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martedì 3 gennaio 2012

DON VERZÈ, SOLDI & POTERE






L’epopea del cappellano dei potenti che si paragonò a Gesù ma fece un solo miracolo: deviò le rotte aeree per l’amico B.
di Marco Travaglio

Simul stabunt, simul cadent. Insieme staranno su, insieme verranno giù. È il destino di Silvio Berlusconi e di don Luigi Verzè, il diavolo e l’acqua santa. Anzi, il Gatto e la Volpe. Nato a Illasi (Verona) nel 1920, a 28 anni don Luigi Maria Verzè diventa sacerdote (il padre, proprietario terriero, lo disereda all’istante). E subito dopo segretario di don Giovanni Calabria, il santo prete che assiste i bambini abbandonati e che nel 1950 lo manda a Milano, dove diventa il cocco del cardinale Schuster e si occupa di scuole professionali per ragazzi in difficoltà e case-alloggio per anziani poveri. Nel 1958 fonda l’associazione “San Romanello del Monte Tabor” per l’assistenza ai più deboli. Finirà per curare i ricchi e i potenti e per esaltare, davanti a intervistatori genuflessi, “il carisma del denaro”. Nel 1961 compra un terreno al Parco Lambro e comincia a progettare una clinica privata, il San Raffaele. Ma la Curia milanese lo scarica brutalmente per la sua disinvoltura negli affari e nella politica: nel 1964 il cardinale Colombo gli “proibisce di esercitare il sacro ministero”, cioè lo sospende a divinis: provvedimento confermato nel 1973.

Una Provvidenza chiamata Dc

MA, SE NON piace ai cristiani, don Verzè piace ai democristiani, che fanno il bello e il cattivo tempo tanto in Lombardia quanto a Roma e lo favoriscono in ogni modo. Il prete furbo si mette in società con l’assessore comunale dc Gianfranco Crespi, con Emilio Trabucchi, candidato dc e fratello di un ministro, e con un paio di soci del ministro della Sanità Athos Valsecchi. Nel 1968 un palazzinaro di nome Silvio, titolare dell’Edilnord, gli regala 46 mila metri quadri dei 700 mila che ha appena acquistato per un tozzo di pane nel comune di Segrate per costruirvi la città satellite Milano2. L’area vale quasi zero, visto che lì a due passi c’è l’aeroporto di Linate e, a ogni ora del giorno e della notte, decollano e atterrano gli aerei. Proprio per la rumorosità della zona, è stata appena bloccata la costruzione del Nuovo Policlinico. Ma don Verzè confida nella Provvidenza, che per lui ha il volto di Silvio e degli amici politici. E per Silvio, che non regala nulla per nulla, l’appoggio del prete furbo verrà utile di lì a poco. Don Luigi avvia ugualmente i lavori per la clinica San Raffaele, grazie anche a un mutuo agevolato di 600 milioni di lire concesso dal governo amico. Che nel 1971, alla velocità della luce, trasforma la Monte Tabor in fondazione religiosa. La storia di quegli anni è documentata nel prezioso “Dossier Don Verzè”, appena pubblicato da Kaos a cura di Lorenzo Ruggiero. Nel 1972 il ministro dc della Sanità Valsecchi riconosce alla clinica in costruzione lo status di “Istituto di ricovero e di cura a carattere scientifico”, ambitissimo quanto rarissimo per le cliniche private. Segue la generosa convenzione con l’Università di Milano. E i primi finanziamenti pubblici. Il tutto scavalcando la Regione Lombardia, dove l’assessore alla Sanità Vittorio Rivolta, democristiano ma onesto, non vuol saperne di inserire il San Raffaele tra gli ospedali convenzionati, visto che è privo dei requisiti ospedalieri e scientifici: non ha il pronto soccorso, non fa ricoveri d’urgenza, ha problemi persino per gli interventi di appendicite. E non ha neppure la licenza di abitabilità. Peggio: il secondo lotto del San Raffaele è venuto su senza uno straccio di licenza edilizia. Lavori abusivi, insomma. Don Verzè pretende un altro miliardo e mezzo di fondi pubblici e, siccome Rivolta rifiuta, lo minaccia: “Ho le prove che il nostro lavoro è voluto da Dio, e Dio non si lascia irridere, dunque le consiglio di non molestarci oltre”. Poi tenta di corromperlo, promettendogli una stecca del 5% sulla somma richiesta. È il 1973. Quattro anni dopo sarà condannato a un anno e quattro mesi di carcere per istigazione alla corruzione (in appello lo salverà la prescrizione). Nella sentenza viene definito “imprenditore abile e spregiudicato inserito in ambienti finanziari e politici privi di scrupoli etici e penali”.

Miracolo nei cieli: Alitalia evita Milano2

INTANTO la speciale Provvidenza politico-affaristica che lo protegge fa un altro miracolo: la deviazione delle rotte Alitalia. Silvio e don Luigi, spalleggiati da fantomatici “comitati anti-rumore” creati ad hoc, presentano una petizione al ministero dei Trasporti perchè dirotti altrove i voli degli aerei in partenza e in arrivo a Linate, per non disturbare gli abitanti di Milano2 e soprattutto i ricoverati del San Raffaele. Che però sono ancora quattro gatti: sia Milano2 sia il San Raffaele sono in costruzione. Ma basta ungere le ruote, anzi le ali giuste e il ministero si porta avanti col lavoro: nel 1972-’73 Civilavia (l’amministrazione dell’aviazione civile) sposta le rotte verso il comune di Segrate che invece è abitato da 200 mila persone, da prima che nascesse l’aeroporto. Nella sentenza del 1977 sul caso Rivolta, i giudici collegheranno la decisione a sospetti di “pressioni illecite, non esclusa la corruzione, sulle competenti autorità locali e centrali”. Così migliaia di cittadini si vedono piovere sulla testa gli aerei da un giorno all’altro, per proteggere la tranquillità di quelli di Milano2 e del San Raffaele che quasi non esistono. Per giustificare la porcata ad personam e ad pretem, basta qualche ritocco alle carte topografiche (quelle di Pioltello e Segrate vengono retrocesse alla situazione del 1848, mentre Milano2 – ferma al 25% – risulta già completa). E un falso marchiano sulle carte di volo dei piloti Alitalia: Milano2 diventa una grande chiazza nera di 700 mila metri quadri con una grande “H” che sta per Hospital, come se la lussuosa città residenziale di B. fosse tutta San Raffaele. La “H” dice ai piloti: girate alla larga di lì, sennò svegliate i malati. Come la No Fly Zone in Iraq: lì sopra non si vola. Così i prezzi dei terreni e delle case di Milano2 raddoppiano: da 200 a 400 mila  lire al metro quadro.
Ma gli abitanti di Segrate stanno diventando sordi, non ciechi. E si ribellano con esposti e denunce. Li sostiene una giovane e focosa cronista del Manifesto, che nel 1973 pubblica un’inchiesta dal titolo: “PerportareavantilaspeculazioneMilano2 prima rendono sordi i segratesi con i jet, ora li vogliono appestare con un immondezzaio”. E scrive: “Il problema vero non è quello‘sonoro’, ma la puzza di marcio che ci sta dietro, le aree, la speculazione edilizia: è una barca molto grande, in cui ci son dentro tutti, la Regione, i democristiani e anche i socialisti… Ma la più sporca di tutte l’ha fatta il Vaticano che, con l’aiuto delle banche svizzere, ha appoggiato l’operazione Milano2 con l’insediamento nella zona dell’ospedale San Raffaele”. Il suo nome è Tiziana Maiolo e non è omonima della futura deputata di Forza Italia: è proprio lei, prima della folgorazione sulla via di Arcore. Anche Candido, settimanale di destra diretto da Giorgio Pisanò, denuncia “la rotta dell’intrallazzo” in una mega-inchiesta firmata Leo Siegel. Nel 1974 il pretore di Monza Nicola Magrone condanna il direttore generale di Civilavia Paolo Moci per disturbo della quiete pubblica nei comuni danneggiati e definisce il San Raffaele “ospedale dai connotati molto ambigui”. Nel 1975, sul Giorno , Giorgio Bocca definisce don Verzè “quello che allontana gli aerei e cura non solo i malanni fisici, ma anche ‘le anime preternaturali’ dei pazienti”, intanto nella vicina Milano2 “il prezzo al metro quadro passa dalle 150 mila alle 400 mila lire. L’arte dei grandi speculatori è avere molti complici”. Nel 1977 Camilla Cederna, in un’inchiesta su Berlusconi per l’Espresso, torna sul “prete trafficone e sospeso a divinis”.

