presidenza Rossi. Lo stipendio del manager torinese ammontava a circa 2500 euro al mese. Ai quali, però, si dovrebbero aggiungere un rimborso non forfettario di 2400 euro, il costo dell’appartamento in affitto occupato dal manager, le spese telefoniche e il rimborso delle spese di viaggio andata e ritorno verso Torino, dove Rossi ha casa e famiglia.

In assenza di spiegazioni convincenti da chi avrebbe dovuto fornirle, le ragioni dell’avvicendamento di uno dei simboli della rivoluzione arancione alla guida di Asìa, assomigliano a un complicato puzzle di tasselli. Andrebbero incastratati tutti e bene, per avere un quadro chiaro. Ma i tasselli stanno emergendo in maniera frammentaria, uno alla volta, e forse ne mancano ancora diversi. Cosicché il quadro riporta molti pezzi bianchi e altri poco chiari. Del puzzle fanno sicuramente parte i numerosi ‘no’ pronunciati da Rossi, i cui pieni poteri hanno finito per infastidire qualcuno, e ricordati sul blog aperto sulla versione web de ‘Il Fatto Quotidiano’, tra i quali quello all’assunzione di 23 ex lavoratori ultracinquantenni del bacino Napoli 5, sul quale ha riferito ai magistrati che indagano sull’Immondizia Connection a Napoli. E un tassello importante del puzzle è sicuramente il deterioramento dei rapporti con Sodano, che su molte vicende sindacali e gestionali ha assunto posizioni diametralmente opposte a quelle di Rossi. Ora spunta il tassello delle spese di gestione dell’Asìa. Sulle quali Rossi ha assicurato che spiegherà tutto nelle prossime ore sul suo blog.

venerdì 6 gennaio 2012

Monti va a Parigi: “Lavoriamo mano nella mano con Francia e Germania”





Si terrà a Roma il 20 gennaio il vertice a tre con Nicolas Sarkozy e Angela Merkel. Il presidente del Consiglio italiano dice: "E' essenziale che ogni stato membro faccia fino in fondo quello che deve fare per consolidare il bilancio e realizzare riforme"
Due incontri programmati per la giornata parigina di Mario Monti, che prima è andato dal premier Francois Fillon e nel tardo pomeriggio è arrivato all’Eliseo dal presidente Sarkozy. ”L’Italia lavora mano nella mano con la Francia, così come con la Germania, per proseguire insieme verso la costruzione europea”, ha detto il presidente del Consiglio al termine di un pranzo di lavoro di un’ora e mezza con Fillon, che ha detto di essere “molto grato al presidente Monti per il lavoro eccezionale che sta facendo per restituire valore alla costruzione europea e alla zona Euro”. Il premier francese ha aggiunto che “tra Francia e Italia c’è un’identità di vedute quasi totale”. Nel primo pomeriggio, Monti si è spostato a Bercy, sede del ministero dell’Economia per il convegno economico ‘Nouveau Monde’ – al quale partecipano anche il ministro per lo Sviluppo economico, Corrado Passera, e il viceministro dell’Economia, Vittorio Grilli. Passera ha chiarito che “ancora non abbiamo una soluzione alla crisi finanziaria”, precisando che “non esiste comunque una soluzione unica ma diverse”. Tra queste, sicuramente il nuovo Patto di bilancio Ue, il “fiscal compact“, è un “passo nella giusta direzione”, come anche il semestre europeo, ma “l’Ue deve essere all’altezza delle sua aspettative”. Per questo “abbiamo bisogno di più innovazione, ricerca e investimenti, dobbiamo avere il coraggio di costruire questa competitività e affrontare la crisi con gli strumenti giusti”, ha ammonito il ministro. “Certamente ci stiamo muovendo nella buona direzione, certamente non ci stiamo muovendo sufficientemente veloci”, ha concluso Passera.

Al termine del convegno economico Monti ha ribadito che l’ “Europa è in un momento cruciale, con equilibri in continuo cambiamento”. Poi è passato a parlare della crescita che “in Europa rischia di fermarsi, mentre i Brics sono in forte crescita”. Il modello sociale europeo, ha proseguito il premier, “prima veniva visto con distanza da parte di Usa e Cina, mentre dopo la crisi economica anche questi paesi hanno dedicato maggiore attenzione al sistema sociale”. Secondo il presidente del Consiglio, l’Ue, dopo la crisi vede confermata anche la sua scelta costitutiva di fare governo “di governance multi-laterale”. E conclude: “Bisogna evitare che l’euro diventi un elemento di divisione in questo periodo di crisi, per questo bisogna rimediare alla crisi dell’eurozona. L’Italia ha messo in opera un pacchetto in vigore dal 1 gennaio che comporta un radicale cambiamento del sistema delle pensioni e viaggia verso il pareggio di bilancio nel 2013″.

