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martedì 29 novembre 2011

Il consenso per evitare il naufragio


MARIO DEAGLIO

Rapido deterioramento», «diffusione del contagio» e «ritardo della politica»: non ha usato mezzi termini Pier Carlo Padoan - vice-segretario dell’Ocse e terzo italiano, insieme con Mario Draghi e Mario Monti, in prima linea in questo periodo sulla scena dell’economia globale - nel presentare le previsioni semestrali sull’andamento dell’economia mondiale e, in particolare, di quella dei Paesi ricchi, nei prossimi due anni.

Fino all’estate si discuteva della velocità della ripresa, ora, avverte l’Ocse (forse il più credibile dei grandi enti previsivi internazionali) si discute dell’esistenza della ripresa. Non si è trattato di un semplice aggiustamento, di una lieve correzione ma quasi di un’inversione di rotta. Se fino a due-tre mesi fa si pensava che la navicella dell’economia mondiale stesse riprendendo il largo, ora si può dire che passerà molto rasente agli scogli e che, se non si fa molta attenzione, potrebbe anche finirci sopra. Nel peggiore dei tre casi illustrati da Padoan, non si tratterebbe di un rallentamento bensì di una caduta.

Una caduta destinata a prolungarsi per i prossimi due anni non soltanto in Italia (in ogni caso uno dei Paesi meno dinamici tra quelli avanzati) ma anche, sia pure in misura minore, nel resto della zona euro, negli Stati Uniti e in Giappone.

Le grandi economie emergenti, a cominciare dalla Cina, non sfuggirebbero a un forte rallentamento del loro tasso di crescita. L’espansione del commercio mondiale, simbolo dell’integrazione economica del pianeta, appare comunque destinata a ridursi a poca cosa. Nella migliore delle ipotesi, il mondo, secondo l’Ocse, se la caverà per il rotto della cuffia. A queste prospettive si aggiungono quelle - per la verità alquanto fantascientifiche, che possono determinare allarmismi ingiustificati ma delle quali sarebbe errato non tenere conto - avanzate da Moody’s, una delle maggiori agenzie di rating, circa la possibilità di insolvenze a catena di Paesi europei.

Perché questo pessimismo? Perché i guai della finanza si stanno abbattendo come un macigno sull’economia reale sia per il bavaglio imposto alle banche, soprattutto a quelle grandi, costrette a dotarsi di un capitale proprio forse eccessivo sia per il «tetto» al debito pubblico (e quindi alla spesa pubblica) imposto agli Stati Uniti da un partito repubblicano miope che, avendo il controllo di una delle Camere, blocca qualsiasi azione di effettivo stimolo all’economia.

A far sembrare molto distante ogni prospettiva di vera ripresa contribuisce il numero, oggi anormalmente elevato, dei disoccupati dei Paesi ricchi. Esso pare destinato a rimanere ancorato attorno ai 45 milioni e reca con sé pesanti incognite politiche, si può senz’altro aggiungere, che un simile accumulo di scontentezza può provocare.

C’è un marcato contrasto tra simili prospettive e l’andamento, apparentemente euforico, delle Borse mondiali che nel pomeriggio e nella serata di ieri hanno messo a segno miglioramenti del 3-4 per cento. In realtà le Borse mondiali hanno semplicemente cancellato qualche giorno di caduta in base alla notizia comparsa domenica su «La Stampa» - di un possibile, massiccio aiuto internazionale all’Italia, tale da coprire il fabbisogno finanziario del Paese per circa un anno in cambio dell’attuazione di un vasto programma di riforme. Al di là delle smentite ufficiali, si tratta di un progetto ragionevole, sia per l’Italia sia per la salute dei mercati mondiali, e non ci si può non augurare che abbia seguito, indipendentemente dalle modalità tecniche.

Perché si realizzi la prospettiva di un’economia mondiale che riesce a non naufragare contro scogli particolarmente aguzzi sono necessari di fatto tre requisiti: il consenso tedesco, il consenso americano e il consenso del Parlamento italiano. Il consenso tedesco è indispensabile perché il «fondo salvastati» faticosamente creato tra i Paesi europei venga subito indirizzato a un aiuto di liquidità all’Italia, mettendo l’Italia stessa e l’intera economia finanziaria internazionale al riparo dall’attuale, crescente instabilità. Il consenso americano è a sua volta indispensabile perché il Fondo Monetario Internazionale possa aggiungere la sua «potenza di fuoco», ossia le sue risorse finanziarie, all’operazione riguardante l’Italia ed eventualmente altri Paesi. Per questa decisione, occorre infatti il voto favorevole di Paesi che complessivamente detengano l’85 per cento delle quote del Fondo stesso e gli Stati Uniti possiedono il 17 per cento delle quote e quindi dispongono di un diritto di veto.

