Furio Colombo
da IL DIARIO
Anno XIII n. 9
Ci sarà qualcuno che si domanda se non sia il caso di concludere – qualunque sia il giudizio – e di chiudere il dibattito, dopo il fatto, la reazione violenta, il silenzio dell’opposizione, la grandinata di condanne e minacce di condanne che si sono rovesciate su Marco Travaglio per ciò che ha detto a proposito del presidente del Senato in un’intervista con Fabio Fazio nel programma di Rai tre Che tempo che fa. Propongo che sia utile tornare a quel fatto e alle sue conseguenze. E credo che alla fine potrò dire – insieme a molti italiani – che il caso non è chiuso. Al contrario, apre un’epoca. Che forse è la Terza repubblica.
La Repubblica del silenzio.
Provo dunque a elencare i fatti nuovi che restano piantati come paletti di confine fra un prima e un dopo, fra un periodo e l’altro (nessuno glorioso, ma mai così cupo e pericoloso) della nostra vita repubblicana.
Primo. L’avventura di dire in tv qualcosa, che a una parte politica (di solito la destra, che sia al governo o all’opposizione) pare inaccettabile, era già accaduta. Per esempio, quando io ho detto allo stesso Fabio Fazio una mia (mia, non sua) opinione su Berlusconi, tratta da articoli della stampa europea («una barzelletta che cammina»).
La strategia della destra è stata sempre quella dell’oltraggio inaudito, delle «parole omicide» (nel senso che il tuo legittimo dissenso politico, se espresso con efficacia, può armare qualcuno) del «pagare, adesso e subito». Insieme con l’immediata rievocazione del sangue sparso per colpa dei comunisti. In quel caso fece irruzione dall’alto dei cieli dirigenziali la voce del direttore generale Meocci (uno dei manager d’azienda più costosi del mondo a causa della multa procurata alla Rai per assunzione illegale). E si dovette assistere – nella trasmissione seguente – alla umiliante e fantozziana scena del conduttore costretto a chiedere scusa in pubblico di ciò che aveva detto o fatto non lui, ma un ospite adulto, responsabile, garantito dalla Costituzione, comunque estraneo alle regole e disciplina della Rai.
Dobbiamo dare atto alla destra di questo Paese di avere sempre lavorato alacremente e senza ridicoli pudori al proprio interesse mediatico. Lo sanno anche loro – che pure non eccellono in umorismo – che obbligare un giornalista di chiara fama, a chiedere scusa agli spettatori per «il livore» dell’intervistato, è una pratica estranea all’Occidente, che ricorda la rivoluzione culturale cinese. Ma, come dice ora il ministro Brunetta a proposito dei fannulloni, «ne colpisci uno per educarne cento».
Il messaggio era (è): «Se avete il privilegio di essere scelti per comparire in televisione, non montatevi la testa. L’occasione che dovete cogliere, come condizione per essere nuovamente invitati, è la conversazione benevola, curiosa, mondana, senza quella insopportabile faziosità che è tipica dei comunisti. Non pensate che sia l’occasione giusta per sfogare la vostra “invidia sociale” (parole-codice per condannare ogni accenno al conflitto di interessi) o il vostro “odio” (in alternativa a “livore”, sta per critica). Se Dalle pagine della Repubblica, Marco Travaglio è stato accusato di fare «giornalismo d’opinione», di essere «insincero con chi, in buona fede, lo ascolta».
Se lo fate attirate fulmini sul vostro intervistatore.» Ma sto parlando di una vicenda antica. Berlusconi aveva il potere ma poco potere, la maggioranza ma poca maggioranza, la Lega, ma poca Lega. E il centrosinistra preparava la sua sfida. Pur con qualche cautela – e il continuo invito «ad abbassare i toni» – si preparava alla sua offensiva.
E in caso di gogna potevi contare su un minimo di solidarietà della tua parte politica. Altri tempi.
Secondo. Il caso Travaglio è molto diverso perché si è svolto nella fase gloriosa e inaugurale di una vasta vittoria di Berlusconi, un suo ritorno al governo alla testa di una maggioranza che quasi trabocca dalle due Camere, e in cui il primo privilegio regale che il vincitore ha voluto regalarsi è il sorriso bonario e benevolo.
