sabato 15 agosto 2009

L'ultimo Eden è in Mozambico


PIETRO DEL RE


TELUANE (MOZAMBICO) - "Cuidado com as ratoeiras", attenti alle tagliole, ci avevano avvertiti a Maputo. Ma nel cuore dell'ultimo Eden africano è difficile vederle, le trappole per catturare piccole antilopi, perché ben nascoste dai cacciatori.

Così come non si incrociano facilmente quei grassi e velenosissimi serpenti che abitano in questa giungla, né ragni robusti e pelosi, anch'essi dal morso mortale. Durante le poche ore trascorse sul Monte Mabu, abbiamo però incontrato uccelli, rane, camaleonti, farfalle, coleotteri e fiori di ogni forma e colore. Sulla chioma di un albero alto una trentina di metri, abbiamo anche intravisto la scimmia samango e, ai piedi dello stesso, un curioso topolino con il naso a forma di tromba.

Come spiega Tereza Alves, ricercatrice dell'Istituto di agraria di Maputo, la foresta del Monte Mabu è stata esplorata per la prima volta soltanto pochi mesi fa. Prima di allora era un puntino bianco sulle mappe geografiche. Uno dei pochi rimasti. Dice la Alves: "Volevamo studiare la biodiversità delle montagne del Mozambico. Ora, vista la loro vastità, siamo ricorsi a GoogleEarth: le foto satellitari scattate sul Mabu mostravano una zona di colore verde intenso. Così intenso che poteva essere solo una foresta vergine". Il primo sopralluogo ha confermato quest'intuizione. Attorno al Mabu si estende una foresta primaria di settemila ettari, la più vasta giungla di montagna del sud dell'Africa. Nessuno, se non le popolazioni locali, l'aveva ancora attraversata.

A deflorarla scientificamente è stata, lo scorso novembre, una spedizione organizzata da Johnathan Timbelake, del britannico Royal Kew garden. In pochi giorni, una ventina di scienziati, tra i quali botanici, ornitologi, erpetologi ed entomologi, ha scoperto: 156 specie di farfalle, di cui 5 ancora sconosciute; 126 specie di uccelli, di cui 5 in via di estinzione; e una nuova vipera lillipuziana dagli occhi gialli che, in virtù del luogo dove è stata trovata, si chiama adesso Atheris mabuensis. "Per quanto riguarda le piante raccolte sul Mabu, sono così numerose che le stiamo ancora catalogando", dice il professor Timberlake. "La straordinaria ricchezza biologica di questo luogo è la dimostrazione di come la vita si adatti a ogni nicchia ecologica. Adesso dobbiamo fare di tutto per proteggerla".

Uno scrigno che contiene tali gemme naturalistiche è ovviamente a rischio. Lo è anzitutto per la pressione demografica, che cresce anche tra queste montagne, e la cui prima conseguenza nefasta è la deforestazione. Lo è poi per la caccia indiscriminata, in paese che dal 1975 al 1992 fu devastato da una feroce guerra civile, dove le due fazioni in lotta, il Frelimo e la Renamo, massacravano gli impala, i leoni o i numerosi elefanti che una volta pascolavano in queste savane, sia per la carne con cui sfamare le proprie soldatesche sia per i trofei con cui acquistare armi e munizioni. Così è stato anche nella foresta del Mabu, dove negli anni più cruenti della guerra, i locali trovavano rifugio. Qui, tuttavia, per decenni le pareti scoscese del monte hanno scoraggiato insediamenti troppo numerosi, ecco perché, in passato, la regione è stata poco antropizzata. "A proteggere il Monte Mabu sono state anche le piantagioni di tè che lo circondavano per centinaia di ettari, e dove i proprietari europei lasciavo entrare solo una manodopera così schiavizzata che aveva poco tempo da dedicare alla caccia", spiega Tereza Alves.

Queste piantagioni sono state abbandonate circa mezzo secolo fa, perciò, prima di avvicinarti al Mabu, attraversi un bosco impenetrabile di quelli che erano arbusti da tè e che nell'incuria sono diventati alberi, dove oggi vivono popolose famiglie di macachi. Qui troviamo Diru Eltan, ancora stipendiato dalla compagnia di tè per tenere pulite le strade delle piantagioni, in attesa di un'improbabile riconversione di quella coltura in tabacco, ananas o banane. "Neanche il fuoco riuscirebbe a distruggere questo bosco di tè", dice Diru. Forse non quel fitto bosco, ma la foresta vergine sì. Salendo verso la vetta del Mabu, che sfiora i 1700 metri, incappiamo in un ettaro appena bruciato, con tronchi ciclopici ancora fumanti. Nella regione non c'è elettricità, quindi neanche seghe elettriche: per abbattere gli alberi monumentali, ci sono solo le fiamme. Una donna vestita di stracci, con una vanga in mano, ci dice che quella è la sua terra e che ne farà il suo orticello di manioca. Di lì a poco vediamo altri segnali di degrado: un bambino che stringe tra le mani, come fossero preziosissime biglie, una mezza dozzina di piccole uova turchesi depredate da un nido, e due uomini con appeso a un bastone il cadavere insanguinato di un piccolo mammifero.

Quando chiediamo spiegazioni a Tereza Alves, ci risponde che questo accade, quotidianamente, anche nei parchi nazionali del Mozambico. Figuriamoci in questa foresta che non è neanche una riserva naturale. "Quelli che cacciano o che le danno fuoco, non sono né bracconieri né piromani: sono solo persone disperate che cercano di sfamare i loro figli". E' dunque impossibile proteggerle, queste ricchezze? "Credo che oggi l'unica strada percorribile sia quella dell'ecoturismo. Al momento non vedo altre soluzioni". Una cosa è chiara. Se nessuno interverrà, tra pochi anni la foresta sul Mabu non esisterà più. Al suo posto ci saranno però mille orticelli di manioca.

(8 agosto 2009)

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