E’ durato poco più di un’ora l’incontro con Nicolas Sarkozy. I due presidenti si sono presentati per una brevissima conferenza stampa, in cui Sarkozy ha assicurato:”Italia e Francia condividono la stessa identità di vedute per risolvere la crisi dell’euro”. Fissato per il prossimo 20 gennaio il nuovo vertice a tre con Angela Merkel, a Roma. ”Siamo d’accordo sul fatto che in una fase così delicata per l’unione europea e l’eurozona è essenziale che che ogni stato membro faccia fino in fondo ciò che deve fare per consolidare i bilanci e le riforme”, ha detto Monti al termine del colloquio in cui si è parlato probabilmente del fondo Salva Stati e delle modifiche al Trattato di Lisbona, oltre che della preparazione dei prossimi appuntamenti europei, in particolare il Consiglio europeo del 30 gennaio. Gennaio sarà infatti un mese di intense consultazioni per dare all’Europa un nuovo volto: l’11 gennaio Monti incontrerà a Berlino il cancelliere Angela Merkel per discutere della crisi economica europea e in particolare di quella che coinvolge i paesi dell’eurozona. Alla fine del mese si recherà a Londra per incontrare il premier britannico David Cameron, mentre altri viaggi sono in programma nelle prossime settimane a Washington e Tripoli. Intanto Cameron ha ribadito oggi la sua intenzione di “fare tutto il possibile” affinché i firmatari del nuovo trattato Ue non usino istituzioni come Commissione e Corte di Giustizia per portare avanti il lavoro dell’Europa senza la partecipazione di Londra. “Non dovrebbero prendere decisioni che riguardano il mercato unico e la competitività: Non si può avere un trattato fuori dell’Ue che inizia a fare ciò che andrebbe fatto all’interno dell’Unione”.

Unicredit mette in guardia chi investe “L’euro potrebbe saltare”




L'avviso nel prospetto dell'aumento di capitale. Improvvisa missione di Monti a Bruxelles. Per il premier giro d'incontri con i vertici Ue: in gioco la trattativa sul rigore per i conti pubblici
Con i mercati europei che si avvitano al ribasso e lo spread italiano che torna a volare oltre i 520 punti si fa presto a concludere che gli investitori finanziari vedono nuovi guai in arrivo per l’euro. Ma per capire davvero quanto siano aumentati negli ultimi mesi il pessimismo e la sfiducia sul futuro della moneta unica può essere utile dare un’occhiata a un paio di paginette del prospetto informativo dell’aumento di capitale di Unicredit che prenderà il via lunedì prossimo. “Rischi connessi alla crisi del debito dell’area euro”, questo il titolo di uno dei paragrafi del voluminoso documento pubblicato. È la prima volta che una grande banca italiana, mentre si appresta a chiedere denaro ai propri azionisti, decide di mettere in guardia i risparmiatori anche da una possibile dissoluzione della valuta continentale. Certo, è solo un’ipotesi tra molte altre che, secondo i manager di Unicredit potrebbero influenzare nei prossimi mesi l’andamento della banca. Il solo fatto che un rischio euro venga menzionato riesce però a dare l’idea delle tensioni e dei timori sul mercato.

“Le preoccupazioni relative all’aggravarsi della situazione del debito sovrano dei Paesi dell’Area Euro potrebbero portare alla reintroduzione, in uno o più Paesi dell’Area Euro di valute nazionali o, in circostanze particolarmente gravi, all’abbandono dell’Euro”. Questo è quanto si legge a pagina 66 del prospetto. Insomma, nei prossimi mesi non è da escludere neppure un ritorno alla vecchia lira. Semplice ipotesi, ovviamente, ma i vertici del secondo gruppo bancario italiano, il più attivo oltrefrontiera con una forte presenza in Germania, non hanno potuto fare a meno di segnalare il rischio euro. “È una forma di tutela legale contro un rischio di carattere sistemico”, precisa una fonte ufficiale di Unicredit.

Un rischio che adesso, però, è diventato ben più concreto rispetto al recente passato. Prospetto a parte, va detto che ieri Unicredit ha trascinato al ribasso l’intera Borsa italiana. Alla vigilia dell’aumento di capitale il titolo del colosso bancario ha perso addirittura il 17 %, che si aggiunge alla caduta del 16 % registrata mercoledì. Il crollo si spiega in parte con il forte sconto (43 %) rispetto al prezzo di mercato a cui le nuove azioni verranno collocate. Molti operatori hanno così preferito vendere adesso per poi ricomprare da lunedì. Ieri, però, è stato l’intero settore bancario a perdere terreno in Borsa per effetto anche della nuova impennata dello spread.

E ad aumentare la sensazione di allarme presente sui mercati ha contribuito anche la notizia dell’improvvisa e inaspettata partenza di Mario Monti alla volta di Bruxelles per alcuni incontri, non meglio specificati, con i vertici Ue. Il premier ha così aperto la sua campagna d’Europa: curiosamente però, per la cosa più importante che farà a palazzo Chigi, le sue doti accademiche non conteranno niente. Quel che serve oggi è un bel po’ di politica: guidare, convincere, mediare. Se, infatti, il premier non riesce a persuadere il duo Merkel-Sarkozy ad abbandonare i furori rigoristi del nuovo Patto fiscale europeo per l’Italia, l’Ue e la sua moneta non c’è futuro. Vedremo poi i particolari, ma appare chiaro che gli investitori non si fidano del cosiddetto “accordo salva euro” a trazione tedesca. Ieri la Borsa di Milano s’è persa per strada 11, 3 miliardi di euro (-3, 6 %) e lo spread Btp-Bund, come detto, è tornato sopra i 520 punti. Se a questo si aggiunge che il differenziale coi titoli tedeschi ieri ha colpito anche Francia (150) e Spagna (380), si capisce che gli investitori si stanno convincendo che l’euro è destinato al decesso e chiedono tassi di interesse adatti alle (future) monete nazionali.