È successo questo. Marco Travaglio – invitato a Che tempo che fa per presentare il suo libro Se li conosci li eviti – ha lanciato una bomba carta (carta, nel senso del libro) nel mezzo della festa. Ha detto in televisione alcune cose che il suo libro dice sulla seconda carica dello Stato e presidente del Senato, Renato Schifani. Si è riferito a fatti già pubblicati sia nel suo libro che in quello di Lirio Abbate e Peter Gomez, in libreria già da un anno e mai denunciato, smentito o querelato.
Si intende che – legittimamente – Fabio Fazio ha dichiarato in trasmissione la sua estraneità e anche dissociazione dal racconto (citato con esattezza da due libri) di Marco Travaglio. Ovvio che sarebbe stato inutile. Nessun intervistatore è «associato» o «associabile» a ciò che dice l’intervistato. Nella migliore tradizione democratica i due sono, semmai, un po’ antagonisti.
Oppure l’intervistatore agisce da pubblico notaio di versioni, opinioni e punti di vista che gli vengono depositati. Se i documenti sono in regola, non si è mai visto un notaio che si dissocia dalla data di nascita o dall’indirizzo di chi sta compiendo l’atto notarile. Ma il gesto di cautela del conduttore (comprensibile, visto ciò che è accaduto dopo) non è bastato a evitare il berretto a cono della rivoluzione culturale di Berlusconi V. Lo richiedeva la gravità del fatto. Perché le accuse a Marco Travaglio – se si districano gli argomenti che sono stati lanciati contro di lui – sono le seguenti:
1. Abuso di intervista. Tu vai in televisione a promuovere te stesso e il tuo libro. Come ti viene in mente di uscire dal seminato e di dare giudizi politici?
2. Quando una persona riveste una carica istituzionale, quella istituzione è come una corazza magica. Fosse anche Jack lo Squartatore o Barbablù, i colpi che gli vengono indirizzati tornano a chi li ha lanciati e appaiono «una vergogna».
3. Hai rotto le nuove regole della Repubblica del silenzio di rito orientale, che è stata inaugurata da Berlusconi V. Inchini, saluti e – finiti i festeggiamenti – dialogo. Ma parlare di politica, mai. Per chi ha vissuto il fascismo diventa inevitabile ricordare il cartello che era esposto nel punto più visibile di ogni ufficio pubblico, negli anni Quaranta: «Qui non si parla di politica e di alta strategia. Qui si lavora».
Terzo. Il vero fatto nuovo del caso Travaglio è la condanna unanime. Unanime vuol dire destra e sinistra, maggioranza e opposizione. Anche le motivazioni sono interessanti:
a) Non si attacca così un’alta carica dello Stato. Come se un muro di impermeabilità dividesse per sempre il titolare dell’istituzione dalla sua vita.
b) Le accuse (che in realtà sono citazioni da un libro nel corso della presentazione di un libro) sono state mosse senza contraddittorio. Qui – come è evidente – si sconfina nell’assurdo. E si può capire che la maggioranza – vasta e potente com’è – non si curi della ragionevolezza o assurdità dei suoi proclami che, a causa del potere, sono intimazioni. Ma l’opposizione? Eppure l’opposizione si affretta non solo a condannare ciò che non può sapere (vero o falso ciò che dicono Travaglio, Gomez, Abbate?). Ma anche a sbandierare il cavalleresco argomento: «Il caso è più grave perché non c’è stato contraddittorio». Ora non occorre essere stati alle scuole di giornalismo per sapere che non esiste l’intervista con contraddittorio. Non può esistere l’obbligo che un portatore giornalistico di fatti e di opinioni viaggi accompagnato da un oppositore in grado di contraddire subito e sul posto quello che dice. In qualunque Paese democratico ogni scalfittura al diritto di un altro è rigorosamente tutelata dalla legge, se fondata sul falso. Ma non può esistere alcun limite preventivo alla libera presentazione di fatti e di giudizi.
c) L’accusa più grave a Travaglio, lo si capisce dal silenzio di tutta l’opposizione, interrotto solo dalle dichiarazioni ostili e sprezzanti verso Travaglio, da parte di alcune voci-grida dell’opposizione, è di aver guastato la festa. Difficile dire in che cosa consista la festa in un Paese così brutalmente occupato – in ogni sua parte, legge o aspetto – dalla destra vincente, carico di annunci minacciosi sui diritti civili, la libertà privata, il rispetto degli immigrati, e da un principio di realizzazione violenta di alcuni di questi annunci. Si veda quello che sta succedendo intorno, dentro, contro i campi nomadi, una serie di barbari eventi che – tra il 14 e il 20 maggio – hanno piazzato l’Italia fra i titoli allarmati, sulla prima pagina del New York Times.