Due quadri rubati e tanti abusi edilizi

INSOMMA, sono almeno 40 anni che su don Verzè tutti sanno tutto: Chiesa, giudici, giornalisti, politici, cittadini. Nel 1978, in un’interrogazione parlamentare, i deputati radicali Bonino, Faccio, Pannella e Mellini riepilogano tutti gli scandali (l’ultimo è l’incriminazione del prete furbo per aver truffato una signora sottraendole un appartamento da 30 milioni dell’epoca) e chiedono al governo “quali iniziative intenda prendere per impedire che il denaro pubblico finisca ancora una volta nelle mani di loschi gruppi di potere clericali che lo utilizzano per attività speculative e clientelari, sulla pelle degli ammalati” e “se intenda ricercare le connivenze e le responsabilità eventuali nell’amministrazione dello Stato che hanno determinato questa scandalosa situazione”. Invece il San Raffaele diventerà una holding camuffata da ente “senza scopo di lucro” e si espanderà in tutta Italia e in mezzo mondo, conquistando il record di contributi regionali fra gli ospedali privati della Lombardia.
I processi a don Verzè e ai suoi fedelissimi non si contano più. Nel 1994, in piena Mani Pulite, finisce in carcere il direttore scientifico per una mazzetta di 70 milioni dalla Sigma Tau; di lì a poco lo raggiungono dietro le sbarre il vicepresidente Mario Cal (morto suicida qualche mese fa) e il                    direttore amministrativo Vincenzo Mariscotti, rei confessi di mazzette da decine di milioni a due funzionari delle Imposte dirette per addomesticare un’ispezione contabile. Nel 1995 don Verzè è condannato a cinque mesi in primo grado per abusi edilizi di “enorme cubatura” per “opere eseguite senza o in difformità della concessione edilizia” (pena confermata in appello). Per lo stesso reato rimedierà un’altra condanna in primo grado nel ’98. Nel 1997, invece, il Tribunale di Milano lo condanna a un anno e quattro mesi per ricettazione di due quadri cinquecenteschi di gran pregio rubati in due chiese napoletane e fatte acquistare dal suo autista-prestanome (la Corte d’appello conferma, poi la Cassazione dichiara la solita prescrizione, ma rifiuta di assolverlo nel merito perché è accertato che “don Verzé era al corrente della provenienza illecita dei quadri”).
Poco dopo finiscono dentro cinque primari del San Raffaele per truffa al Servizio sanitario nazionale col trucchetto dei ricoveri inesistenti (almeno 15 mila) per lucrare rimborsi regionali non dovuti (8 miliardi di lire). Verzè li assolve, minaccia il procuratore Borrelli, poi santa prescrizione li salverà grazie all’ex Cirielli varata da san Silvio. Nel 2000 il prete furbo vola ad Hammamet per celebrare le esequie del latitante Bettino Craxi, in cui dice di aver “visto il Cristo”. È una fortuna che esista la Santissima Trinità, così può dire che in Berlusconi vede “un dono di Dio”. Lo Spirito Santo, più fortunato, resta libero. Formigoni deve contentarsi dell’“arcangelo Raffaele”. E Nichi Vendola, che fino a un mese fa voleva appaltargli il San Raffaele del Mediterraneo a Taranto? Ha “il carisma del Signore” e “un fondo di santità”. Poi, quando viene indagato per la bancarotta fraudolenta da 1,5 miliardi, don Verzè paragona anche se stesso a “Cristo in croce”, tanto Cristo-Craxi è prescritto.
Ieri, ai suoi funerali, il “dono di Dio”, al secolo Silvio Berlusconi, non c’era. Ma ha parlato spericolatamente per tutti Massimo Cacciari, già preside dell’Università del San Raffaele: “Diceva Don Milani: se uno alla fine della vita ha le mani completamente pulite vuol dire che le ha tenute in tasca”.
Meglio metterle nelle tasche degli altri.

Igienista mentale cercasi




di Marco Travaglio

Ci eravamo lasciati a fine anno con un auspicio: un’igienista mentale per aiutarci a pensare e a parlare meglio. Al momento, quell’augurio rimane una pia illusione.
Prendete i 15 miliardi stanziati da B. e confermati (almeno per ora) da Monti per acquistare 131 cacciabombardieri Usa: ma siamo matti?
Prendete la decisione del Parlamento e del Csm, confermata (almeno per ora) dalla ministra Severino, di mettere il bollino di scadenza ai magistrati dopo dieci anni, smantellando così i pool specializzati nelle Procure (per mafia, corruzione, evasione, reati finanziari, salute e sicurezza sul lavoro, abusi sessuali e su minori): ma siamo matti?
Prendete i titoli di alcuni giornali sui botti di Capodanno che han fatto morti, feriti e danni un po’ dappertutto.  Com’è noto, duemila sindaci – compresi Fassino a Torino ed Emiliano a Bari – avevano vietato il lancio di petardi, mortaretti e altre diavolerie esplosive. Poi, anche nelle città del divieto, i botti sono scoppiati lo stesso. Titoli della Stampa: “Botti, il divieto inutile”, “Il flop delle ordinanze anti-petardi”. Titoli Libero: “I botti scoppiano in faccia ai sindaci”, “Napoli non perde il vizio di sparare. Altro che Rinascimento di De Magistris”. Ma siamo matti?
Con la stessa logica, siccome ogni giorno qualcuno muore ammazzato, bisognerebbe titolare: “Omicidio, il divieto inutile”, “Uccisi Tizio e Caio: il flop del codice penale”, “Gli assassini sparano in faccia a chi ha vietato l’assassinio”. “Napoli non perde il vizio di uccidere. Altro che Rinascimento di de Magistris”. Ma anche: “Roma non perde il vizio di uccidere. Altro che Rinascimento di Alemanno”.
Vietare le attività illecite o pericolose (qual è sicuramente il lancio di botti) è giusto a prescindere dall’effetto del divieto: che poi, se viene violato, non è colpa di chi l’ha imposto, ma di chi l’ha violato. Altrimenti, siccome si continua a spacciare droga, a rubare, a rapinare, a truffare, a pagare tangenti e a evadere le tasse, tanto vale abrogare il codice penale, risparmiando fra l’altro un sacco di soldi destinati a forze dell’ordine, questure, caserme, procure, tribunali e carceri.
Nell’ultimo numero del 2011, Il Giornale diretto da zio Tibia Sallusti titolava: “La caduta di Berlusconi: è stata la culona”. La suddetta, per chi non lo sapesse, è la cancelliera tedesca Angela Merkel che, secondo un’indiscrezione raccolta dal nostro giornale, il Cavaliere avrebbe definito “culona inchiavabile” in una telefonata intercettata e finita agli atti dell’inchiesta della Procura di Bari sulle escort di Tarantini, ma segretata perché penalmente irrilevante.
Quando lo scrivemmo, il Giornale si affrettò a precisare in una decina di articoli che ci eravamo inventati tutto. Mai una personcina corretta ed elegante come B. aveva o avrebbe potuto dare della “culona”, per giunta “inchiavabile”, alla Merkel, di cui è notoriamente amico e alleato nel Partito popolare europeo.
Ora, con agile piroetta, Tibia ribalta tutto: dà per scontato che la telefonata esista e addirittura fa proprio il grazioso epiteto, rilanciandolo in un titolone cubitale a tutta prima pagina. Dimentica soltanto di avvertire i suoi lettori che aveva ragione il Fatto, mentre il Giornale, tanto per cambiare, raccontava palle.
È una vera fortuna che la fama del Giornale come testata involontariamente satirica sia ormai nota in tutto il mondo, dunque anche in Germania. Altrimenti ve l’immaginate che farebbe un governo il cui capo viene definito “culone” o “culona” dal giornale di proprietà della famiglia del premier di un paese alleato? Nel migliore dei casi richiamerebbe l’ambasciatore e aprirebbe una crisi diplomatica, con richiesta ufficiale di scuse; nel peggiore dei casi partirebbe con i bombardamenti. Ecco perché B. aveva deciso di comprare quei caccia: temeva che qualcuno lo sentisse parlare.