Questo è il quadro che Mario Monti si è trovato davanti ieri a Bruxelles, accompagnato dalle “referenze” di Giorgio Napolitano: “Monti ha tutti i titoli per porre all’Ue questioni che riguardano il modo di garantire rigore e crescita”, ha detto il Colle. “Inoltre – ha aggiunto Napolitano – il decreto approvato dal Parlamento è la prova come l’Italia sia, anche sul debito pubblico, affidabile”. Tanta enfasi è giustificata dal fatto che oggi gli sherpa dei vari governi cominciano la trattativa sulle modifiche alla bozza di Trattato intergovernativo firmata il 9 dicembre. I tempi sono stretti: un paio di settimane per la stesura definitiva, accordo al Consiglio europeo del 30 gennaio, firma definitiva a marzo. Si tratta di un testo pericolosissimo: sanzioni automatiche per gli sforamenti del deficit e un percorso di rientro al 60 % del rapporto debito/Pil a colpi di un ventesimo l’anno (per l’Italia significa 45-50 miliardi), per non citare che le due minacce più gravi. I professori hanno proposto alcuni emendamenti il cui senso è “va bene il rigore, ma bisogna tenere conto del ciclo economico”, cioè che siamo in recessione. Tradotto: se non cresciamo, anche con la spesa pubblica, siamo morti.

Ora che sa cosa vuole fare, però, a Monti resta la cosa più difficile: convincere la Merkel e gli altri paesi nordici. Monti insomma cerca alleati (Polonia e Belgio non bastano): oggi ci proverà con Sarkozy, la commissione è già dalla sua parte e mercoledì potrà presentarsi alla Cancelliera tedesca avendo chiara la situazione. Con una freccia al suo arco: con la Gran Bretagna già fuori dai giochi, il potere di veto dell’Italia è enorme.

di Vittorio Malagutti e Marco Palombi

da Il Fatto Quotidiano del 6 gennaio 2012

giovedì 5 gennaio 2012

Costi della politica: la mia lettera aperta a Mario Monti




Illustrissimo Professor Monti,
come certamente Ella ricorderà, i Gruppi Parlamentari dell'Italia dei Valori hanno inteso conferire a Lei ed al Suo Governo una fiducia motivata, formalmente depositata in Parlamento, fondata su contenuti chiari, precisi ed inequivocabili.
Parte essenziale della nostra fiducia era basata sulla significativa decurtazione dei costi della politica e sull’equità sociale. L'opera di razionalizzazione istituzionale rappresenta, infatti, una “questione di credibilità” dinanzi all’Italia e non solo si rivela urgente sotto il profilo finanziario, ma si rende necessaria per tentare di riavvicinare i cittadini alle istituzioni, vista la delicata fase che sta attraversando il Paese.
Nell'ambito delle Sue comunicazioni programmatiche, Lei ebbe a dichiarare che: «Di fronte ai sacrifici che sono stati e che dovranno essere richiesti ai cittadini, sono ineludibili interventi volti a contenere i costi di funzionamento degli organi elettivi».
Tale ineludibilità, Illustre Presidente, implica necessariamente un immediato, efficace e reale intervento in tal senso, partendo da tutto ciò che è possibile fare subito dando così al Paese il buon esempio. Le nostre proposte sono:
- Soppressione immediata delle Province con compiti, funzioni e personale dipendente da affidare a Comuni e Regioni;
- Diminuzione del numero dei deputati e dei senatori (complessivamente a 500), dei componenti dei consigli e delle giunte regionali;
- Riduzione di tutti i consigli di amministrazione delle società pubbliche mentre in quelle che hanno fatturati minimi vanno sciolti o ridotti ad un solo componente;
- Riduzione dell'indennità e soppressione degli assegni vitalizi per i membri del Parlamento e dei consiglieri regionali, nonché il contestuale incremento delle dotazioni del fondo nazionale per le politiche sociali;
- Modifiche al rimborso delle spese per consultazioni elettorali;
- Soppressione del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, per la riduzione dei costi della politica;

- Soppressione dei rimborsi delle spese di viaggio e di trasporto per i parlamentari cessati dal mandato;
- Modifiche con tagli sostanziali alle sedi di rappresentanza delle regioni all'estero e all'istituzione di un 'Palazzo Italia' a Bruxelles;
- Taglio radicale della dotazione e l'uso di autovetture di servizio delle pubbliche amministrazioni;

E’ importante che la parola “equità” da Lei usata trovi una coerenza tra il dire e il fare del governo, in particolare sulla riduzione dei costi della politica, anche con provvedimenti legislativi urgenti.
Questo, nella piena consapevolezza che i cittadini, martoriati ed angosciati dalla perdurante crisi economica e dall’ultima manovra finanziaria, possano riscontrare un cenno di dignità da parte delle Istituzioni repubblicane. Sappiamo bene che alcuni provvedimenti non rientrano nelle competenze del governo, ma la maggior parte di essi possono essere presi in considerazione.

Con i miei più cordiali saluti,

On. Antonio Di Pietro
Presidente nazionale
Italia dei Valori

Padre e figlia uccisi, paura e rabbia dal mondo dei social network




«La mia città è messa male. Ci vuole qualcosa. Uno scatto d'orgoglio, un sussulto di coscienza, una qualsiasi reazione. Qualcosa». L’indignazione è uno di quei sentimenti che sui social network corre veloci. Su Twitter e Facebook sono bastate poche parole per esprimere la rabbia e il cordoglio per la tragedia che ha coinvolto Zhoun Zen, commerciante cinese di 31 anni, e la figlia di sei mesi, uccisi ieri notte nel quartiere romano di Tor Pignattara.

Sentimenti che si legano alla paura per una città che appare ogni giorno più minacciosa e violenta. Roma come «Far West»: una similitudine che riverbera di cinguettio in cinguettio. Un ragazzo scrive: «Quanto successo a Roma è la prova che la Capitale è fuori controllo». Un altro si esprime con toni da guerra civile: «siamo in una città da coprifuoco».

