
Critiche al governo. Bacchettate alla Lega. Affondo sui temi etici. Sintonia con il Quirinale. Così il presidente della Camera lancia la sfida per l'egemonia culturale della destra. E raccoglie consensi. Anche nel Pd
La croce celtica, lui non l'ha mai messa: "Almirante lo avrebbe preso a schiaffi", giurano gli amici di due o tre vite fa. Gianfranco Fini, quando è libero da cravatte istituzionali, al collo ostenta un rassicurante cornetto rosso di corallo che riassume la sua più grande passione, le immersioni subacquee (nel mare dell'Argentario, in attesa della seconda figlia con Elisabetta Tulliani), e la sua principale virtù politica: l'abilità di cogliere al volo le situazioni, anche quelle più sfavorevoli, l'opportunismo che ti permette di afferrare il colpo di fortuna, il caso, il fattore C. e di tramutarlo in occasione.
Sabato 8 agosto il presidente della Camera ha trasformato una tranquilla visita-lampo a Marcinelle per commemorare i 136 lavoratori italiani morti nella miniera di Bois de Cazier 53 anni fa, in 180 minuti ad alta tensione. Prima ha abbandonato il testo scritto e ha ricordato sferzante "quanti veneti, piemontesi, lombardi emigrarono ai politici che oggi in Italia rappresentano gli elettori del Nord: in Belgio non erano extracomunitari solo perché la parola non era stata inventata, ma li chiamavano musi neri". Come dire che tra i figli dei musi neri ci sono anche loro, i leghisti: l'intervento più duro in materia nelle ore in cui entrava in vigore il reato di immigrazione clandestina introdotto dal ministro padano Roberto Maroni. Poi è passato a dare un ceffone ai falchi del Pdl, questa volta sulla pillola abortiva Ru496: "Non spetta al Parlamento occuparsi di un farmaco". "Sembrano i discorsi di un uomo di sinistra, ma sono le parole di un uomo di Stato", ha commentato il quotidiano che lo segue con maggiore attenzione e curiosità: 'l'Unità'.
In 15 mesi il leader ha reinventato se stesso: da annoiato capo-partito costretto a traccheggiare tra un pranzo a palazzo Grazioli e un ufficio politico con i colonnelli di An, in vista di una successione al Cavaliere che non arrivava mai, ad autorevole riserva istituzionale. Il primo a incoraggiare la metamorfosi è stato Giorgio Napolitano, un legame personale che si è evoluto in un gioco di sponda senza precedenti. I colloqui telefonici tra i due sono quasi quotidiani. Scambi di opinione da cui nascono prese di posizione che mettono in difficoltà la maggioranza berlusconiana. L'intervento a tenaglia sulle intercettazioni, per esempio: i rilievi di Napolitano che hanno bloccato il disegno di legge al Senato ricalcano quelli espressi alla Camera dal presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, ascoltatissima consigliera di Fini. E poi i rimproveri al governo, i continui appelli a non mortificare le Camere con decreti e voti di fiducia, ripetuti in tandem, in perfetta sintonia. Al punto che, osserva qualcuno, Fini sta introducendo una figura non prevista dalla Costituzione: il vice-presidente della Repubblica.
I due, la prima e la terza carica dello Stato, condividono soprattutto l'operazione più ambiziosa messa in campo da Fini: ricostruire l'unità nazionale, lacerata dalla Lega e dalle divisioni tra Nord e Sud, il "patriottismo costituzionale", come lo definisce il presidente della Camera. Ripartire non da un generico amore patrio, ma nientemeno che dalla Costituzione antifascista. E proporre se stesso come il garante del nuovo arco costituzionale, che fissa le regole e esclude chi non ci sta: fuori la Lega secessionista, in bilico il Berlusconi che terremota le istituzioni. Un bel salto per chi, tanti anni fa, sparava a zero sull'arco della prima Repubblica fondato su Dc e Pci, "Andreotti, Berlinguer, l'Autonomia hanno le stesse origini culturali e politiche: la democrazia intesa come sistema e non come metodo, la certezza che tutti gli uomini abbiano uguali capacità, il rifiuto della selezione e delle gerarchie come idee-forza", recitava nel febbraio '78 l'editoriale di 'Dissenso', il foglio dei giovani del Msi, direttore il ventiseienne Fini. Tutto alle spalle, oggi "la sua scommessa è fare i nuovi italiani, quelli dei prossimi 15 anni, senza azzerare il passato, modernizzare recuperando la memoria. Una politica senza radici non esiste", spiega Alessandro Campi, lo storico che dirige la fondazione Fare Futuro, l'ideologo della nouvelle vague finiana che si muove su quattro versanti.