sabato 31 dicembre 2011

Il pm è troppo bravo: licenziamolo




di Marco Travaglio
   Si sperava che la leggendaria sobrietà del governo tecnico comprendesse anche un’abitudine sconosciuta ai politici italiani: quella di evitare gli annunci con i verbi al futuro, limitandosi a quelli coi verbi al passato.
Non se ne può più di ministri che vanno in tv o sui giornali a dire “faremo”: la vera sobrietà è tacere finché non si è fatto qualcosa e solo allora aprire bocca per comunicarlo e spiegarlo ai cittadini.
Monti aveva cominciato bene, mantenendo il riserbo più assoluto sulla manovra e parlandone solo dopo averla varata. Purtroppo i suoi ministri fanno l’esatto contrario, sull’esempio dei predecessori, la cui logorrea era inversamente proporzionale alla concretezza.
Uno dei ministri più incontinenti è quello della Giustizia, Paola Severino che, a sentirla parlare, avrebbe già dovuto risolvere tutti i mali del settore: carceri affollate, processi lenti, sprechi di risorse, incertezza delle pene, certezza di impunità per i colletti bianchi.
Nel breve volgere di un mese ha promesso braccialetti elettronici, via libera all’amnistia, norme svuota-carceri, pene più alte per tangenti, abuso d’ufficio e falso in bilancio, nuovi reati tipo traffico d’influenze e corruzione privata, ratifica delle convenzioni anticorruzione e chi più ne ha più ne metta.
Ora, sarebbe assurdo pretendere che faccia in pochi giorni quel che gli altri non han fatto in 17 anni. Ma ci sono norme semplici semplici, poche righe e costo zero, che si potrebbero approvare subito.
Nella sua ultima intervista quotidiana (ieri al Corriere), la Severino auspica “una forte accelerazione e una specializzazione al processo civile”. Ecco: perché non favorire la specializzazione anche nel penale, che soprattutto su certi reati (mafia, corruzione, evasione fiscale, criminalità finanziaria, ambiente, sicurezza sul lavoro, colpe mediche, abusi sessuali, violenze su minori) richiede magistrati esperti e competenti su materie specifiche?
Una norma demenziale dell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella (un trust di cervelli mica da ridere) ha stabilito nel 2007 che ogni magistrato, dopo dieci anni di lavoro in un pool specializzato, deve uscirne e occuparsi d’altro. E purtroppo il Csm (complice la corrente di Md) non ha mosso un dito, anzi ha recepito con gioia, limitandosi a concedere sei mesi di proroga. Come se un’azienda che ha impiegato tempo e risorse per formare un dirigente lo spedisse a fare altre cose perché è diventato troppo bravo
Con questa folle regola già nel 1992, Cosa Nostra poteva risparmiarsi le stragi di Capaci e di via d’Amelio, visto che quando furono uccisi Falcone e Borsellino indagavano sulla mafia da ben più di dieci anni. Infatti, negli ultimi anni, il bollino di scadenza per i pm come per lo yogurt ha già falcidiato i pool antimafia di Palermo, Bari e Napoli, e dal 1° gennaio smembrerà (via sei pm su nove) il gruppo torinese di Raffaele Guariniello specializzato in sicurezza sul lavoro, salute e ambiente (processi Thyssen, Eternit, doping ecc.); idem per il pool milanese coordinato da Francesco Greco contro i reati finanziari (processi Parmalat, scalate bancarie, Enel, Eni, grandi evasori, San Raffaele, Lele Mora ecc.); e tanti altri.
“Nel 2012 – avverte Guariniello – dovremo affrontare processi delicatissimi su cui il ricambio di sostituti avrà conseguenze dirompenti. I nuovi colleghi, pur bravi, impiegheranno anni per acquisire esperienza e professionalità specifiche, mentre verranno meno quelle dei colleghi uscenti”.
Aggiunge Greco: nel suo pool sulla criminalità economica “ci vorranno dai cinque ai dieci anni per ricreare lo stesso livello di professionalità. Con una perdita secca per lo Stato. È una norma di cui fatico a comprendere la ratio, specie quando tutti sostengono che occorre contrastare corruzione ed evasione fiscale”.
Ministro Severino, che senso ha dichiarare guerra alla corruzione e all’evasione e cacciare i magistrati in grado di combatterla?
Se ci risponde, smettiamo di scrivere che parla troppo.

venerdì 30 dicembre 2011

Contro la corruzione il consulente dei corrotti




di Marco Travaglio
   Nella Prima Repubblica si diceva che il modo migliore per non risolvere un problema era creare una commissione d’inchiesta. Anche in America l’anchorman Milton Berle sosteneva che “una commissione è un gruppo che risparmia minuti e perde ore”. E Richard Harkness ha scritto sul New York Times: “Dicesi commissione un gruppo di svogliati selezionati da un gruppo di incapaci per il disbrigo di qualcosa di inutile”.
Ora, lungi da noi pensar male della “commissione di studio sulla trasparenza e la prevenzione della corruzione” creata da Filippo Patroni Griffi, ministro della Pubblica amministrazione per emendare la legge anticorruzione varata il 1°marzo 2010 dal governo B. e da allora inabissata nelle secche della Camera. Tanto più che il ministro dichiara a Repubblica che la lotta alla corruzione “è una priorità della nostra agenda” e scopre persino che “vanno ratificate al più presto le convenzioni” anticorruzione di Strasburgo (dal 1999).
Solo che fra i membri del sinedrio, accanto al giudice Cantone, al consigliere della Corte dei conti Granelli, ai prof. Mattarella e Merloni, c’è pure il prof. avv. Giorgio Spangher. Che, salvo casi di omonimia, fu membro del Csm in quota Forza Italia dal 2002 al 2006, avallando tutte le leggi vergogna del governo B.; ma soprattutto fu consulente retribuito degli avvocati di B. nel processo Ruby e dei coimputati di Previti nei processi Imi-Sir e Mondadori. Processi questi ultimi per corruzione giudiziaria, per i quali Spangher firmò tra il 2001 e il 2002 tre luminosi pareri pro veritate contro i giudici milanesi come consulente privato; e subito dopo, come presidente della I commissione del Csm, aprì una pratica per trasferire per incompatibilità ambientale Ilda Boccassini e Gherardo Colombo sulla scorta delle ispezioni scatenate da B.
Qualcuno adombrò il conflitto d’interessi, ma Spangher replicò serafico: “Ho dato quei pareri, ma senza guardare le carte”. Nei primi due, stilati nel 2001 per conto di Rovelli jr. e di Giovanni Acampora (l’uno poi condannato e prescritto in Cassazione, l’altro condannato definitivo), Spangher sosteneva che i rinvii a giudizio erano nulli per “vizio assoluto e oggettivo”, dunque si imponeva “la regressione processuale per tutti gli imputati” (Previti compreso) alla casella di partenza.
Il Tribunale fu di diverso parere.
Sfumate le manovre per azzerare il processo, partirono quelle per trasferire a Brescia i casi Imi-Sir, Mondadori e Sme con l’apposita legge Cirami
Anche lì Spangher, consulente multiuso, si rivelò prezioso, con un nuovo parere del 2002: “Ho esaminato le richieste dei signori Rovelli nonché di Silvio Berlusconi, Verde, Pacifico, Previti”, scriveva. E concludeva che l’intero Tribunale di Milano era gravato da un legittimo sospetto “non eliminabile con normali misure”.
Spangher si avventurava in arditi paralleli fra la Milano del 2002 e l’Italia dei “processi post-bellici ai collaborazionisti” dei fascisti.
Descriveva un clima preinsurrezionale (“lacerazione e frattura del tessuto sociale, istituzionale, politico, economico”), in cui “agli imputati è impossibile esplicare pienamente i diritti processuali”. Colpa del “resistere resistere resistere” di Borrelli, dei terribili Girotondi e del “contrasto istituzionale del ministro con il Csm”.
La Cassazione si fece una risata e lasciò i processi a Milano. Ma, pochi mesi fa, riecco Spangher al fianco di Longo e Ghedini con un bel parere pro veritate per bloccare sul nascere il processo Ruby in quanto, com’è noto, la giovine era la nipote di Mubarak, dunque la telefonata di B. in questura avvenne nell’esercizio delle funzioni di premier, ergo era di competenza del Tribunale dei ministri.
Non contento, il prof si fece audire dalla Camera per sostenere il conflitto di attribuzioni alla Consulta contro i giudici di Milano che si ostinano a processare B.
Ora, per conto del governo “tecnico”, studia il miglior modo di prevenire e reprimere la corruzione”.
Siamo in buone mani.