I pensieri sono indirizzati all’amministrazione romana, ma soprattutto nell’aria c’è l’amaro per le promesse non mantenute: «Alemanno ha vinto a Roma con la tiritera della sicurezza, ricordiamocelo», oppure «ringrazio il sindaco per il piano sicurezza». Il sarcasmo, quello, non manca mai: «Alemanno che ha vinto sull’insicurezza, quando si dimette?».

Non manca anche questa volta il rimprovero che alcune comunità dei social network avevano già fatto ai media qualche settimana fa, in occasione dell’omicidio di Mor Diop e Samb Modou, i senegalesi uccisi qualche settimana fa a Firenze da un killer xenofobo: «Ucciso un cinese con la figlia. No, ucciso un uomo con un nome, con una famiglia, un vissuto. E una bambina come la mia, come le vostre».

Si ha paura di dimenticare, anche, e un messaggio a 140 caratteri a volte è l'unico rimedio all'oblio: «si fa prima quando le vittime sono gli ultimi, gli emarginati, gli immigrati». E anche: «Ho idea che nessuno intitolerà mai una via o quant'altro alla bimba cinese uccisa ieri sera a Roma in una rapina».

Roma, Alemanno: "Fermare le belve"




«L’ultimo tragico episodio di violenza che ha portato alla morte di una bambina di pochi mesi e di suo padre è veramente troppo. La pazienza di Roma e dei romani è finita. Ci sono belve criminali che agiscono nella nostra città che devono essere fermate a tutti i costi». Alemanno interviene sulla rapina tragica che ieri notte ha portato all’uccisione di un negoziante con la bambina di pochi mesi.

«Ci sono troppa droga e troppe armi che circolano nei quartieri più a rischio - aggiunge il sindaco di Roma - Sono mesi che denuncio questa emergenza criminale ma le misure che fino adesso sono state attuate sono chiaramente inadeguate. Chiediamo al Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico che si svolgerà questo pomeriggio con la partecipazione del Ministro e dei vertici delle Forze dell’Ordine di decidere insieme alla magistratura misure emergenziali per riprendere il controllo del territorio debellando un tessuto criminale che in questi mesi è cresciuto oltre ogni misura. Roma si attende fatti e non promesse».




VLADIMIRO ZAGREBELSKY

L’attenzione focalizzata sulle difficoltà economiche e finanziarie dell’Italia e dell’Europa e la discussione sulle misure prese o da prendere per uscire dalla crisi, rischia di mettere in ombra, sotto la pressione dell’urgenza, un tratto fondamentale dell’Unione europea. Da lungo tempo ormai l’iniziale esclusivo scopo di creare un mercato comune si è arricchito di componenti diverse, di natura culturale e politica. Di esse si dà conto in apertura del Trattato sull’Unione, dichiarando che essa «si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». La coerenza con quei principi delle leggi e dei comportamenti di ciascuno dei ventisette Paesi membri è condizione per l’adesione all’Unione e per l’esercizio dei diritti che essa comporta. Tanto che la partecipazione di uno Stato membro può essere sospesa se gli organi dell’Unione constatano che esiste un rischio di violazione grave di quei valori. Le vicende in corso in Ungheria ci aiutano a ricordarcene.

L’Ungheria ha aderito (ha chiesto di aderire ed è stata accolta) all’Unione europea nel 2004, superando i test di democraticità e di compatibilità del sistema economico. Da allora il Paese ha vissuto gravi crisi economiche e politiche, ora giunte a un punto che allarma gli organi dell’Unione e l’opinione pubblica ungherese ed europea. Alle critiche provenienti dall’Unione e da altri Stati, il primo ministro ungherese Orban reagisce proclamando che nessuno può dettare al suo Paese ciò che deve fare. Con ciò solletica il suo elettorato e il nazionalismo ungherese, ma nega in radice la logica dell’appartenenza a una comunità come l’Unione. In Europa le vicende interne agli Stati membri, siano esse economiche o relative alla democrazia e alle libertà civili, riguardano tutti, istituzioni europee e cittadini. Non è irrilevante che ogni cittadino di ciascuno Stato membro sia anche cittadino dell’Unione.

Vinte le elezioni politiche e ottenuti, per il gioco della legge elettorale, più di due terzi dei seggi parlamentari, il governo ha introdotto modifiche alla Costituzione e alle leggi che confliggono con i valori propri dell’Unione. Sono stati fatti inquietanti richiami alla «ungheresità» etnica che urtano gli Stati confinanti in cui vivono minoranze magiare, è stata abolita la indipendenza della Banca centrale e sono state drasticamente ridotte l’indipendenza della magistratura e la libertà della stampa. Un’ampia epurazione è in corso. Il presidente della Corte suprema, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è dimesso. Il reclutamento dei nuovi magistrati è ormai nelle mani di un organismo che risponde al governo. La composizione della Corte costituzionale è modificata per legarla alla maggioranza di governo. La stampa, le radio e televisioni sono sottoposte a limitazioni e controlli che hanno iniziato a produrre dimissioni e licenziamenti di giornalisti non in linea. Il quadro che deriva dal contemporaneo attacco alla magistratura e alla stampa, il terzo e il quarto potere in democrazia, è per un verso classico in ogni regime autoritario e per l’altro è in esplicita rotta di collisione con i principi di democrazia su cui l’Unione europea si fonda e che sono comuni a tutti gli Stati membri.