La Repubblica del silenzio.
Provo dunque a elencare i fatti nuovi che restano piantati come paletti di confine fra un prima e un dopo, fra un periodo e l’altro (nessuno glorioso, ma mai così cupo e pericoloso) della nostra vita repubblicana.
Primo. L’avventura di dire in tv qualcosa, che a una parte politica (di solito la destra, che sia al governo o all’opposizione) pare inaccettabile, era già accaduta. Per esempio, quando io ho detto allo stesso Fabio Fazio una mia (mia, non sua) opinione su Berlusconi, tratta da articoli della stampa europea («una barzelletta che cammina»).
La strategia della destra è stata sempre quella dell’oltraggio inaudito, delle «parole omicide» (nel senso che il tuo legittimo dissenso politico, se espresso con efficacia, può armare qualcuno) del «pagare, adesso e subito». Insieme con l’immediata rievocazione del sangue sparso per colpa dei comunisti. In quel caso fece irruzione dall’alto dei cieli dirigenziali la voce del direttore generale Meocci (uno dei manager d’azienda più costosi del mondo a causa della multa procurata alla Rai per assunzione illegale). E si dovette assistere – nella trasmissione seguente – alla umiliante e fantozziana scena del conduttore costretto a chiedere scusa in pubblico di ciò che aveva detto o fatto non lui, ma un ospite adulto, responsabile, garantito dalla Costituzione, comunque estraneo alle regole e disciplina della Rai.
Dobbiamo dare atto alla destra di questo Paese di avere sempre lavorato alacremente e senza ridicoli pudori al proprio interesse mediatico. Lo sanno anche loro – che pure non eccellono in umorismo – che obbligare un giornalista di chiara fama, a chiedere scusa agli spettatori per «il livore» dell’intervistato, è una pratica estranea all’Occidente, che ricorda la rivoluzione culturale cinese. Ma, come dice ora il ministro Brunetta a proposito dei fannulloni, «ne colpisci uno per educarne cento».
Il messaggio era (è): «Se avete il privilegio di essere scelti per comparire in televisione, non montatevi la testa. L’occasione che dovete cogliere, come condizione per essere nuovamente invitati, è la conversazione benevola, curiosa, mondana, senza quella insopportabile faziosità che è tipica dei comunisti. Non pensate che sia l’occasione giusta per sfogare la vostra “invidia sociale” (parole-codice per condannare ogni accenno al conflitto di interessi) o il vostro “odio” (in alternativa a “livore”, sta per critica). Se Dalle pagine della Repubblica, Marco Travaglio è stato accusato di fare «giornalismo d’opinione», di essere «insincero con chi, in buona fede, lo ascolta».
Se lo fate attirate fulmini sul vostro intervistatore.» Ma sto parlando di una vicenda antica. Berlusconi aveva il potere ma poco potere, la maggioranza ma poca maggioranza, la Lega, ma poca Lega. E il centrosinistra preparava la sua sfida. Pur con qualche cautela – e il continuo invito «ad abbassare i toni» – si preparava alla sua offensiva.
E in caso di gogna potevi contare su un minimo di solidarietà della tua parte politica. Altri tempi.
Secondo. Il caso Travaglio è molto diverso perché si è svolto nella fase gloriosa e inaugurale di una vasta vittoria di Berlusconi, un suo ritorno al governo alla testa di una maggioranza che quasi trabocca dalle due Camere, e in cui il primo privilegio regale che il vincitore ha voluto regalarsi è il sorriso bonario e benevolo.
È successo questo. Marco Travaglio – invitato a Che tempo che fa per presentare il suo libro Se li conosci li eviti – ha lanciato una bomba carta (carta, nel senso del libro) nel mezzo della festa. Ha detto in televisione alcune cose che il suo libro dice sulla seconda carica dello Stato e presidente del Senato, Renato Schifani. Si è riferito a fatti già pubblicati sia nel suo libro che in quello di Lirio Abbate e Peter Gomez, in libreria già da un anno e mai denunciato, smentito o querelato.