giovedì 29 dicembre 2011

Lelemosina




di Marco Travaglio
   Per sfuggire all’accusa delle tricoteuses nostrane di occuparsi solo dei “detenuti Vip”, Pierluigi Battista si occupa sul Corriere dell’unico Vip detenuto: Lele Mora.
Non prima di aver accusato imprecisati “spiritosi” che osano scherzare sul cognome della neoministra della Giustizia (“Severino, sia più severa”). Cioè noi del Fatto, che peraltro con quel titolo la invitavamo a maggiore severità contro la corruzione, mentre di carceri sovraffollate ci occupiamo dalla nascita del nostro giornale, quando Battista intervistava Checco Zalone.
Ma ora che anche lui scopre il dramma delle carceri, non possiamo che felicitarci per la sua prontezza di riflessi. Se poi volesse pure informarsi da qualche giornalista vero (ce ne sono parecchi anche al Corriere), scoprirebbe per esempio che “il 40% dei detenuti” che “patisce la galera prima che un processo ne accerti la colpevolezza” comprende i condannati in primo e secondo grado, visto che l’Italia, unica al mondo, considera innocenti anche i condannati in tribunale e in appello in attesa di Cassazione (nei paesi anglosassoni le custodie cautelari sono rarissime proprio perché, dopo la prima condanna, si va dentro a scontare la pena e di lì, eventualmente, si ricorre).
Quanto a Mora, per il giureconsulto Pigi, “sei mesi di galera preventiva per bancarotta fraudolenta appaiono una punizione leggermente esagerata prima ancora di una sentenza”.
Ma si sa come sono questi pm: “usano la galera per indurre l’indagato a conformarsi alla loro versione” e “la cultura giustizialista ascolta solo le ragioni dell’accusa”.
Mora poi patisce la “ferocia diffusa che chiede provvedimenti esemplari contro “l’antipatico”, il soggetto eticamente discutibile ed esteticamente impresentabile, il flaccido malfattore (presunto)” che ora però “ha perduto molti chili”. Eppure – per il giurista Battista – “non bisogna ammalarsi come Mora (colpevole o innocente che sia) per comprendere che il carcere preventivo prolungato può essere tortura”.
Malfattore presunto? Le ragioni dell’accusa? Colpevole o innocente che sia? Forse a Battista sfugge un dettaglio: il 7 novembre Mora ha chiesto e ottenuto di patteggiare quattro anni e tre mesi per la bancarotta fraudolenta della sua LM Management, fallita nel 2010 con 16 milioni di passivo per un crac da 8,4. Patteggiare vuol dire concordare una pena col pm davanti al gup per ottenere una pena scontata di un terzo: al dibattimento Mora si sarebbe beccato almeno sei anni. Anche perché è un pregiudicato per spaccio di droga e altri reati; ha sottratto al fallimento LM i 2,8 milioni che B. gli regalò, comprandosi una Mercedes e dirottando il resto su un conto svizzero; non paga le tasse da anni col trucco delle false fatture; ha debiti milionari col fisco; ed è imputato in altri tre processi (fallimenti della sua persona fisica e di Diana Immobiliare, sfruttamento della prostituzione).
Per caso Battista conosce qualcuno che concorda quattro anni e tre mesi di galera (il massimo consentito è cinque anni) essendo innocente? Se Mora non è ancora pregiudicato per la bancarotta è solo perché l’Italia, unica al mondo, consente d’impugnare in Cassazione la condanna appena patteggiata. Cosa che Mora ha subito fatto, per guadagnar tempo e trovare un Battista che lo spacci per un torturato. Così torturato che, diversamente da migliaia di detenuti non Vip, sconta la custodia cautelare – confermata da vari giudici per il pericolo che fugga e nasconda altri soldi in Svizzera, dove ha un conto e una villa – in una cella singola del carcere di Opera.
Ai primi sintomi del dimagrimento, il pm ha chiesto e il gip disposto una perizia medica (ancora in corso) sulla sua compatibilità col carcere. Negli Usa tanto cari ai Battista, migliaia di evasori e bancarottieri affollano i penitenziari con le catene ai piedi e i portoricani nella branda a fianco. In Italia i giornali tuonano contro l’evasione nei giorni pari e in quelli dispari i Battista lacrimano appena un evasore-bancarottiere finisce dentro.

mercoledì 28 dicembre 2011

Poggioreality




di Marco Travaglio
   Un detenuto in attesa di giudizio che lascia il carcere per essere processato a piede libero è sempre una buona notizia, specie in tempi di sovraffollamento carcerario. Anche se quel detenuto è il magistrato Alfonso Papa, che in carcere era abituato a mandarci gli altri.
Ora, dopo 101 giorni a Poggioreale e 50 ai domiciliari, sfreccia sul motorino della sua signora in tutti i telegiornali e prende un po’ troppo sul serio il suo cognome pontificando urbi et orbi sulle “condizioni disumane delle carceri”.
Poteva pensarci prima, quando faceva il pm e soprattutto quando, dal 2001 al 2008, era dirigente al ministero della Giustizia, ivi chiamato da Castelli e poi naturalmente confermato da Mastella.
Ma anche dopo, quando divenne deputato e membro della consulta sulla giustizia del Pdl, il partito che porta in Parlamento noti delinquenti mentre imbottisce le galere di poveracci con leggi demenziali: ex Cirielli, immigrazione clandestina, Fini-Giovanardi sulle droghe, vari pacchetti sicurezza.
Ora, meglio tardi che mai, annuncia a Repubblica: “Mi impegnerò per i detenuti” (a suo modo, è un tecnico anche lui). Comincerà evitando che lo diventi Nick Cosentino, imputato di camorra e rifugiato a Montecitorio con diritto d’asilo.
A vederlo nei compiacenti tg con guanciotte da puttino e vocina flautata, pare impossibile che Papa sia imputato per favoreggiamento, rivelazione di segreti, corruzione, concussione ed estorsione.
Ma il travestimento da agnellino funziona perché nessuno, nel Poggioreality, ricorda perché è imputato: secondo le accuse dei pm – in gran parte confermate da giudici terzi come il gip e il Riesame – Papa sfruttava i suoi contatti “di altissimo livello” con servizi segreti, magistrati e generali della Finanza per procurarsi notizie segrete su indagini a carico di Letta, Verdini, Cosentino e Masi; ma anche per minacciare arresti e promettere salvataggi a imprenditori indagati; il tutto in cambio di soldi, gioielli, appartamenti, crociere, hotel di lusso, più consulenze e incarichi per moglie, amici, ma soprattutto amiche.
Una è una mezza tossica, e lui la consiglia su come sfuggire alla polizia, poi le regala il tesserino d’accesso alla Camera (per fortuna la tipa non l’aveva con sé quando fu fermata con un po’ di erba: “Non era una bella figura che una persona che poteva accedere a Montecitorio si facesse le canne”). A un’altra, che lavora alle Poste grazie a lui (dice lei), Papa ha donato una sobria Jaguar, salvo poi riprendersela falsificando la firma.
Come Alberto Sordi ne Il vedovo, quando regala una pelliccia all’amante e poi gliela porta via per impegnarsela e pagare i debiti.
Poi c’è un tizio che gli forniva Rolex “nudi”, senza confezione né garanzia, praticamente rubati o falsi. Perché Papa è sempre stato un uomo di polso. E non ha nulla da nascondere: infatti, pur essendo immune da intercettazioni, usava una scheda telefonica intestata a una sconosciuta. Il gip Giordano gli chiede perché e lui cade dalle nuvole: “Non sapevo che una scheda mobile dev’essere intestata a una persona”. Poi però, nota il gip, “lamentato che sarebbe stato intercettato sull’utenza registrata alla sua persona: dunque è ben conscio della differenza tra l’utilizzo da parte di un parlamentare del telefono intestato a lui e quello di utenze intestate a terzi. Ma non ha spiegato perché un deputato, che gode delle prerogative assicurate al Parlamento dalla Costituzione, abbia bisogno di impiegare telefoni intestati fittiziamente a persone ignare”.
Già, perché? Forse per non essere da meno di B., che usava le schede peruviane di Lavitola. Infatti – giura Papa – “il partito mi è stato vicino” e si accinge a festeggiare il suo rientro trionfale alla Camera. Perché lui, ça va sans dire, è “pronto a riprendere la mia attività di deputato”.
Viene in mente un altro film di Sordi, L’arte di arrangiarsi, quando il protagonista Sasà Scimoni esce di galera e fonda subito un partito per gli ex detenuti. Ma non viene eletto. Il film, infatti, è del 1955.