C'è il Fini presidente della Camera che dal seggio più alto di Montecitorio fa politica ai massimi livelli: vedi il via vai nella sala della Lupa al primo piano della Camera, dove non passa settimana senza un convegno, una commemorazione, l'inaugurazione di una mostra, una visita internazionale. C'è il Fini nume tutelare di Fare Futuro. C'è il Fini punto di riferimento in Parlamento di uno schieramento trasversale che comprende deputati del Pdl e del Pd e sforna progetti comuni, dalla legge sulla cittadinanza al testamento biologico. E c'è il Fini co-fondatore del Pdl che manovra per sbaraccare il triumvirato Bondi-Verdini-La Russa e azzerare la rendita degli ex di An.
Quattro movimenti che compongono la partitura del Finismo, un non sempre coerente impasto di nazione e libertà, valori e laicità, tradizione e modernità, la corrente più trendy della stagione. Avversato dagli intimi di Gianfranco di ieri, i Gasparri e i La Russa che si lasciano andare a scene di gelosia, ripicche, rappresaglie. Sarà una combinazione, ma per ora il nome di Fini non compare nel programma del raduno dei giovani del Pdl a Roma: sarà aperto da Berlusconi, il presidente della Camera non c'è, e sarebbe la prima volta. Un anno fa fu quasi contestato quando di fronte alla platea e al ministro Giorgia Meloni difese con forza l'antifascismo. Poco importa, anzi, meglio così, l'ostilità dei vecchi camerati rende più credibile il progetto che verrà. E poi, in compenso, c'è l'invito del Pd: all'inizio di settembre sarà Fini l'ospite d'onore della festa nazionale del partito a Genova.
Con lui sono contesi nei salotti e nelle redazioni i neo-finiani: ex destra nazionale, ex eretici del Msi, ex radicali e una battitrice libera come Giulia Bongiorno, l'avvocato ministra della Giustizia ombra del gruppo che fa impazzire il collega berlusconiano Niccolò Ghedini. Intellettuali come Campi che pugna alla pari sui giornali con il suo ex maestro Ernesto Galli della Loggia, l'animatore del web-magazine di Fare Futuro Filippo Rossi baciato da improvvisa fortuna ("Siamo i nuovi radical chic", scherza), il politologo Angelo Mellone, il direttore del 'Secolo' Flavia Perina, la segretaria dell'Ugl Renata Polverini, che nel 2010 potrebbe essere candidata alla presidenza della Regione Lazio in alternativa a uomini della vecchia An come Fabio Rampelli e Andrea Augello. E poi la professoressa Sofia Ventura, autrice del commento sulle veline del Pdl in lista alle europee che provocò la reazione di Veronica Lario, il deputato ex radicale Benedetto Della Vedova con l'associazione Libertiamo. Un drappello di ex aennini che ruota attorno al deputato siciliano Fabio Granata, più il massiccio Marco Martinelli, compagno di immersioni di Fini, figlio di Vittorio, un dirigente del Msi protagonista di storiche scazzottate in era Almirante: l'unico nome inserito personalmente da Fini nell'ufficio di presidenza del Pdl e ben piazzato per ruoli più importanti.
Una squadra eterogenea che ha l'ambizione di fornire al partitone oggi berlusconiano, domani chissà, quello che manca totalmente: pensiero oltre che potere. Una sfida per l'egemonia culturale, inedita a destra, lanciata a Berlusconi, "l'uomo dell'eterno presente", lo bollano con una punta di disprezzo i guru finiani, loro si occupano del futuro, sottinteso. Paradossale che a ingaggiare la battaglia delle idee sia un leader considerato pragmatico e poco sensibile agli intellettualismi. Eppure Fini intuisce che nel vuoto di elaborazione culturale, desolatamente affidata ai Quagliariello e ai Bondi, ci siano per lui le praterie politiche, nel Pdl e non solo.