Merita di essere particolarmente richiamato un aspetto delle riforme che il governo ungherese, forte della sua maggioranza, ha introdotto. Si tratta dell’attribuzione a un organo amministrativo legato al governo della possibilità di obbligare i giornalisti a svelare l’identità delle loro fonti di informazione. La Corte costituzionale, prima della modifica della sua composizione, ne ha constatato la incostituzionalità, rilevando che solo il giudice può obbligare in casi eccezionali il giornalista a rivelare le sue fonti. Un orientamento della Corte costituzionale in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e la pratica esistente negli altri Paesi dell’Unione. L’eccezionalità della violazione del segreto delle fonti, ammessa solo quando sia assolutamente necessaria per tutelare fondamentali interessi pubblici, è una regola indispensabile per consentire alla stampa di svolgere il suo ruolo di informazione e controllo nella società democratica.

Per rimarcare la distanza tra le pretese del governo ungherese e la pratica negli altri Paesi si può ricordare la recente sentenza della Cassazione francese, che ha annullato un’indagine promossa dal pubblico ministero (che in Francia dipende dal ministro della giustizia), per individuare le fonti dei giornalisti che avevano ottenuto e pubblicato notizie da una istruttoria penale riguardante anche personaggi politici della maggioranza governativa. La Corte di Cassazione, richiamando la Convenzione europea dei diritti umani, ha osservato che le notizie pubblicate, da un lato avevano un notevole interesse per il pubblico e dall’altro non mettevano in pericolo essenziali esigenze di segretezza e ha annullato l’indagine. Proteggere le fonti delle notizie raccolte dai giornalisti, è necessario per evitare che esse si inaridiscano e per consentire alla società di far emergere notizie imbarazzanti per il potere, mantenendo vivo il dibattito democratico. Poiché la sola volontà della maggioranza non basta a dar linfa a una democrazia. L’indipendenza della magistratura, la libertà della stampa e la completezza dell’informazione della opinione pubblica, sono condizioni essenziali per la vitalità delle istituzioni della democrazia a garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. Centottant’anni orsono Tocqueville, segnalando i pericoli della dittatura della maggioranza, scriveva che «quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge».

Adesso si dimetta il leghista




CESARE MARTINETTI

Va bene l’opposizione ci mancherebbe -, incalzante e persino beffarda. Va bene la denuncia che non deve esitare al cospetto di nessuno. Ma il leghista Calderoli ieri ha superato ogni limite: del buon gusto capita spesso - e dell’intelligenza politica.

Denunciare come una «festa» la cena privata del professor Monti con i suoi famigliari a Palazzo Chigi la sera del 31 dicembre ed aver chiesto le dimissioni del presidente del Consiglio è semplicemente ridicolo. Calderoli ha trascorso anni in un governo il cui capo era lui sì un organizzatore di «feste» (mai denunciate dal moralizzatore leghista) e la Lega ha prodotto negli anni vere carnevalate come il trasferimento dei ministeri a Monza. E soprattutto la denuncia si è rivelata totalmente infondata.

La misura e l’eleganza del professor Monti dovrebbero indurre Calderoli alle dimissioni. Temiamo non accada.

E ora difendiamo chi produce




LUCA RICOLFI

Lo so, ci sono cose che oggi non si possono dire. Non si può parlare dell'articolo 18, non si può dire quel che ha detto Grillo, non ci si può sottrarre alla guerra santa contro gli evasori e gli speculatori, non si possono difendere i ricchi (un clima così pesante e antiliberale da indurre Alesina e Giavazzi a ricordare che la ricchezza non è una colpa). Abbiamo bisogno di certezze e di capri espiatori. La certezza di non perdere quel che abbiamo. I capri espiatori su cui scaricare ogni responsabilità per i tempi duri che viviamo.

Così, una plumbea nuvola di cecità e di conformismo sta lentamente avvolgendo un po’ tutto e tutti.

Il governo sta finalmente, faticosamente e meritoriamente aprendo il dossier delle liberalizzazioni, ma il clima che si respira è di prudenza e di sospetto, specie in materia di mercato del lavoro. Gli altolà e gli avvertimenti scattano automatici, non per quel che uno ha fatto effettivamente, ma già solo per quello che potrebbe aver pensato, o avere in animo di pensare (vedi quel che è successo al ministro Elsa Fornero, rea di aver osato dire che si doveva parlare di mercato del lavoro «senza tabù»).

In un clima siffatto, io vedo il pericolo che, nel dibattito pubblico dei prossimi mesi, si mettano da parte alcuni dati di fondo, che sono cruciali per prendere decisioni sagge, ma appaiono urticanti o «politically taboo» a quasi tutti i soggetti in campo. Quali dati? Il primo dato è che la pressione fiscale sull'economia regolare è la più alta del mondo sviluppato (intorno al 60%), e così il livello di tassazione sulle imprese, il cosiddetto Total Tax Rate (68.6%). Questo è un handicap di fondo dell'Italia, che è stato ulteriormente aggravato dalle manovre finanziarie di Berlusconi, e in misura ancora maggiore da quella di Monti. Questo livello abnorme di tassazione si accompagna da sempre a norme vessatorie nei confronti di qualsiasi violazione (anche solo formale, o di entità irrisoria) delle regole fiscali, per non parlare dei comportamenti arroganti, intimidatori, o semplicemente umilianti degli emissari del fisco, che ovviamente non sono la regola ma di cui esistono purtroppo innumerevoli testimonianze, talora drammatiche e commoventi. Mi spiace doverlo dire, ma mi sono convinto che oggi in Italia un sentimento di paura verso l'Amministrazione pubblica sia ampiamente giustificato anche quando non si sia commesso alcun errore, reato o violazione. E tutto mi fa pensare che, affamato da decenni di spesa pubblica in deficit, lo Stato stia in questi anni accentuando il suo volto rapace e intimidatorio.