martedì 27 dicembre 2011

Tu lecchi dalle stelle




di Marco Travaglio
   Per sua fortuna Giorgio Bocca era sedato da una settimana. Così sabato, l’ultimo sabato della sua vita, gli è stata almeno risparmiata la lettura dei giornali (“è la cosa più deprimente”, mi aveva confessato sconsolato l’anno scorso, l’ultima volta che l’avevo intervistato per il Fatto). Già, perché i quotidiani della vigilia di questo Natale andrebbero affissi nelle scuole di giornalismo, per illustrare la crisi di identità di un mestiere un tempo glorioso che non sa più quel che fa, né perché.
Natale in casa Cazzullo. Non contento del Leccone d’Oro 2011 honoris causa che si era aggiudicato con l’intervista dell’antivigilia al cardinale Scola, la guardia svizzera Aldo Cazzullo scatta in fuga solitaria per vincere il premio anche l’anno prossimo. E inaugura sul Corriere un nuovo genere giornalistico: l’editoriale-sermone. Roba che, al confronto, gli articoli dei tanti scrittori in tonaca, dal cardinal Martini al priore Bianchi al vescovo Forte, sono capolavori di laicità.
Titolo: “Più fiducia in noi stessi”. Svolgimento: “È il Natale più difficile, forse più amaro degli ultimi anni... Eppure c’è un regalo che tutti quanti noi possiamo farci, c’è un tesoro nascosto nel fondo della crisi italiana. Non lo si trova nelle vetrine, non lo si può impacchettare, ma questo non diminuisce il suo valore, anzi. È la fiducia in noi stessi, nell’immenso potenziale di cultura, lavoro e sviluppo del nostro Paese. Che, com’è sempre accaduto nei momenti difficili se non drammatici riesce a dare il meglio di sé”.
Più che un giornalista, Cazzullo è motivatore, mental coach, personal trainer della Nazione tutta. E s’immola come pennone umano a cui appendere la bandierina tricolore: “L’anno che si chiude sarà forse ricordato come l’avvio di una nuova ricostruzione... I principali partiti – bene o male – collaborano per uscire dall’emergenza”. Ma anche un po’ pompiere: “Il Paese s’è ritrovato unito, oltre le contrapposizioni pregiudiziali”. E pure corazziere: “L’anniversario dei 150 anni è stato un successo. Ci si è resi conto che davvero – come ci hanno insegnato Ciampi e Napolitano – siamo più legati all’Italia di quanto amiamo riconoscere”. E psicoterapeuta: “È dentro di noi che dobbiamo ritrovare la serenità e la fiducia di cui i nostri padri furono capaci”, perché siamo pur sempre “il Paese simbolo della creatività, del design, della fantasia, dell’arte, dell’estro, del gusto per il bello” (insomma un popolo di santi, poeti, eroi e navigatori). E ambasciatore, anzi piazzista: “Pensiamo alla grande domanda di Italia che c’è non soltanto nel resto d’Europa o in America, ma anche nel mondo di domani: a quanti cinesi, indiani, brasiliani vorrebbero vestirsi come noi, comprare i nostri prodotti, adottare il nostro stile di vita”.
Suvvia, basta andare in Cina, in India, in Brasile, in America, per non parlare del resto d’Europa, per venire assediati da nugoli di persone che fin dalla più tenera età ti corrono incontro e ti implorano: “Ti prego, non resisto, voglio andare in fallimento come l’Italia! Il mio sogno è uno spread a 515! Non vedo l’ora di avere deputati come Dell’Utri e Scilipoti, ministri come Romano, sottosegretari come Cosentino, presidenti del Senato come Schifani! Perché voi avete la Cirami, la Cirielli, il lodo Alfano e noi no? E, già che ci siamo: non è che m’insegneresti a vestirmi come Cazzullo?”.
Giorgio, in arte Dickens.
Non bastando la cazzullata, il Corriere raddoppia con due pagine di intervista a Giorgio Napolitano, sobriamente intitolate “L’orgoglio ritrovato di un grande Paese”. Anzi, più che un’intervista, “il racconto nazionale del Presidente”. 
 Direttamente dal Colle, molto meglio del superato racconto di Natale di Charles Dickens, ecco il “racconto nazionale” di Sir George, pregno di trovate scoppiettanti e soprattutto sorprendenti: “L’arma vincente della coesione sociale e nazionale”, “ce la faremo, usciremo dal tunnel”, il “cemento unitario”, “una lezione secca per gli scettici”, uno “scatto di dignità e orgoglio nazionale”, ma anche di “quella coesione e unità fra gli italiani cui dobbiamo guardare come all’arma vincente per superare le sfide del presente e del futuro”, insomma “un bisogno di riaffermazione di quel che siamo, come grande nazione e come moderno Stato europeo”, “l’occasione per far nuovamente sentire più forte il nostro ruolo in Europa e nel mondo”. È stato quando il Parlamento stabilì che Ruby è la nipote di Mubarak, o più probabilmente quando il premier definì la Merkel “culona inchiavabile”, o quasi certamente la settantesima volta che Bossi alzò il dito medio e fece la pernacchia. Lezioni secche, riaffermazioni forti, cemento unitario e soprattutto coeso. Prrr.
   Cip, Ciop e Napo orso capo
   Cambio di vocale ed ecco un altro Dickens de noantri, Roberto Napoletano, il prosperoso direttore del Sole 24 Ore, che firma uno psichedelico Memorandum nell’inserto culturale del suo giornale. Titolo: “Piccoli grandi valori in una manciata di noci”. “Non so se sia colpa della mia testa...”, premette. Poi s’incarica di dimostrare che sì, dev’essere proprio colpa della sua testa: “Certo è che mi viene prepotentemente in mente, in questi giorni, una storia di uomini e donne che si lanciano secchi e muovono le mani con gesti rituali e veloci tra un solco e l’altro pieno di noci e nocciole...”. L’infermeria del Sole 24 Ore entra in subbuglio, i sanitari cominciano a domandarsi quale fungo abbia leccato il direttore. Che intanto prosegue inarrestabile: “Ad ‘abbacchiare’ le noci o a raccogliere le nocciole, le mani si spellano, si macchiano, diventano di una certa maniera”. Ecco, di una certa maniera. “Un uomo sui 50 anni segue il gruppo con una specie di scopa in mano. Ammassa le foglie che gli altri lasciano indietro. C’è chi rimuove i sacchi, si solleva una nuvola, poi scompare, poi ritorna, poi scompare”. Che il direttore abbia mangiato più pesante del solito? Ah no: “A questa scena ho assistito da ragazzo, di prima mattina, dal terrazzo di casa mia, a Nola, in un settembre nuvoloso”. E non se n’è più riavuto. “La più anziana del gruppo raccoglie una manciata di noci, alza lo sguardo e dirige gli occhi dalla mia parte, dice che mi vuole fare un regalo e, incurante delle mie resistenze, lancia sul terrazzo un pugno di noci”. Ecco svelato l’arcano: una noce deve averlo colpito in piena fronte, riducendolo così come lo vediamo. Ma senza purtroppo privarlo del dono della scrittura: “La mia favola di Natale è questa piccola storia vera che ci parla, attraverso le noci che stanno oggi sulle nostre tavole, di dignità del lavoro, della gioia del dono e di quell’autenticità che sanno esprimere le persone e i gesti più semplici. Piccoli e grandi valori di cui abbiamo terribilmente bisogno”. Lo portano via.
   No Martini no Christmas. Il povero cardinal Martini è da tempo malato di Alzheimer, eppure non c’è verso che lo lascino in pace. Sabato, fra rubriche della posta (sul Corriere), interviste (su La Stampa) e dialoghi con Scalfari (Repubblica), era su tutti i giornali, praticamente a edicole unificate. La Stampa tenta di trasformarlo in cappellano del governo tecnico, con un’apposita domanda sul “valore della sobrietà” (del resto, titola in un’altra pagina il quotidiano torinese, “Niente ferie per i ministri. Anche gli ex contagiati dalla sobrietà”). Scalfari va a trovarlo fino a Gallarate per poi molestarlo con domande del tipo: “Qualche volta penso che lei speri di convertirmi... È questo che lei si propone?”. Martini, con un fil di voce: “No, ma non posso escludere...”. Come dire: ma lo sa che lei è un bel tipo? Guardi che ci è venuto lei, io me ne stavo tanto bene da solo...
   Marketting. Scaricata la coscienza con qualche geremiade contro il Natale consumistico e pagano, giornalisti gastronomi, sommelier, stilisti, personal shopper e dog sitter si scatenano con paginate di pubblicità camuffate da consigli per regali, viaggi e menu da cenone: praticamente marchette. Memorabile Laura Pausini a Repubblica-agenzia Stikazzi: “Lo shopping io lo faccio con un clic”. Strepitoso l’inserto del Corriere: dopo due orrendi racconti di Tamaro e Piccolo, spiega che l’ideale è andarsene in Lapponia “tra alci e paesaggi innevati”. Vacanza sobria a -30 gradi. Poi due pagine sul panettone, un dotto intervento della psicoterapeuta su “Come dire al bambino chi porta i pacchetti?”, un paginone di consigli per “le ultime 12 ore prima del cenone” a chi non ha una mazza da fare (“colazione, corsa, spuntino, maschera al viso, pranzo leggero, passeggiata a bassa intensità, bagno di relax, acconciatura”) e un altro, da non perdere, su “cosa dirsi a tavola, ai brindisi o per gli auguri”. Già, cosa dirsi? “Sì ad alta cucina e animali, no allo stile social network”. Per esempio “Veltroni sta leggendo un altro libro sui gatti, Cleo, storia rasserenante di una gatta temperamentosa”. Rasserenante soprattutto per gli elettori.
   Marco Travaglio