Con la fondazione Italianieuropei di Massimo D'Alema un anno fa Fare Futuro organizzò un convegno nel profondo Veneto, ad Asolo, per smantellare l'impianto del federalismo targato Lega. L'esperimento è piaciuto e si ripeterà a metà ottobre, alla presenza dei due capi, sempre nel cuore del Nord-Est leghista, e su un'altra questione bollente, l'immigrazione. Come sventolare un drappo rosso in terra verde. Prima delle vacanze gli sherpa delle due fondazioni si sono incontrati per mettere a punto programma e relatori. "Ci siamo trovati d'accordo su tutto", racconta Luigi Di Gregorio, giovane testa d'uovo del think tank finiano. Italianieuropei e Fare Futuro sono protagoniste anche del network tra istituti storici messo in piedi con la benedizione della Camera. Un altro legame tra Fini e D'Alema è l'associazione Italia Decide, presieduta da Luciano Violante con l'inserimento di Campi nel gruppo di testa.
L'immigrazione e poi la bioetica, tema chiave, oggetto di un seminario di Fare Futuro con la fondazione tedesca Adenauer all'inizio di ottobre. Sul testamento biologico al congresso del Pdl di fine marzo Fini segnalò il suo dissenso: "Siete sicuri che la legge votata dal Senato sia un modello di laicità?". Domanda accolta dal gelo della sala: ma ora le sue idee stanno facendo scuola tra i deputati del Pdl, dove si studiano emendamenti meno restrittivi sul divieto di sospendere idratazione e alimentazione al malato, il punto centrale della legge, in grado di raccogliere il consenso anche del Pd. Se la sua mediazione dovesse passare Fini potrebbe dimostrare alle gerarchie ecclesiastiche che sulle questioni etiche si ottiene di più con il dialogo che con il muro contro muro dei pasdaran clericali sostenuti da Berlusconi. La conferma che la moral suasion funziona, come si dichiara convinto Napolitano. Alla scadenza del mandato dell'attuale inquilino del Quirinale mancano ancora quattro anni, si voterà con un altro Parlamento. E il sub Fini agli amici ripete spesso qual è il segreto per portare a termine una buona immersione: "Non bisogna mai guardare verso l'alto", altrimenti l'impresa mette paura. Ma al Colle più alto il vice-presidente ci pensa, eccome. Se il corallo a forma di cornetto aiuta.
(13 agosto 2009)
Sabato 8 agosto il presidente della Camera ha trasformato una tranquilla visita-lampo a Marcinelle per commemorare i 136 lavoratori italiani morti nella miniera di Bois de Cazier 53 anni fa, in 180 minuti ad alta tensione. Prima ha abbandonato il testo scritto e ha ricordato sferzante "quanti veneti, piemontesi, lombardi emigrarono ai politici che oggi in Italia rappresentano gli elettori del Nord: in Belgio non erano extracomunitari solo perché la parola non era stata inventata, ma li chiamavano musi neri". Come dire che tra i figli dei musi neri ci sono anche loro, i leghisti: l'intervento più duro in materia nelle ore in cui entrava in vigore il reato di immigrazione clandestina introdotto dal ministro padano Roberto Maroni. Poi è passato a dare un ceffone ai falchi del Pdl, questa volta sulla pillola abortiva Ru496: "Non spetta al Parlamento occuparsi di un farmaco". "Sembrano i discorsi di un uomo di sinistra, ma sono le parole di un uomo di Stato", ha commentato il quotidiano che lo segue con maggiore attenzione e curiosità: 'l'Unità'.