Si intende che – legittimamente – Fabio Fazio ha dichiarato in trasmissione la sua estraneità e anche dissociazione dal racconto (citato con esattezza da due libri) di Marco Travaglio. Ovvio che sarebbe stato inutile. Nessun intervistatore è «associato» o «associabile» a ciò che dice l’intervistato. Nella migliore tradizione democratica i due sono, semmai, un po’ antagonisti.
Oppure l’intervistatore agisce da pubblico notaio di versioni, opinioni e punti di vista che gli vengono depositati. Se i documenti sono in regola, non si è mai visto un notaio che si dissocia dalla data di nascita o dall’indirizzo di chi sta compiendo l’atto notarile. Ma il gesto di cautela del conduttore (comprensibile, visto ciò che è accaduto dopo) non è bastato a evitare il berretto a cono della rivoluzione culturale di Berlusconi V. Lo richiedeva la gravità del fatto. Perché le accuse a Marco Travaglio – se si districano gli argomenti che sono stati lanciati contro di lui – sono le seguenti:
1. Abuso di intervista. Tu vai in televisione a promuovere te stesso e il tuo libro. Come ti viene in mente di uscire dal seminato e di dare giudizi politici?
2. Quando una persona riveste una carica istituzionale, quella istituzione è come una corazza magica. Fosse anche Jack lo Squartatore o Barbablù, i colpi che gli vengono indirizzati tornano a chi li ha lanciati e appaiono «una vergogna».
3. Hai rotto le nuove regole della Repubblica del silenzio di rito orientale, che è stata inaugurata da Berlusconi V. Inchini, saluti e – finiti i festeggiamenti – dialogo. Ma parlare di politica, mai. Per chi ha vissuto il fascismo diventa inevitabile ricordare il cartello che era esposto nel punto più visibile di ogni ufficio pubblico, negli anni Quaranta: «Qui non si parla di politica e di alta strategia. Qui si lavora».
Terzo. Il vero fatto nuovo del caso Travaglio è la condanna unanime. Unanime vuol dire destra e sinistra, maggioranza e opposizione. Anche le motivazioni sono interessanti:
a) Non si attacca così un’alta carica dello Stato. Come se un muro di impermeabilità dividesse per sempre il titolare dell’istituzione dalla sua vita.
b) Le accuse (che in realtà sono citazioni da un libro nel corso della presentazione di un libro) sono state mosse senza contraddittorio. Qui – come è evidente – si sconfina nell’assurdo. E si può capire che la maggioranza – vasta e potente com’è – non si curi della ragionevolezza o assurdità dei suoi proclami che, a causa del potere, sono intimazioni. Ma l’opposizione? Eppure l’opposizione si affretta non solo a condannare ciò che non può sapere (vero o falso ciò che dicono Travaglio, Gomez, Abbate?). Ma anche a sbandierare il cavalleresco argomento: «Il caso è più grave perché non c’è stato contraddittorio». Ora non occorre essere stati alle scuole di giornalismo per sapere che non esiste l’intervista con contraddittorio. Non può esistere l’obbligo che un portatore giornalistico di fatti e di opinioni viaggi accompagnato da un oppositore in grado di contraddire subito e sul posto quello che dice. In qualunque Paese democratico ogni scalfittura al diritto di un altro è rigorosamente tutelata dalla legge, se fondata sul falso. Ma non può esistere alcun limite preventivo alla libera presentazione di fatti e di giudizi.
c) L’accusa più grave a Travaglio, lo si capisce dal silenzio di tutta l’opposizione, interrotto solo dalle dichiarazioni ostili e sprezzanti verso Travaglio, da parte di alcune voci-grida dell’opposizione, è di aver guastato la festa. Difficile dire in che cosa consista la festa in un Paese così brutalmente occupato – in ogni sua parte, legge o aspetto – dalla destra vincente, carico di annunci minacciosi sui diritti civili, la libertà privata, il rispetto degli immigrati, e da un principio di realizzazione violenta di alcuni di questi annunci. Si veda quello che sta succedendo intorno, dentro, contro i campi nomadi, una serie di barbari eventi che – tra il 14 e il 20 maggio – hanno piazzato l’Italia fra i titoli allarmati, sulla prima pagina del New York Times.
