

Le storie e le vite cancellate dall’Eliseo
di Carlo Biscotto
Il primo volo che riportava in Romania alcuni Rom residenti in Francia è partito da Lione il 19 agosto, tra le polemiche, con 79 persone a bordo. Senza incidenti. Da allora le espulsioni hanno conosciuto una accelerazione e, sebbene il governo francese continui a sostenere che si tratta di “ritorni volontari” per di più incoraggiati da “aiuti economici” per chi parte, ormai in tutto il mondo si parla di “deportazioni forzate” e di “voli della vergogna”. L’aeroporto di Marsiglia ha tutta l’aria di un bivacco. Intere famiglie sono accampate nel grande salone in attesa del check-in. Molti sono qui da ore, taluni da giorni. Distesa su una coperta, Marca, che dimostra meno dei 20 anni che dice di avere, ha un sorriso franco e aperto, ma l’espressione del volto tradisce la preoccupazione, la rabbia. “Da Bucarest la mia famiglia e’ stata cacciata. E ora ci rimandano in Romania! Come faremo? Dappertutto ma non lì!”. La giovane donna si guarda intorno quasi cercasse l’approvazione di quanti la circondano e condividono il suo destino. Molti annuiscono stancamente alzando appena lo sguardo. “Sono arrivata in Francia a sette anni e qui eravamo felici”, aggiunge sconsolata. “Abbiamo costruito la nostra casa raccogliendo i materiali che i francesi buttano via. In Francia la gente butta nella spazzatura autentici tesori e sarebbe stato sciocco non approfittarne”. Accanto a Marca suo marito, Elvis, sorride timidamente. Indossa un paio di pantaloni troppo grandi e una t-shirt scolorita. Elvis ha un aspetto quasi infantile e sembra sul punto di scoppiare a piangere. “Quando mi sono sposata con Elvis avevo 14 anni e sono ancora innamorata”, dice Marca che nel gruppo di Rom che attendono di essere imbarcati alla volta della Romania è la sola che parla perfettamente francese. Elvis aggiunge nel suo francese un po’ stentato: “non è giusto, non è giusto. Ci trattano come bestie”.
Disteso sul pavimento con la testa poggiata su una valigia, Victor osserva la scena socchiudendo gli occhi e fingendo a volte di dormire. È anziano. Difficile dire quanto. Il suo sguardo sembra attraversato da ricordi lontani di viaggi, fughe, campi, fatica, dolore. Dapprima si rifiuta di parlare. “Non parlo bene francese”, si schermisce. Poi prende coraggio: “Siamo andati via dalla Romania dieci anni fa. Non c’era lavoro, non avevamo alcuna assistenza medica e io, andando avanti con gli anni, avevo bisogno di curarmi. Perché vogliono farmi tornare in Romania? Non capisco. Qui anche con piccoli lavoretti guadagnavo quanto bastava... Non sono francese, ma qui mi sentivo a casa mia”. L’altoparlante annuncia il volo “speciale” per Bucarest. Molti si affrettano, ma c’è chi se la prende comoda. Una signora di mezza età raccoglie le sue cose, prende per mano una bambina , le parla affettuosamente all’orecchio come per rassicurarla e si avvia. È’ contenta di tornare in Romania? “Contenta? Ma contenta di cosa? Anche se poi quelli come noi sono destinati a stare male dappertutto. Ma qui ci eravamo abituati. I nostri figli e nipoti per lo più frequentavano la scuola francese e cominciavamo a sperare in un futuro migliore almeno per loro”. Ha gli occhi stanchi. Nemmeno una luce di speranza nello sguardo. “Perché ci fanno questo? Perché prendersela con noi?”.
“Lasciamo tutto, ma torneremo”
LE CAMMINA ACCANTO Alessio, suo marito. “Torno in Romania dove si lavora 30 giorni al mese, 15 ore al giorno per un salario di 150 euro che non basta a sfamare la famiglia”. Trascina i piedi sotto il peso dei bagagli mentre si avvicina al banco del check-in. “Siamo Rom o Sinti. Facciamo parte dell’Unione europea. Parlano di libera circolazione delle persone. Vale per tutti tranne che per noi? Mi piacerebbe chiederlo al presidente Sarkozy. Ma tanto sono sicuro che non saprebbe cosa rispondere”.
Chiude la fila una coppia sulla trentina seguita da tre figli. Colpisce il loro aspetto dignitoso, lo sguardo fiero. Sono ben vestiti, quasi curati. Camminano a qualche metro da chi li precede come a marcare una distanza. La donna si chiama Svedolina. È bulgara, ma suo marito, Anton , è rumeno. A differenza degli altri hanno l’aria di chi fatica a capire, di chi continua a credere che possa trattarsi di un errore. “Facevo il portiere in un piccolo albergo”, racconta Anton. “La nostra era la vita normale di una qualunque famiglia francese”. E la moglie aggiunge: “abbiamo sempre rispettato le leggi; i nostri figli andavano a scuola con profitto. Non è possibile. Non è possibile!” Fanno qualche altro passo poi Anton si gira e quasi gridando dice: “Ma torneremo, torneremo. La nostra vita e quella dei nostri figli è qui”.

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