lunedì 26 dicembre 2011

Giorgio Bocca, l’ultimo dei grandi



MARCO TRAVAGLIO

Quando muore un grandissimo, come Giorgio Bocca, che se n’è andato oggi, giorno di Natale, a 91 anni, tutte le parole sono inutili tranne le sue. Ricordiamoci com’era, che cosa diceva, che cosa scriveva e soprattutto come scriveva. Acquistiamo i suoi libri, leggiamoli. Io vorrei ricordarlo con l’intervista che gli feci per il Fatto Quotidiano nel febbraio 2010, in occasione dell’uscita del suo penultimo libro, Annus Horribilis.

Giorgio Bocca, lei ha appena scritto Annus Horribilis (Feltrinelli): ma si riferiva al 2009. Il 2010 si annuncia ancora più horribilis…
Vedremo. Il 2009 mi è sembrato il più orribile per una tendenza irresistibile alla democrazia autoritaria. Più Berlusconi ne combinava di cotte e di crude, più i sondaggi lo premiavano. Ora, con questi ultimi scandali, la gente potrebbe cominciare a stancarsi e capire qualcosa.

Quindi c’è speranza?
Non esageriamo. Qualche barlume. E’ come all’inizio della guerra partigiana, ma allora ero giovane e forte dunque fiducioso. Ora sono vecchio e fragile, mi è più difficile essere ottimista. La cecità degli italiani mi ricorda la Germania all’ascesa di Hitler: tutti potevano vedere che tipo era, Hitler, eppure i tedeschi, e anche gli europei, gli cascarono tra le braccia come trascinati da un vento ineluttabile.

Che cosa la spaventa di più?
Il muro di gomma. Succedono cose terribili, o terribilmente ridicole, e nessuno reagisce. Lanci allarmi, provocazioni anche forti, e non risponde nessuno. Come dicono i giudici dello scandalo Bertolaso? “Sistema gelatinoso”. Ecco, è tutto gelatinoso. Non resta che sperare, come sempre nella nostra storia, in qualche minoranza coraggiosa che cambi la storia.

Che cosa la colpisce di più negli ultimi scandali?
La loro incomprensibilità. Leggo la confessione di questo consigliere comunale di Milano beccato con la tangente in mano: ‘Mi sono rovinato per 5 mila euro’. O è un pazzo incapace di ragionare, o faceva sempre così. Almeno Berlusconi ha le sue giustificazioni: è ricco sfondato, ha ville dappertutto. Almeno Tangentopoli era un sistema di corruzione che portava almeno una parte dei soldi ai partiti: una logica, sia pure perversa e criminale, c’era. Ma qui i partiti non ci sono più. E questi si vendono in cambio di qualche massaggiatrice, di qualche viaggio gratis, di pochi spiccioli… La corruzione dilaga a tal punto che c’è gente che ruba senza nemmeno sapere il perché.

Anche Tangentopoli, 18 anni fa, partì da una mazzettina di 7 milioni a Mario Chiesa.
Andai a intervistare Borrelli e gli domandai perché i magistrati fossero riusciti a scardinare il sistema così tardi. Mi rispose che la magistratura in Italia riesce a incidere nel profondo solo quando nella società c’è un grande allarme, quando si accende una grande luce. Oggi la luce non si accende, non ancora. Ce ne sarebbero tutti i presupposti, la corruzione ci costa decine di miliardi all’anno, siamo in fondo alle classifiche di tutti gli indicatori civili, scavalcati anche da metà del Terzo Mondo, eppure tutto va ben madama la marchesa.

Possibile che, in Italia, le classi dirigenti non riescano a smettere di rubare?
Quando esplose Tangentopoli, a costo di essere frainteso, dissi che i gerarchi fascisti rubavano molto meno dei democristiani e dei socialisti. Arrivai a elogiare i “barbari” della Lega che ce li avevano tolti dai piedi. Ora questi rubano ancor più della Dc e del Psi. E lo fanno alla luce del sole, con trucchetti da ciarlatani: invitiamo i capi del mondo al G8 e buttiamo centinaia di milioni. Ma non possono farsi una telefonata, i capi del mondo?

Paolo Mieli dice che sta per saltare il tappo, come nel ’92.
Eh eh, Mieli è un mielista, furbo ma intelligente. Siamo in attesa della grande luce di Borrelli. Forse Berlusconi finirà per stancare, ma siamo ancora all’accecamento della morale: quegli imprenditori che si fregano le mani per il terremoto dicono che la febbre del denaro è ancora alta. E’ come nella Bibbia: Mosè che scende dal Sinai con le tavole della legge e trova gli ebrei che festeggiano attorno al vitello d’oro. Noi li abbiamo superati.

Che idea si è fatto di Bertolaso?
Non credo che abbia rubato di suo, ma che abbia lasciato rubare gli altri. Quando si vuol fare tutto in fretta, si aboliscono i controlli e succede di tutto. L’ha perduto la vanità: si credeva Superman, uno che va a dare lezioni agli americani… Non era difficile capire cosa succedeva. Se gli italiani fossero raziocinanti gli avrebbero impedito di buttare i soldi in tante opere inutili.

Forse, con più informazione e più opposizione, sarebbe più facile ribellarsi.
La cosa più deprimente è la lettura dei giornali, per non parlare della televisione. La nostra democrazia diventa autoritaria anche perché ci sono giornalisti comprati con prebende e privilegi, ma soprattutto terrorizzati. Incontro colleghi, si finisce per parlare di quel che combina Berlusconi, e quelli cambiano subito discorso. Se diventi nemico, sei segnato. Tu ce l’hai spesso col Corriere: credo che la carta stampata sia rimasta democratica, ma ha paura di lui. Si inventa di tutto, pur di parlar d’altro: chiamano ‘terzismo’ il doppiogiochismo. Dicono persino che, a parlar male di Berlusconi, si fa il suo gioco. Ma a chi la danno a bere?