Il secondo dato di fondo è la strabica selettività della repressione dell'evasione. Ci sono intere zone del Paese in cui quasi tutto è in nero, si sa perfettamente dove si annidano gli abusi più clamorosi (compreso il caporalato e varie forme di sfruttamento del lavoro degli immigrati che ricordano i tempi della schiavitù), ma si preferisce chiudere ipocritamente un occhio, concentrando l'azione sulle porzioni del Paese in cui l'evasione c'è, ma è molto più contenuta. Pur di salvare il principio astratto che il lavoro deve essere pagato decentemente e iperprotetto, Stato e sindacati tollerano di buon grado che in un quarto del territorio nazionale si possa operare in modo del tutto irregolare, non solo sul versante dei salari ma su quasi tutto il resto (dal mancato pagamento del canone Rai alla violazione di ogni norma igienica, di sicurezza, antinfortunistica, etc.). Il fatto è che se volesse intervenire contro l'illegalità, lo Stato dovrebbe militarizzare circa un quarto del territorio nazionale, e distruggere un paio di milioni di posti di lavoro, che si reggono sui bassi salari.

C'è un terzo dato di fondo, che mi pare fondamentale ora che si sta per aprire lo spinoso capitolo del mercato del lavoro: da un paio di anni l'Italia sta riducendo la sua base produttiva. Fallimenti, chiusure volontarie di attività, bassi investimenti, distruzione di posti di lavoro, si stanno susseguendo senza interruzione dal 2008. Un po' dipende da un fatto nuovissimo, e cioè che questa crisi è, dal 1945, la prima in cui si prende in considerazione non solo l'eventualità di un double dip (doppia recessione, la prima nel 2009, la seconda nel 2012), ma anche l'ipotesi che la crescita non tornerà mai più, come ha già tristemente sperimentato il Giappone negli ultimi due decenni. In queste condizioni a molti pare inutile resistere in attesa di una ripresa che forse non ci sarà né l'anno prossimo né mai. Un po', però, dipende anche da un altro dato che ci si rifiuta di vedere, e cioè che lavorare e produrre in Italia sta diventando sempre più proibitivo sul piano dei costi di produzione.

Quando dico costi di produzione, però, non intendo solo le voci che sono al centro della prossima trattativa governo-Confindustria-sindacati. E' chiaro che salari e profitti sono troppo tassati, è chiaro che le imprese medio-grandi hanno troppi vincoli, è chiaro che in Italia si fa troppo poca ricerca, è chiaro che c'è troppo poca concorrenza sul mercato interno, è chiaro che bisogna aumentare la produttività del lavoro. E tuttavia, attenzione, non possiamo esagerare con la colpevolizzazione dei produttori, siano essi le imprese (cui si rimprovera cattiva organizzazione e scarsa innovazione), i lavoratori autonomi (cui si rimprovera di evadere le tasse), o i lavoratori dipendenti (cui si rimprovera di non essere abbastanza produttivi). Come tutti, vedo anch'io diversi furbi e farabutti che evadono spudoratamente il fisco, ma sempre più frequentemente mi capita di incontrare persone per bene, che gestiscono in modo efficiente un'attività, ma si trovano ormai di fronte al dilemma se chiudere o «fare del nero», e per lo più - proprio perché sono persone oneste - scelgono di chiudere.

Il tasso di occupazione, la produttività e la competitività non dipendono solo dai rapporti fra capitale e lavoro, come sembra suggerire l'attuale enfasi sulle relazioni industriali, ma anche da alcune fondamentali condizioni esterne all'impresa: il costo dell'energia, il costo del credito, i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, il costo degli adempimenti burocratico-fiscali, l'efficienza della giustizia civile. E' ingenuo pensare che l'operaio tedesco, che guadagna di più di quello italiano, sia più produttivo essenzialmente perché più stakanovista o meglio attrezzato dal suo datore di lavoro. Il valore aggiunto di un'impresa è la differenza fra il valore della sua produzione e i suoi costi, e lo svantaggio dell'Italia su questi ultimi è abissale. Fatti 100 i costi unitari dei Paesi a noi più comparabili (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna), i costi dell'Italia sono circa 120 per la benzina, 170 per il gasolio, 250 per l'energia elettrica, 300 per i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, 400 per il rispetto dei contratti (senza contare gli ulteriori aggravi prodotti dalle recenti manovre «salva Italia»).

Se poi a tutto questo aggiungiamo la tassazione più pesante del mondo sviluppato, la rigidità del nostro mercato del lavoro regolare, l'enorme prelievo sul reddito e sulla ricchezza operato con le ultime manovre, il quadro si capovolge: la domanda non è più perché l'Italia non cresce, ma perché i produttori non hanno ancora gettato la spugna. Da questo punto di vista i governi che si sono succeduti negli ultimi anni mi paiono tutti molto simili. Sotto la pressione dei mercati, non hanno mancato di chiederci dei sacrifici, per «rimettere a posto i conti pubblici». Ma ben poco hanno fatto per abbassare in modo apprezzabile i costi di chi produce ricchezza, quasi a lasciar intendere che il problema della produttività riguardi essenzialmente le parti sociali. Temo sia stato un errore, e che la chiusura di tanti negozi, attività, imprese, che osserviamo così spesso oggi nelle nostre città, ne sia l'amara conseguenza.

