mercoledì 21 gennaio 2009

"America, meriti di essere felice"

LA STAMPA
21 GENNAIO 2009

E’ quando il guanto verde di Michelle si posa sulla spalla sinistra di Barack Hussein Obama che gli Stati Uniti hanno il loro 44° presidente, il primo afroamericano, intenzionato a far prevalere «la speranza sulla paura, l’unità sulla discordia». E’ mezzogiorno e un minuto e per la Costituzione tanto basta per l’insediamento. Obama è intento a guardare verso la marea umana di oltre due milioni di anime assiepata nel Mall, ascolta il violoncello di Yo-Yo Ma. E Michelle, sedutagli dietro, gli batte un colpo per avvertirlo che il momento atteso è davvero arrivato. Il gesto famigliare risalta in una cerimonia formale e solenne, il grande rito con cui la democrazia americana si rinnova ogni quattro anni e che in questa occasione ha per protagonista un uomo che incarna la volontà collettiva di far rinascere, ricostruire, l’America richiamandosi a quanto ha di più sacro: il testo della Costituzione, verbo vivente dei Padri Fondatori.

Tutto inizia quando «The Beast», la nuova limousine presidenziale, va a prendere Barack e Michelle alla Blair House per portarli, con un viaggio di pochi minuti nella chiesa episcopale di St John’s, il tempio dell’aristocrazia bianca, anglosassone e protestante. Per un’ora gli Obama e i Biden sono in raccoglimento nella «Chiesa dei presidenti» nel solenne preambolo del cerimoniale che poco più tardi vede i gradini di Capitol Hill accogliere la nomenklatura dell’ultima grande potenza del Pianeta rispettandone i riti. Solo quando senatori, deputati, giudici della Corte Suprema, generali e ospiti illustri, come Mohammed Ali, sono tutti ordinatamente seduti e silenti entrano gli ex presidenti, già custodi della Costituzione. Entrano in ordine di anzianità nell’incarico, ognuno a modo suo. Jimmy Carter al braccio di Rosalynn con un cappello marrone in mano che lo fa sembrare ospite, George Bush avvolto in sciarpa viola assieme alla moglie Barbara che esordisce con un «Good Morning!» da padrona di casa, Bill Clinton con una vivace sciarpa gialla assieme ad una Hillary raggiante e infine i Bush, con Laura tesa e George W. intento a dissimulare la tensione scherzando con i reporter.

La loro presenza è il cuore dell’insediamento perché attesta continuità con la Storia. Ma dietro le quinte gli ex potenti hanno bisticciato: Bill Clinton ha voltato le spalle a Carter, a cui rimprovera ancora le critiche sul Sexgate con Monica Lewinsky, mentre Hillary se l’è presa con il senatore repubblicano John Cornyn, che ne ostacola la conferma al Dipartimento di Stato, riservandogli un gestaccio poco signorile. La nuova America si affaccia sul Capitol con l’entrata di Malia e Sasha, seguite dalla nonna Marian Robinson, nipote di schiavi della Sud Carolina, e da Michelle, salutate dal primo vero boato del popolo del Mall. Obama è l’ultimo ad arrivare, quando viene annunciato le sedie del parterre del Capitol tremano per effetto del terremoto di gioia che arriva dal Mall. Dianne Feinstein, regista dell’Inauguration, dà la parola a Rick Warren, il pastore conservatore di Saddleback che chiude gli occhi e pronuncia l’invocazione che fa diventare umidi gli occhi a Marian Robinson e porta al raccoglimento gli «Obama People»: «Il Signore è Nostro Dio, il Signore è Uno. Siamo grati, Signore, per il primo presidente afroamericano. Martin Luther King grida di gioia dal paradiso. Noi americani siamo uniti non dalla razza o dal sangue ma dall’impegno per la libertà e la giustizia per tutti». Se la prima frase è una citazione della Bibbia, l’ultima viene dalla Costituzione. E’ il legame in cui si riconoscono i marines in alta uniforme, il coro dei «Boys and Girls» di San Francisco e Aretha Franklin, leggendaria interprete del soul, che canta «Let Freedom Ring!», «Suona, libertà».

