
di Ugo Leonzio
Può capitare che nel grigiore di certe giornate troppo calde e vuote ci si rivolga, per parlare con qualcuno, a certi pazienti oggetti inanimati che ci stanno davanti, un orsetto di pelouche senza un occhio, un gatto di legno, il collare di un vecchio cane scomparso da tempo. Può darsi che, per poter comunicare qualcosa che ci opprime nelle parti più oscure del cuore e che non vogliamo o non possiamo conoscere, le cose viventi debbano diventare inanimate. È una eventualità pericolosa che talvolta si mischia con l’amore.
Ricordate la a scena finale di "Il Signore delle mosche" di William Golding? Un maiale selvatico viene decapitato da un branco di ragazzini abbandonati su un’isola deserta e tornati primitivi. In preda a istinti di nuovo feroci lo inseguono, lo catturano, gli mozzano la testa e la infilzano grondante di sangue e con gli occhi sbarrati su un palo tra fuochi, urla e danze. In breve diventa la buia divinità dell’isola. Finalmente morto, il suo grugno inebriato di mosche rappresenta il sentiero che schiude le porte l´invisibile. Quando le mosche cominciano a ingozzarsi con il loro corrotto brulicare di morte, l’essere inanimato ci rivela una qualità nascosta, qualcosa che di solito definiamo, con insaziabile approssimazione, bellezza. Le cose prive di vita, che l’hanno perduta o che non l’hanno mai posseduta, possono traghettarci in luoghi che gli occhi stentano a vedere e la mente a capire. Per questo la distinzione tra cose animate e inanimate è, sovente, all’origine dei nostri dolori.
Quando avremo la capacità di ottenere risposte brillanti e consolatorie da un tarlatissimo topo di pezza targato Ikea avremo forse vinto un posticino in un asilo psichiatrico ma, contemporaneamente, staremo seguendo, lo stesso sentiero battuto da Glenn Gould quando posò per la prima le sue mani sul leggendario, geloso, irritabile, sospettoso CD 318. Non sottovalutate mai quegli strani animali che dormono per anni nelle morbide pieghe di un divano. Sanno trovare il modo per consolarci.
Il lussuoso appartamento di Glenn Gould sulla Saint Clair Avenue West di Toronto era talmente trascurato da sembrare un porcile. Mobili scialbi e molto usurati appartenuti ad anonimi inquilini, interi campionari di medicinali, antidolorifici, tranquillanti, cataste di fogli, succhi di frutta, barattoli di caffè solubile vuoti, innumerevoli scatole di biscotti di fecola che gli addetti alle pulizie si limitavano a spostarli da un posto all’altro. Era un luogo di culto e l’oggetto di questo culto non poteva che essere inanimato. Faremmo un grave errore definendo pianoforte la trasformazione in divinità di un abete dell’Alaska, ma l’oggetto di culto che Gould aveva scovato in un angolo buio dietro le quinte dell’auditorium di Eaton, famoso centro commerciale di Toronto, era proprio uno di quegli strumenti.
IL LEGGENDARIO STEINWAY Dopo averlo cercato per mezzo mondo Gould incontrò il suo dio dei suoni a dieci minuti da casa il 22 giugno 1960. Era un essere polveroso, trasandato, maltrattato, pieno di graffi come un vecchio gatto e pronto per essere svenduto il leggendario Steinway CD 318. Le sue qualità eccelse non erano mai state riconosciute dai troppi pianisti che lo avevano usato. Qualcuno lo aveva odiato. Ci voleva un genio che sapesse ascoltare il silenzio di un pianoforte, il silenzio della musica. Gould sollevò il copritastiera e cominciò a suonare e quello che avvenne, indescrivibile come un sorriso d’estate o un incontro d’amore, potrete capirlo ascoltando l’Intermezzo op. 117 n.2 di Brahms registrato a New York poco dopo l’incontro. Non fu solo quell’essere morente e in rovina a trasformare Glenn Gould in un mito della musica ma soprattutto Gould, nella sua adorazione nutrita di analgesici e biscotti di fecola, a estrarre l’anima segreta di quell’essere umiliato e a trasformarlo in una leggenda che gli sarebbe sopravissuta (anni dopo Gould confessò a Verne Edquist, il suo geniale accordatore, che sarebbe stato felice se il CD 318 si fosse limitato a suonare da solo al suo posto).
Se volete sapere tutti i particolari di questa storia d’amore, di questa passione simile a un verdetto e se amate Gould e se il vostro cuore chiede un po’ di gioia, leggete il libro di Katie Hafner "Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto" (Einaudi ). È lei che ha saputo trasformare il maiale selvatico in un pianoforte a coda altrettanto nero e pesante. Nel frattempo, Glenn Gould e il suo CD 318 e l’Intermezzo di Brahms sono alla National Library di Ottawa, in attesa che qualcuno sappia parlare ancora e delicatamente con il loro muso coperto di mosche.
18 agosto 2009
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