Politici e associazioni ebraiche "Sospendere il professore neonazista"




di MARCO PASQUA

A poche ore dalla pubblicazione della notizia dei deliri antisemiti e xenofobi di Renato Pallavidini, docente di storia e filosofia in un liceo classico torinese, la Procura ha aperto un fascicolo, incaricando la Digos di svolgere tutte le indagini del caso. Oggi pomeriggio, inoltre, il docente, che sul suo profilo Facebook ha insultato e minacciato ebrei, omosessuali, immigrati e disabili, è stato convocato negli uffici della Questura. Qui dovrà spiegare perché sia arrivato a paventare la possibilità di fare una strage in sinagoga, usando la sua pistola, oppure perché abbia invitato i suoi amici a giocare al "tiro a segno" con alcuni immigrati che stazionano nei pressi della sua abitazione. Affermazioni che hanno comprensibilmente suscitato la reazione delle comunità ebraiche ma anche di una parte del  mondo politico. Tutti concordi nel sostenere la necessità di sospendere definitivamente dall'insegnamento Pallavidini, che, attualmente, è in malattia (fino al prossimo mese di marzo).

Il primo a prendere posizione, via Twitter, è
Walter Veltroni, antesignano  -  da sindaco di Roma  -  dei viaggi della Memoria. "Un negazionista che vuole la strage degli ebrei e invoca Mengele per punire le donne di 'se non ora quando' sembra un po' in contraddizione. Spero che il Ministro Profumo, oltre alla magistratura, si occupi dei minacciosi propositi di questo 'professore'". Una posizione che trova d'accordo il collega del Pd, Emanuele Fiano, che preannuncia un'interrogazione parlamentare al ministro dell'Istruzione: "Quelle di Pallavidini sono minacce che non vanno sottovalutate. Mi auguro che il ministro intervenga al più presto e che il suddetto personaggio venga estromesso per sempre dall'insegnamento perché è evidente che tra la propaganda all'odio razziale e la possibilità di insegnare ai ragazzi la storia e il pensiero dell'umanità esiste un conflitto impossibile da superare". 

Su Facebook,
Paola Concia si chiede perché Pallavidini "non sia stato ancora licenziato e arrestato". Renzo Gattegna, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche e Beppe Segre, presidente della comunità ebraica di Torino, in una nota congiunta ricordano quanto sia importante, a partire proprio dalle scuole, "tramandare il senso più autentico della Memoria, analizzare i meccanismi dell'odio predisposti da uomini contro uomini affinché essi non abbiano più a ripetersi".

"Desta molta preoccupazione il fatto che un docente di un noto liceo classico torinese utilizzi il mondo dei social network, nello specifico Facebook, per pubblicare materiale fotografico di chiaro stampo neonazista e indirizzare inequivocabili minacce verso ebrei, omosessuali, disabili e immigrati  -  scrivono Gattegna e Segre -  Esprimere con forza la condanna e il biasimo degli ebrei torinesi e italiani è quasi pleonastico tanta è l'infamia, l'aggressività e la violenza verbale vomitata nella rete da questo presunto 'maestro di vita'". L'auspicio è che d'ora in poi tale individuo, oltre a subire un regolare processo che ne accerti le responsabilità, sia finalmente messo in condizione di non poter più nuocere ai giovani, né all'interno di una qualsiasi aula italiana né sulla rete".

"Ancora una volta dobbiamo constatare che purtroppo il negazionismo vive nelle nostre scuole come nei nostri atenei  -  osserva il presidente dell'Ugei, Daniele Massimo Regard - Non siamo disposti ad abbassare la testa e ad ignorare le 'gestà di questi personaggi. Non ci fanno paura, né oggi né mai. Chiediamo al ministro dell'Istruzione di intervenire e sospendere definitivamente il signor Pallavidini dal suo incarico".

Affermazioni, quelle di Pallavidini, che non stupiscono Stefano Gatti, ricercatore dell'Osservatorio sul pregiudizio antiebraico della Fondazione CDEC di Milano, ben consapevole del fatto che, in Italia, "negli ultimi anni l'antisemitismo, di cui il negazionismo è ormai magna pars, si è fatto sempre più attivo e aggressivo". Il problema, secondo Gatti, è che "la pericolosità di personaggi come Pallavidini non viene presa nella giusta considerazione. Recentemente c'è stato il caso Casseri, ma prima c'era stato l'omicidio/suicidio di Stefano Anelli, noto saggista 'cospirativista'. Purtroppo si tende a presentare questi personaggi come degli eccentrici e basta".

Il comitato
“Se non ora quando”, insultato dal professore (secondo il quale le donne che manifestano dovrebbero “essere deportate nei lager”) replica con Francesca Izzo: “Non ci sono davvero commenti. Penso che le autorità scolastiche dovrebbero intervenire. Una persona che fa determinate affermazioni, mi sembra assolutamente inadatta a svolgere la funzione di docente”.

Quanto a Pallavidini, sulla sua pagina Facebook, dove continua a raccogliere i complimenti di giovani neofascisti, ha voluto ringraziare "tutti i camerati per la loro solidarietà". "Volevo togliere il mio profilo da Facebook, ma ho deciso di perseverare. Il contatto fra di noi è troppo prezioso da regalare alla manovalanza sionista che ci spia", ha scritto il docente.

(05 gennaio 2012)

Assalto fascista a prostitute e trans Paura, dieci contusi nello scontro




Al grido di 'Viva il Duce!', quattro giovani della provincia di Ancona hanno assalito armati di estintori e di una tanica di gasolio un gruppo di prostitute romene e trans italiani, che ieri notte si prostituivano lungo la Statale 16, a Porto Sant'Elpidio (Fermo).

Il raid ha lasciato sul campo una decina di contusi, e poco dopo, grazie alla descrizione fornita dalle vittime, i quattro autori dell'assalto sono stati identificati e denunciati dai Carabinieri. A bordo della loro vettura avevano anche una tanica piena di urina, probabilmente destinata ad un successivo 'lancio'. Si erano procurati gli estintori rubandoli da alcuni distributori di benzina della zona. Dovranno rispondere di questo furto, e di lesioni personali, getto pericoloso di cose e danneggiamento.