L’emozione è tale che, sommata alla bassa temperatura, causa un malore a Ted Kennedy, che durante il pranzo d’onore al Congresso viene colto da convulsioni e ricoverato in ospedale, dove decidono di tenerlo in osservazione tutta la notte in ragione del tumore al cervello. Ventuno megaschermi rilanciano fino al Potomac immagini e suoni di quanto avviene sul Capitol, consentendo ad ognuno di vedere da vicino gli stendardi delle guardie d’onore, i sorrisi di Hillary e Malia che scatta foto. Per chi sta in piedi dentro la folla nel gelo del Mall il potere è vicino, a portata di mano, ci si sente parte di un cerimoniale democratico. Quando Feinstein chiama il giudice John Roberts a far giurare Obama sulla Bibbia di Lincoln tenuta da Michelle, con un ritardo di sei minuti rispetto alle 12, Washington ammutolisce. Un silenzio irreale circonda Barack mentre inciampa nella ripetizione della formula del giuramento, costringendo Roberts a ripeterla. L’uomo più calmo d’America cede all’emozione e il suo popolo lo travolge d’affetto con un imponente grido «O-ba-ma, O-ba-ma» simile a quello dei comizi. Appena inizia a parlare, ogni esitazione sparisce, Obama torna quello di sempre e il messaggio di cui si fa portatore parte dalla Costituzione: «Restiamo una nazione giovane, portatrice della nobile idea che tutti siamo uguali, liberi e meritiamo la possibilità di perseguire la felicità». Per gli americani questo significa «abbandonare i dogmi» che «imprigionano la politica» e «iniziare a lavorare assieme per ricostruire la nazione».

E al mondo dice: «Siamo amici di ogni Paese, ogni uomo, donna e bambino che persegua un futuro di pace e dignità». Ciò non significa abbassare la guardia contro i nemici: «Non vacilleremo nella difesa del nostro modo di vita, a chi pensa di piegarci col terrore diciamo: “Non potete sconfiggerci”». Ma l’intento è allungare la mano verso tutti per «riconquistare la guida del mondo» cominciando da un nuovo approccio ai Paesi poveri «perché promettiamo di lavorare con voi» e all’Islam: «Ai musulmani diciamo: “Cerchiamo una nuova strada in avanti, fondata sui mutui interessi e il mutuo rispetto”». Obama parla con umiltà e esprime tolleranza convinto che l’America possa, grazie all’esempio dei Padri Fondatori, «avvicinare una nuova era di pace». E sull’economia il messaggio è centrista: «I mercati devono restare aperti ma qualcuno deve controllarli» per evitare le catastrofi. I suoi avversari sono i cinici, che ieri non credevano al sogno di Martin Luther King e oggi non credono alla possibilità di sconfiggere la recessione e di ricostruire il prestigio dell’America. E’ a costoro che manda a dire: «Sessanta anni fa mio padre avrebbe avuto difficoltà a trovare un lavoro nella città dove oggi presto il giuramento più alto».

Come dire, in America niente è impossibile. Quando termina sono le note di «Hail to the Chief», l’inno del presidente, che lo accompagnano all’uscita e, in un gesto di insolita cortesia che ribadisce lo spirito bipartisan, accompagna Bush e Laura fino alla scaletta dell’elicottero con cui abbandonano Washington. La giornata si chiude con la parata dei 50 Stati, la passeggiata con Michelle lungo Pennsylvania Avenue e i dieci balli presidenziali nella notte, ma Barack ha soprattutto fretta di iniziare a lavorare. Il consigliere legale Gregory Craig è il primo a entrare nello Studio Ovale, mette le nuove carte sulla scrivania e prepara l’agenda di oggi, che già scotta: lotta alla recessione, ritiro dall’Iraq e truppe in Afghanistan.

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