giovedì 5 marzo 2009

Almirante: «Non voglio morire da fascista»



di Daniele Protti

«Ma lei pensa davvero che io continui a fare politica per guidare un partito destinato comunque a morire perché una generazione va al cimitero e un’altra in galera?»: furono le prime parole di Giorgio Almirante, dopo il suo invito a spegnere il registratore. Era il settembre del 1980.

Da più di un mese la strage del 2 agosto alla stazione di Bologna era definita “fascista” dalla maggioranza della stampa e della tv. A Giuliano Zincone (direttore de Il Lavoro di Genova), Gad Lerner e Francesco Cevasco (caporedattori) proposi di intervistare il segretario del Msi. L’unica resistenza venne dai tipografi dello storico quotidiano ex socialista (acquistato da Rcs a fine anni Settanta), già diretto anche da Sandro Pertini: «Ma come, diamo la parola a un fascista?». In tipografia, accanto alle rotative, la discussione fu animata ma serena, c’era un clima di reciproca fiducia, quasi familiarità. Bei tempi. L’intervista fu concordata con la collaborazione del deputato Francesco Giulio Baghino, eletto a Genova. La condizione posta era ovvia: correttezza nel riportare le risposte del leader missino. Appuntamento fissato nello studio di Almirante, al gruppo parlamentare della Camera, dove il segretario arriva puntualissimo. Appare stanco, con il viso tirato. Non si inquieta mai, anche di fronte alle domande sugli attentati marcati dall’estrema destra (Peteano nel 1972, Brescia e Italicus nel 1974, senza contare piazza Fontana nel 1969). Tradisce un certo nervosismo quando rigetta i sospetti sulla “firma” fascista della strage di Bologna. L’intervista si avvia alla fine, Almirante argomenta lo “sciacallaggio” dei partiti (dal Pci alla Dc) contro il Msi e non nasconde proprio la sua inquietudine per l’esistenza di frange estremiste di destra, anch’esse contro il Msi.

«La prego, spenga il registratore. Quello che le dirò ora esula dall’intervista. Ho l’impressione che lei sia educato, ma non convinto delle mie risposte. Anzi. Allora sono io che le pongo una domanda. Con una premessa. Sto a Montecitorio dal 1948, da più di trent’anni. Il Msi si è trasformato, da quel nucleo iniziale di reduci del fascismo. Ormai fa parte stabilmente della geografia politica dell’Italia repubblicana. È stato un processo lento e difficile. Bene: ma lei crede davvero che io possa pensare di chiudere la mia carriera, la mia vita politica, facendo il becchino di un partito che muore perché una generazione si spegne per motivi anagrafici e un’altra perché chiusa in galera? Crede davvero che sia così miserabile da avere questa ambizione da nostalgico rincoglionito?».

Lo sguardo non è quello cui ero abituato, ironico e sarcastico, a volte beffardo. È uno sguardo sofferto, quasi angosciato, come le parole, che fluiscono veementi. E irate. Mi sembra sincero, sono sorpreso. «Le dirò di più: io non voglio morire da fascista. Tanto che sto lavorando per individuare e far crescere chi dovrà prendere le redini del Msi dopo di me. Giovane, nato dopo la fine della guerra. Non fascista. Non nostalgico. Che creda, come ormai credo anch’io, in queste istituzioni, in questa Costituzione. Perché solo così il Msi può avere un futuro. Altrimenti è costretto a sparire. Capisce perché sono così deciso nel negare qualsiasi legame con chiunque abbia messo la bomba di Bologna? È un nemico anche del Msi». Poi, dopo un attimo, aggiunge (e per la prima volta sorride): «Nulla di tutto questo è registrato, spero di non dover rivivere il solito film delle smentite e controsmentite. Ma Baghino mi ha detto che lei è perbene, anche se tutt’altro che di destra. Buon lavoro». L’intervista uscì su Il Lavoro ovviamente soltanto con le parti registrate. E Baghino era tutto felice («il segretario è soddisfatto!»).

Un anno dopo, Giampiero Mughini, su L’Europeo, scrisse di Gianfranco Fini come giovane emergente nel Msi, di cui diverrà per la prima volta segretario nel 1987, pochi mesi prima della morte di Almirante (22 maggio 1988). Racconto ampiamente, per la prima volta, questa storia perché può essere utile per capire il percorso dal reduce di Salò al protagonista di Fiuggi (il funerale del Msi, la nascita di Alleanza nazionale), che è proprio il tema di questo numero de L’Europeo.

Il percorso dell’estrema destra, tra rappresentanza istituzionale e nuclei eversivi e violenti. «La politica è sangue e merda», diceva il socialista Rino Formica, in modo brutale ma efficace. Poi, più tardi, aggiunse: «Ma talvolta riesce a diventare persino nobile».

Daniele Protti
03 marzo 2009

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