In 15 mesi il leader ha reinventato se stesso: da annoiato capo-partito costretto a traccheggiare tra un pranzo a palazzo Grazioli e un ufficio politico con i colonnelli di An, in vista di una successione al Cavaliere che non arrivava mai, ad autorevole riserva istituzionale. Il primo a incoraggiare la metamorfosi è stato Giorgio Napolitano, un legame personale che si è evoluto in un gioco di sponda senza precedenti. I colloqui telefonici tra i due sono quasi quotidiani. Scambi di opinione da cui nascono prese di posizione che mettono in difficoltà la maggioranza berlusconiana. L'intervento a tenaglia sulle intercettazioni, per esempio: i rilievi di Napolitano che hanno bloccato il disegno di legge al Senato ricalcano quelli espressi alla Camera dal presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, ascoltatissima consigliera di Fini. E poi i rimproveri al governo, i continui appelli a non mortificare le Camere con decreti e voti di fiducia, ripetuti in tandem, in perfetta sintonia. Al punto che, osserva qualcuno, Fini sta introducendo una figura non prevista dalla Costituzione: il vice-presidente della Repubblica.
I due, la prima e la terza carica dello Stato, condividono soprattutto l'operazione più ambiziosa messa in campo da Fini: ricostruire l'unità nazionale, lacerata dalla Lega e dalle divisioni tra Nord e Sud, il "patriottismo costituzionale", come lo definisce il presidente della Camera. Ripartire non da un generico amore patrio, ma nientemeno che dalla Costituzione antifascista. E proporre se stesso come il garante del nuovo arco costituzionale, che fissa le regole e esclude chi non ci sta: fuori la Lega secessionista, in bilico il Berlusconi che terremota le istituzioni. Un bel salto per chi, tanti anni fa, sparava a zero sull'arco della prima Repubblica fondato su Dc e Pci, "Andreotti, Berlinguer, l'Autonomia hanno le stesse origini culturali e politiche: la democrazia intesa come sistema e non come metodo, la certezza che tutti gli uomini abbiano uguali capacità, il rifiuto della selezione e delle gerarchie come idee-forza", recitava nel febbraio '78 l'editoriale di 'Dissenso', il foglio dei giovani del Msi, direttore il ventiseienne Fini. Tutto alle spalle, oggi "la sua scommessa è fare i nuovi italiani, quelli dei prossimi 15 anni, senza azzerare il passato, modernizzare recuperando la memoria. Una politica senza radici non esiste", spiega Alessandro Campi, lo storico che dirige la fondazione Fare Futuro, l'ideologo della nouvelle vague finiana che si muove su quattro versanti.
C'è il Fini presidente della Camera che dal seggio più alto di Montecitorio fa politica ai massimi livelli: vedi il via vai nella sala della Lupa al primo piano della Camera, dove non passa settimana senza un convegno, una commemorazione, l'inaugurazione di una mostra, una visita internazionale. C'è il Fini nume tutelare di Fare Futuro. C'è il Fini punto di riferimento in Parlamento di uno schieramento trasversale che comprende deputati del Pdl e del Pd e sforna progetti comuni, dalla legge sulla cittadinanza al testamento biologico. E c'è il Fini co-fondatore del Pdl che manovra per sbaraccare il triumvirato Bondi-Verdini-La Russa e azzerare la rendita degli ex di An.
Quattro movimenti che compongono la partitura del Finismo, un non sempre coerente impasto di nazione e libertà, valori e laicità, tradizione e modernità, la corrente più trendy della stagione. Avversato dagli intimi di Gianfranco di ieri, i Gasparri e i La Russa che si lasciano andare a scene di gelosia, ripicche, rappresaglie. Sarà una combinazione, ma per ora il nome di Fini non compare nel programma del raduno dei giovani del Pdl a Roma: sarà aperto da Berlusconi, il presidente della Camera non c'è, e sarebbe la prima volta. Un anno fa fu quasi contestato quando di fronte alla platea e al ministro Giorgia Meloni difese con forza l'antifascismo. Poco importa, anzi, meglio così, l'ostilità dei vecchi camerati rende più credibile il progetto che verrà. E poi, in compenso, c'è l'invito del Pd: all'inizio di settembre sarà Fini l'ospite d'onore della festa nazionale del partito a Genova.