Lei guarda molta televisione?
Sì, ho il gusto dell’orrido. E’ una galleria di mostri. Non riesco a levarmi l’incubo di Feltri, Belpietro, quel Sallusti… E le facce di Ghedini, di Brunetta… Quando li critichi, ti rispondono che sei un vecchio arteriosclerotico. Ma come si fa a diventare così?

La beatificazione di Craxi, i dossier su Di Pietro e ora l’immunità parlamentare d’accordo col Pd.
Beh, è tutto collegato. E’ la complicità fra colpevoli delle due parti. Di Pietro lo attaccano perché ha il merito di essere l’unica opposizione. Craxi piace tanto a questa destra e a questa sinistra per due motivi: intanto perché era un corrotto, e poi perché, con l’idea della Repubblica presidenziale, ha dato un’ideologia alla democrazia autoritaria che questi selvaggi di oggi inseguono ma non riescono nemmeno a teorizzare. Questa democrazia malata la dobbiamo pure a questa sinistra alla D’Alema che collabora da 15 anni con Berlusconi. Hanno capito che, se non partecipano in qualche modo alla sua greppia, non campano più.

Dicono che non bisogna attaccarlo, che i problemi sono altri.
E quando ne parlano, degli altri problemi? Allora almeno parlino male di un aspirante tiranno, no? Prima avevamo i Bobbio, i Foa, ora che fine han fatto gli intellettuali di sinistra? Possibile che non nascano più persone intelligenti?

Violante si spende molto per l’immunità parlamentare, dice che la magistratura non deve scalare il trono del principe.
Perché lo fa? Boh, vorrà fare carriera anche lui. Che personaggio viscido, non lo sopporto.

Il presidente Napolitano non le pare troppo condiscendente?
Va considerato nella sua biografia. E’ sempre stato un comunista prudente. Vuole durare, e non so se sia un bene o no. Ogni tanto tira un colpetto, ma chiedergli di fare l’eroe è troppo.

Che speranza abbiamo?
Che la gente si accorga del suicidio di farsi governare da uno abilissimo a fare soldi: quello i soldi, invece di darteli, te li porta via. Che gli italiani si vergognino almeno per le sue cadute di stile, tipo gli sghignazzi sulle belle ragazze mentre parla del dramma degli immigrati col presidente albanese. Che capiscano come un minimo di decenza e legalità è meglio di questa anarchia lurida. Non dico la virtù, l’onestà: un po’ di normalità e di civiltà. L’unica bella notizia degli ultimi anni è il Popolo viola, spero che le prossime manifestazioni siano ancora più massicce e visibili. Se si ribellano i ragazzi, non tutto è perduto. 

sabato 24 dicembre 2011

Lecco, provincia di Cazzullo





di Marco Travaglio
   Eravamo decisi ad assegnare il Leccone d’Oro 2011 al primatista mondiale Sallusti, per lo scatto finale di cui ha dato prova ieri, col memorabile titolone sul Giornale: ‘“Silvio non mi ha pagato’. Mills lo scagiona in aula: ‘Ho inventato tutto per ingraziarmi i Pm’. Scoperto il bluff. Il processo che doveva dimostrare la corruzione del Cav finisce nel nulla”.
L'idea che un tizio giudicato colpevole in Cassazione (Sallusti lo definisce strepitosamente “assolto per prescrizione”) di esser stato corrotto da B. in cambio di due false testimonianze ne faccia una terza per negare di essere stato corrotto e venga creduto da qualcuno, già ci pareva affascinante.
E ancora più avvincente ci sembrava il movente usato per spiegare perché avesse scritto al commercialista e confermato ai pm di essere stato corrotto da B.: voleva salvare un certo Diego Attanasio e non aveva trovato di meglio che accusare il premier italiano. 
Ma ciò che trovavamo davvero irresistibile era che Sallusti potesse immaginare che i giudici, fra una verità accertata in Cassazione e la bugia di un imputato colpevole, credano alla seconda. Insomma, ci eravamo convinti che il Leccone d’Oro lo meritasse lui, alla carriera.
Poi però, sul Corriere, è uscita un’intervista di Aldo Cazzullo al cardinale ciellino Angelo Scola, arcivescovo di Milano. E abbiamo dovuto arrenderci: di fronte a cotanta lingua, Sallusti è un dilettante.
Quella di Cazzullo non è un’intervista: è una via di mezzo fra il terzo grado e il corpo a corpo.
Un crescendo rossiniano: “Teme davvero il ritorno alla violenza?”, “Ritiene che il primo passo verso il risveglio dei cattolici si sia compiuto con la formazione di questo governo?”, “Sta dicendo che c’è un deficit della politica che i tecnici non possono colmare?”. Lavorato ai fianchi, Sua Eminenza vacilla: “Sì, ho questo timore”, “È solo un segnale”, “Certo”. Gancio destro in pieno volto: “Qual è il suo giudizio sull’era Berlusconi? La Chiesa gli ha concesso un credito eccessivo?”.
Il presule si aggrappa alle corde del ring per non finire al tappeto: “Presto per dare un giudizio complessivo”. In effetti sono trascorsi solo 18 anni, ne riparliamo nella prossima era geologica. Però si può già dire che “la casa brucia”. Un intervistatore qualunque ne profitterebbe per ricordare che sulle sue, di case, la Chiesa non paga l’Ici. Ma Cazzullo è speciale. Lo previene il porporato, facendosi la domanda e dandosi la risposta: “Si sta facendo un gran polverone sull’Ici”.
Ecco, un gran polverone. “Lei – incalza il Cazzullo – proviene da Cl. Non teme che, tra i quasi 17 anni di potere di Formigoni, gli affari, gli scandali, Cl sia caduta in qualche eccesso?”.
In effetti trovare un leader ciellino rimasto a piede libero è arduo: concetto che cazzullescamente si traduce in “qualche eccesso”.
Risposta: “Conosco Formigoni da quando aveva 14 anni, anche se da tempo ci si vedeva di rado. Se è stato eletto 4 volte consecutive, ci sarà pure una ragione”. È quel che si domandano i pm che indagano sulle firme false della lista e sui bilanci falsi del San Raffaele.
E infatti ecco l’uppercut cazzullesco: “Che idea s’è fatto del caso San Raffaele?”.
Scola: “Mi mancano troppi elementi per formulare un giudizio”.
Mancherebbero pure un paio di miliardi nelle casse del San Raffaele, ma non sottilizziamo. Ben altro allarma Sua Eminenza: “Qualche interrogativo è nato talvolta dalla ricerca biotecnologica”: ecco il guaio del San Raffaele, la ricerca biotecnologica.
Assalto finale: “Lei è nato a Lecco e si è formato a Milano: come l’ha ritrovata?”. Magari col Tom-Tom? No, ce l’ha portato l’autista.
Alla parola “Lecco” pronunciata da un invidioso Cazzullo, che invece è solo di Cuneo, il cardinale ha l’istinto di farla finita: “La formula del mio ‘ritorno a casa’ è vera. Sarà forse un anticipo del crepuscolo dovuto all’età...”.
E Cazzullo, affranto ma pronto: “Non dica così, lei ha appena compiuto settant’anni”. Così giovane e già così cardinale.
Poche storie: Leccone d’Oro honoris causa.