Non è escluso che la banda sia la stessa che un anno fa aveva dato vita ad un'analoga spedizione anti-prostitute.

(05 gennaio 2012)

Torino, prof neo-nazista su Facebook "Potrei fare una strage in sinagoga"


Renato Pallavidini 


di MARCO PASQUA

Minaccia di fare una strage, pistola alla mano, nella sinagoga di Torino. Vorrebbe anche giocare "al tiro a segno" con gli stranieri che spacciano sotto la sua abitazione. Frasi choc, firmate da un docente torinese, già finito al centro di uno scandalo, nel 2007: Renato Pallavidini, ai tempi insegnante nel liceo Cavour, venne accusato di essere negazionista  e di aver offeso la memoria delle milioni di vittime dell'Olocausto.

Ora torna a colpire, con una serie impressionante di deliri antisemiti e xenofobi, usando la platea virtuale che gli è offerta da Facebook e da un profilo nel quale campeggiano numerose foto del
Duce e di Hitler. A quest'ultimo attribuisce il merito di aver "sconfitto gli ebrei".

Molto attivo nelle pagine dei militanti neofascisti, ai quali dispensa consigli e inviti a organizzare una "lotta durissima", Pallavidini, classe 1956, è attualmente in malattia (retribuita fino al 31 marzo 2012). Ma, secondo quanto riferito dallo stesso, è ancora titolare di una cattedra al liceo classico d'Azeglio, di Torino. E qui, secondo l'orario disponibile sul sito della scuola, ha insegnato nell'anno scolastico 2010/2011.

Con alcuni studenti è ancora rimasto in contatto, proprio attraverso il suo profilo Facebook. E' qui che dà spazio ai suoi
insulti contro ebrei, omosessuali, disabili e immigrati. Arrivando persino a minacciare di compiere una strage. Il 29 dicembre, dopo aver pubblicato una foto con una stretta di mano tra il Duce e Hitler, si rivolge ai gestori di Facebook: "Avviso ai luridi bastardi ebrei che ci controllano in quella terra di merda e di froci chiama California. Se mi togliete questa foto, vado con la mia pistola, alla sinagoga vicinissima a casa mia e stendo un po' di parassiti ebrei che la frequentano. Vi conviene stuzzicare il can che dorme?".

Pochi giorni prima, il 23 dicembre, se l'era presa con alcuni spacciatori: "Vicino a casa mia, a Torino, c'è una piazzetta dove stazionano ogni sera almeno 7/8 negroni che spacciano. C'è qualcuno che mi aiuta nel tiro a segno?". Un amico virtuale gli propone di lanciare una granata. "Vedo che basta gettare il sasso e le idee proliferano", gli risponde il docente di storia e filosofia.

Non si fa problemi neanche ad inviare un'e-mail al sindaco di Torino, Piero Fassino, in cui dichiara di rifiutarsi di pagare l'Ici "per l'assistenza a negri, zingari, ecc, nonché mongoloidi e handicappati. Applicate la politica del dott. Mengele. Le grane me le cerco, ma c'è bisogno anche di un urlo liberatore, visto che non si può usare il mitra", scrive in uno status il 23 novembre.

A chi gli chiede spiegazioni circa la sua vicenda professionale e le accuse di negazionismo, risponde paragonandosi ad Hitler: "Sono insegnante di storia e filosofia in un liceo classico - afferma il 5 agosto - e, infatti, nel 2007 gli ebrei hanno cercato di farmi fuori senza riuscirci. Alla fine sono riusciti a farmi assegnare solo due settimane di sospensione nel 2008, poi ho fatto ricorso e l'ho vinto. Hanno dovuto reintegrarmi lo stipendio e lo scatto d'anzianità. Sono molto orgoglioso di essere una delle poche persone, dopo la morte del Führer, che è riuscita nel suo piccolo a sconfiggere gli ebrei".

Una "vittoria" che ha anche voluto ribadire in un'e-mail provocatoria inviata all'Osservatorio sul pregiudizio anti-ebraico della Fondazione Cdec di Milano: "Io comunque ho avuto la piena riconferma della mia cattedra liceale, alla faccia vostra".

Si vanta anche di aver visitato la tomba del "camerata Hess", nel 1989, e "di avervi deposto fiori". "Lo spirito del camerata Hess - sentenziava il 21 luglio - sarà sempre presente nel mio. Heil Hitler!".

Dopo essersela presa con le "femministe represse" - durante i giorni delle manifestazioni del gruppo di "Se non ora quando" - auspica che queste vengano "deportate in massa nei lager". Quando viene inviata una busta con proiettili al presidente del Consiglio, Mario Monti, e a
Silvio Berlusconi, esulta: "Finalmente qualcosa si muove". Ma non risparmia neanche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

E quello che potrebbe sembrare, stando a questi deliranti affermazioni, un nuovo e pericoloso Gianluca Casseri , rivolge un pensiero proprio all'autore della strage di Firenze : "Camerata Casseri Presente", afferma il 13 dicembre, commentando la notizia della sparatoria in cui persero la vita due senegalesi.

Raggiunto telefonicamente, si limita a parlare di "provocazioni" e dice: "Perché le devo spiegare il senso di quello che scrivo su Facebook? Da quando le comunità ebraiche mi hanno attaccato, il mio atteggiamento verso di loro è cambiato". Poi sul sito avverte tutti di "fare attenzione" perchè "siamo sorvegliati da Repubblica".

 
(05 gennaio 2012)