Con lui sono contesi nei salotti e nelle redazioni i neo-finiani: ex destra nazionale, ex eretici del Msi, ex radicali e una battitrice libera come Giulia Bongiorno, l'avvocato ministra della Giustizia ombra del gruppo che fa impazzire il collega berlusconiano Niccolò Ghedini. Intellettuali come Campi che pugna alla pari sui giornali con il suo ex maestro Ernesto Galli della Loggia, l'animatore del web-magazine di Fare Futuro Filippo Rossi baciato da improvvisa fortuna ("Siamo i nuovi radical chic", scherza), il politologo Angelo Mellone, il direttore del 'Secolo' Flavia Perina, la segretaria dell'Ugl Renata Polverini, che nel 2010 potrebbe essere candidata alla presidenza della Regione Lazio in alternativa a uomini della vecchia An come Fabio Rampelli e Andrea Augello. E poi la professoressa Sofia Ventura, autrice del commento sulle veline del Pdl in lista alle europee che provocò la reazione di Veronica Lario, il deputato ex radicale Benedetto Della Vedova con l'associazione Libertiamo. Un drappello di ex aennini che ruota attorno al deputato siciliano Fabio Granata, più il massiccio Marco Martinelli, compagno di immersioni di Fini, figlio di Vittorio, un dirigente del Msi protagonista di storiche scazzottate in era Almirante: l'unico nome inserito personalmente da Fini nell'ufficio di presidenza del Pdl e ben piazzato per ruoli più importanti.
Una squadra eterogenea che ha l'ambizione di fornire al partitone oggi berlusconiano, domani chissà, quello che manca totalmente: pensiero oltre che potere. Una sfida per l'egemonia culturale, inedita a destra, lanciata a Berlusconi, "l'uomo dell'eterno presente", lo bollano con una punta di disprezzo i guru finiani, loro si occupano del futuro, sottinteso. Paradossale che a ingaggiare la battaglia delle idee sia un leader considerato pragmatico e poco sensibile agli intellettualismi. Eppure Fini intuisce che nel vuoto di elaborazione culturale, desolatamente affidata ai Quagliariello e ai Bondi, ci siano per lui le praterie politiche, nel Pdl e non solo.
Con la fondazione Italianieuropei di Massimo D'Alema un anno fa Fare Futuro organizzò un convegno nel profondo Veneto, ad Asolo, per smantellare l'impianto del federalismo targato Lega. L'esperimento è piaciuto e si ripeterà a metà ottobre, alla presenza dei due capi, sempre nel cuore del Nord-Est leghista, e su un'altra questione bollente, l'immigrazione. Come sventolare un drappo rosso in terra verde. Prima delle vacanze gli sherpa delle due fondazioni si sono incontrati per mettere a punto programma e relatori. "Ci siamo trovati d'accordo su tutto", racconta Luigi Di Gregorio, giovane testa d'uovo del think tank finiano. Italianieuropei e Fare Futuro sono protagoniste anche del network tra istituti storici messo in piedi con la benedizione della Camera. Un altro legame tra Fini e D'Alema è l'associazione Italia Decide, presieduta da Luciano Violante con l'inserimento di Campi nel gruppo di testa.
L'immigrazione e poi la bioetica, tema chiave, oggetto di un seminario di Fare Futuro con la fondazione tedesca Adenauer all'inizio di ottobre. Sul testamento biologico al congresso del Pdl di fine marzo Fini segnalò il suo dissenso: "Siete sicuri che la legge votata dal Senato sia un modello di laicità?". Domanda accolta dal gelo della sala: ma ora le sue idee stanno facendo scuola tra i deputati del Pdl, dove si studiano emendamenti meno restrittivi sul divieto di sospendere idratazione e alimentazione al malato, il punto centrale della legge, in grado di raccogliere il consenso anche del Pd. Se la sua mediazione dovesse passare Fini potrebbe dimostrare alle gerarchie ecclesiastiche che sulle questioni etiche si ottiene di più con il dialogo che con il muro contro muro dei pasdaran clericali sostenuti da Berlusconi. La conferma che la moral suasion funziona, come si dichiara convinto Napolitano. Alla scadenza del mandato dell'attuale inquilino del Quirinale mancano ancora quattro anni, si voterà con un altro Parlamento. E il sub Fini agli amici ripete spesso qual è il segreto per portare a termine una buona immersione: "Non bisogna mai guardare verso l'alto", altrimenti l'impresa mette paura. Ma al Colle più alto il vice-presidente ci pensa, eccome. Se il corallo a forma di cornetto aiuta.
(13 agosto 2009)

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