Tutto ciò non sarebbe stato che un racconto un po’ triste di regime, con vicende grottesche da rivoluzione culturale cinese e silenzi difficilmente spiegabili, se non fosse sopraggiunto – improvviso, inatteso, violentissimo – il colpo sferrato contro Travaglio da Giuseppe D’Avanzo su La Repubblica.
Questo è un evento radicalmente nuovo.
Viene realizzato in due mosse.
Nella prima si dimostra che i fatti non sono fatti, ma solo pretesti di un giornalismo infido e cattivo. Si capisce subito che il vero senso di quell’attacco durissimo è solo indirettamente una difesa di Schifani, visto comunque come un cittadino al di sopra di ogni sospetto. No, l’obiettivo è abbattere Marco Travaglio.
La seconda mossa, infatti, «dimostra» che Travaglio, una volta, ha viaggiato in compagnia e a spese di un mafioso. L’accusa è formulata nello stile di un giornale berlusconiano. Ma è stampata su La Repubblica, come forma di replica all’autodifesa di Travaglio.
Perché?
Come spiegare che La Repubblica – il maggior giornale di opposizione e immensamente credibile presso il suo pubblico – abbia deciso di dedicare due violente puntate di stroncatura a un giornalista noto, stimato, autore di libri che da sempre sono best-seller, e che è – nell’edizione di Torino – giornalista della stessa Repubblica?
Difficile rispondere al di fuori del quadro di inaugurazione ufficiale di una Repubblica del silenzio (non il giornale, la Repubblica italiana), nella quale non possono e non devono essere concesse eccezioni. Meno che mai ai reduci delle campagne antiberlusconiane, che una vulgata vetero-bondiana, che ha preso a circolare ai margini del Pd, sarebbe – Dio sa come – la vera responsabile della sconfitta della sinistra. Confortano voci di un forte dissenso interno fra D’Avanzo e molti suoi autorevoli colleghi sull’opportunità – per La Repubblica – di entrare nel collegio di accusa contro Travaglio.
Confortano le voci di un attacco personale per ragioni personali.
Ma, in un giornale segnato dalla salda organizzazione della Repubblica, potrebbe un giornalista – per quanto autorevole come D’Avanzo – imporre di sua iniziativa due interventi che oltrepassano di molto lo sdegno della guardia berlusconiana? È in questo punto e in questo dramma nel dramma dell’evento, il vero fatto nuovo da notare e considerare.
Quarto. Si inaugura dunque una nuova stagione non lieta della vita italiana. Questi i tratti di identificazione. – Non ti aspettare di essere sostenuto o difeso se attacchi il nuovo massiccio gruppo di potere berlusconiano. Non contare su una parte o una ragione politica né su una parte o ragione giornalistica.
Quarto. Si inaugura dunque una nuova stagione non lieta della vita italiana. Questi i tratti di identificazione. – Non ti aspettare di essere sostenuto o difeso se attacchi il nuovo massiccio gruppo di potere berlusconiano. Non contare su una parte o una ragione politica né su una parte o ragione giornalistica.
– Il tentativo di rianimare il dibattito contro il potere berlusconiano è malvisto sia dall’opposizione politica che da quella giornalistica. Si direbbe che entrambe vogliono mantenere un’esclusiva sul quando, sul come, sul perché avviare un’eventuale azione politica o informativa di contrasto. Per intanto hanno deciso di tenere aperti i varchi di accettare il monologo e di preferire il silenzio-assenso che certo segna il momento storico che stiamo vivendo.
– Il distacco del mondo politico-giornalistico dal mondo reale, vita, famiglie, giovani, società civile, appartenenza, militanza, diventa più vasto. E più facile il cortocircuito che invita moltissima gente a rivolgersi direttamente al potere, senza passare dall’opposizione che è vista, nella stessa ottica del potere, come ingombro noioso e autoreferenziale invece che come agenzia di riferimento del reclamo e della denuncia.
Dunque la consegna è il silenzio.
Oppure una approvazione indifferenziata del grande monologo.
COMMENTO
Non credo che leggerò più La Repubblica con la frequenza di prima. Già in un intervento televisivo Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiaon, manifestò il suo non gradimento nei confronti di Marco Travaglio. Oggi mi appare più chiaro il senso di quel non gradimento.
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