giovedì 22 dicembre 2011

Agenzia Sticazzi




di Marco Travaglio
   In un film di Woody Allen, credo Il dormiglione, lui e un altro personaggio fuggono dall’ospedale travestiti da medici e, per rendere più credibile il camuffamento, a chiunque incontrino nei corridoi ripetono: “Non siamo impostori, siamo dottori”. Il quarto o il quinto che li sente dire così, insospettito da quell’insistenza, comincia a inseguirli.
La scena tornava in mente ieri mattina, alla lettura dei maggiori quotidiani italiani che aprivano tutti con lo stesso titolo sulla stessa presunta notizia: l’ultimo monito in ordine di tempo del presidente Napolitano che si congratula molto con se stesso per aver inventato il governo Monti e nega recisamente di aver sospeso la democrazia e violato la Costituzione.
Corriere: “‘Nessuno strappo costituzionale’. Per il Presidente la democrazia ‘non è sospesa’”. Repubblica invece titola: “La democrazia non è sospesa”. E La Stampa, al contrario: “La democrazia non è sospesa”. E il Messaggero, però: “La democrazia non è sospesa”.
Cioè: il capo dello Stato smentisce di aver fatto un colpo di Stato. E ci mancherebbe pure che l’avesse ammesso: quella sì sarebbe stata una notizia.
Ora, i casi sono due.
O è vero che la democrazia non è sospesa, e allora la notizia d’apertura dei giornali non è una notizia e non merita l’apertura (al massimo un trafiletto dal titolo “Agenzia Sticazzi: il capo dello Stato nega di aver fatto il colpo di Stato”, assieme agli altri eventi che appassionano giornali e tg: caldo d’estate, freddo d’inverno, pioggia bagnata, siccità asciutta).
Oppure la democrazia è davvero sospesa da quando gli italiani, volenti o nolenti, si sono ritrovati al governo una trentina di personaggi in cerca d’autore, competentissimi, autorevolissimi, sobrissimi, ma ignoti agli elettori. Nel qual caso quella del capo dello Stato si chiama tecnicamente “excusatio non petita”, cioè “accusatio manifesta”. Del resto, se la democrazia non fosse sospesa, che bisogno ci sarebbe di ricordarci ogni giorno che non lo è? Se uno va in giro a dire a tutti: “Sto bene, scoppio di salute, mi sento da dio, sono in forma smagliante”, a qualcuno prima o poi viene il dubbio che si senta poco bene. Se uno ripete a chiunque incontri: “Tranquillo, non ti ho fregato il portafogli”, la prima cosa che faranno gli altri sarà tastarsi le tasche per verificare che il portafogli sia ancora al posto suo.
Curiosamente, mentre ripete a ogni piè sospinto che un governo nato all’insaputa degli elettori (ma non delle banche) è assolutamente normale, Napolitano se la prende con quei pochi che hanno qualcosa da obiettare perché – spiega il Corriere – “mettono in pericolo la prova di compattezza che il Paese ha saputo offrire nelle ultime settimane”.
Un’idea di democrazia davvero curiosa: dell’opposizione, un tempo indispensabile per controllare i governi, si fa volentieri a meno.
Resta da capire in quale democrazia il governo ha l’appoggio del 100% del Parlamento, con i banchi dell’opposizione vuoti.
Una cosa vera però Napolitano l’ha detta: “Con Berlusconi la nostra sostenibilità internazionale era al limite”. E, mentre la diceva, B. gli sedeva di fronte, dopo aver sfilato da imbucato con le quattro alte cariche dello Stato (pur senza essere né carica né alta).
Forse si era già appisolato e non ha sentito. Infatti ha commentato: “Ottimo intervento, completamente e assolutamente condivisibile”. Eppure era stato proprio lui a parlare di “democrazia sospesa”.
Fino a tre mesi fa avrebbe risposto con la barzelletta della mela double-face. Ora invece, contagiato dalla sobrietà generale, arrota pure lui la boccuccia a culo di gallina e mònita: “Quando parliamo alle nostre platee usiamo espressioni colorite. Però siamo in una situazione anomala rispetto al normale svolgimento di una legislatura”.
Oddio, non bastava la sobrietà di Napolitano, di Monti, dei ministri di Monti, della signora Monti, del cane di Monti, del loden di Monti, del Frecciarossa di Monti e persino del Don Giovanni sotto lo sguardo di Napolitano e Monti.
Se ci diventa sobrio pure il Patonza, siamo perduti.

mercoledì 21 dicembre 2011

Severino, sia severa




di Marco Travaglio
   Pensavamo, ingenuamente, che il governo tecnico fosse lì per “salvare l’Italia” con poche misure di pronto soccorso. Invece, a sentire gli annunci e le interviste del premier e dei suoi ministri sui giornali e nei talk show (a proposito: non avevano detto che non avrebbero fatto annunci né dato interviste né frequentato talk show?), pare che vogliano riformare tutto il riformabile: welfare, pensioni, stipendi, statuto dei lavoratori, grandi opere, fisco, giustizia, carceri, sanità, università, scuole, asili, anche nidi.
Una delle più loquaci è la Guardasigilli Paola Severino, che annuncia a Repubblica addirittura una legge anticorruzione. Non prima di una “revisione delle procedure decisionali e di gestione”, affidata all’immancabile “tavolo di confronto per la semplificazione dei rapporti tra Pubblica amministrazione e impresa”.
Roba che, a fare presto, richiede almeno un piano quinquennale. Senza contare che quella della legge anticorruzione è diventata una gag, meglio del Sarchiapone, visto che tutti i governi che Dio manda in terra, da che mondo è mondo, ne annunciano una e poi se ne guardano bene.
Noi comunque prendiamo in parola la Severino e diamo per scontato che lo stesso Parlamento che fino all’altroieri dichiarava Ruby nipote di Mubarak, salvava Cosentino, Milanese, Romano e votava leggi pro-corrotti, si convertirà in articulo mortis e con agile piroetta voterà leggi anti-corrotti.
La sola proposta che la ministra anticipa è “una nuova fattispecie di corruzione, quella ‘privata’ all’interno delle imprese”. Non vorremmo deluderla, ma il reato di corruzione fra privati è già previsto dalla Convenzione internazionale sulla corruzione che tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa firmarono a Strasburgo nel lontano 1999: dopodiché tutti gli Stati membri la ratificarono, tranne l’Italia.
Per informazioni, la Severino può rivolgersi ad Augusta Iannini in Vespa, che staziona al ministero di via Arenula dal 2001, sopravvissuta a Castelli, Mastella, Alfano e Palma senza mai sfiorare quella convenzione con un dito.
L’altro giorno s’era sparsa la voce che la Severino l’avrebbe sostituita. Magari. Invece l’ha puntualmente confermata a capo dell’ufficio legislativo.
Ottima scelta per un ministro che dice di voler “uscire dalla logica delle leggi ad personam”: proprio quelle che la signora Iannini ha contribuito a scrivere senza mai un conato di vomito: falso in bilancio, rogatorie, Cirami, ex Cirielli, senza contare quelle incostituzionali fulminate dalla Consulta (Schifani, Alfano, Pecorella, anti-Caselli).
Convertirla dalla pro-corruzione all’anti-corruzione sarà dura, ma la Severino ha il piglio giusto per riuscirci. Nel qual caso le basterà prendere la Convenzione di Strasburgo e copiarla paro paro: essa già punisce – come avviene in tutto il mondo civile – non solo la corruzione fra privati (per esempio, quando il capoufficio acquisti di un’azienda prende la stecca dal fornitore per servirsi da lui, a prezzi più alti di quelli di mercato), ma anche l’autoriciclaggio (l’Italia è l’unico paese occidentale in cui chi ricicla soldi sporchi in proprio non commette alcun reato) e il traffico d’influenze illecite (quando uno si fa pagare in cambio della promessa di spendere le proprie entrature per risolvere il suo problema).
Se poi la Severino volesse risparmiare tempo, l’anno scorso il Fatto preparò con l’aiuto di giudici e giuristi un articolato di legge che prevede anche di unificare corruzione e concussione e cancellare catastrofi come la Cirielli (la legge del 2005 che dimezza la prescrizione creando la figura del colpevole incensurato a vita, mentre intasa le carceri allungando inutilmente le pene ai recidivi), la salva-evasori (1999) e la depenalizzazione di fatto del falso in bilancio (2002). È una riforma a costo zero, anzi a introito sicuro, visto che intaccherebbe quell’enorme serbatoio di nero che ammonta ogni anno a 70-80 miliardi per la corruzione e a 150 miliardi per l’evasione. Poi farebbe crollare i costi delle opere pubbliche e incentiverebbe le imprese straniere a investire in Italia. Se vuol fare sul serio, signora ministra, sa dove trovarci.