A queste due condizioni necessarie si aggiunge una condizione sufficiente, ossia che l’Italia si proponga, con la dovuta determinazione e la necessaria credibilità, di affrontare provvedimenti duri di politica economica che annullino già dal prossimo anno il deficit pubblico. In maniera molto tangibile, anche se indiretta, quindi, i problemi del mondo faranno tra breve il loro ingresso nelle aule di Palazzo Madama e di Montecitorio. In un modo che tutti avremmo preferito evitare, per un breve periodo Roma torna a essere il centro del mondo.

mario.deaglio@unito.it

venerdì 25 novembre 2011

Il gigante dai piedi di argilla


MARIO DEAGLIO

Essendo figlia di un pastore luterano, e probabilmente buona conoscitrice della Bibbia, Angela Merkel farebbe bene a riflettere sul sogno raccontato dal re Nabucodonosor nel «libro di Daniele»: una grande e magnifica statua con la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre di bronzo e i piedi in parte d’argilla e in parte in ferro viene colpita proprio nei piedi da un masso che rotola giù dalla montagna. E la statua si sgretola subito in piccolissimi frammenti che vengono spazzati via dal vento.

Molti operatori economici stanno vivendo le lunghe e angosciose giornate finanziarie di questa settimana nella paura che l’Europa, e in particolare l’euro, che ne costituisce forse la migliore realizzazione, possa far la fine della statua di Nabucodonosor, ossia franare in poco tempo e quasi senza preavviso. Sempre più frequentemente li sfiora il sospetto che i piedi d’argilla non siano necessariamente rappresentati dalla Grecia e dagli altri inaffidabili Paesi «meridionali» ma si possano trovare invece nella stessa Germania e possano costituire la debolezza nascosta di quel gigante dalla testa d’oro che è l’Europa.

Si tratta di un gigante con poche forze, come si può constatare dagli sviluppi finanziari degli ultimi mesi.

Anche ieri, attorno al tavolo delle consultazioni di Strasburgo, si sono confrontate solo debolezze diverse. La debolezza francese derivante da una crescita, apparentemente inarrestabile, del debito pubblico che l’ha portato ad aumentare di circa un terzo (dal 60 all’80 per cento del prodotto interno) durante i quattro anni della crisi finanziaria; la debolezza di un’Italia soffocata da meccanismi inefficienti di decisione politica e di redistribuzione del reddito che, nell’ultimo decennio, hanno tarpato le ali a quasi tutte le iniziative di crescita; e infine la debolezza tedesca apparsa improvvisamente con aste finanziarie in cui non si riescono a collocare tutti i titoli pubblici.

Appena sei mesi fa, la Germania veniva gratificata del titolo di «locomotiva d’Europa» e sembrava aver trovato la ricetta per uscire dalla crisi. Ci si accorge ora che la locomotiva era in realtà un vagone, che era stata essa stessa trainata dalla ripresa mondiale. La Germania è infatti vissuta sulle esportazioni e non su un aumento ordinato e consistente dei consumi interni. E dopo avere all’incirca raggiunto il livello produttivo precedente la crisi, la locomotiva si è fermata con una frenata brusca e inattesa, con la disoccupazione che torna a crescere dopo due anni e gli ordini all’industria, specialmente dall’estero che tornano a diminuire.

Insieme con la disoccupazione, in Germania cresce da tempo l’inquietudine, come testimonia la lunga fila degli insuccessi nelle elezioni locali del partito del cancelliere o dei suoi alleati. E questo spiega il persistente rifiuto del cittadino medio - che ha ancora un ricordo lontano, ma vivido di un nonno o un prozio che è stato rovinato dall’inflazione degli Anni Trenta - di pensare in grande. Dopo aver sostenuto a lungo l’Unione Europea, con contributi finanziari superiori ai benefici immediati, assicurando così il proprio e l’altrui sviluppo, dopo avere incassato la riunificazione al prezzo di sostituire il marco con l’euro, la Germania ha smesso di avere progetti di respiro veramente ampio.

Si è ripiegata su se stessa, si sente probabilmente più tedesca e meno europea. Il tedesco è una delle poche lingue in cui la stessa parola («Schuld») significa indifferentemente «debito» e «colpa». Dietro al ricordo della grande inflazione affiora forse questa memoria ancora più profonda, per cui il debitore è un colpevole e un debitore a rischio di insolvenza è come un appestato. Forse così si contribuisce a spiegare l’atteggiamento non lineare della Germania nei confronti della Grecia, un Paese la cui insolvenza danneggerebbe fortemente le banche tedesche, e che pure la Germania esita a salvare, negando il suo assenso ad azioni incisive della Banca Centrale Europea.

Si potrà anche sostenere che Angela Merkel sia abile quanto il suo predecessore, Helmut Kohl, che riuscì a riunificare il paese. Non le mancano, infatti, decisione e capacità argomentativa ma non sembra esser dotata delle grandi visioni del futuro di Kohl e, prima di lui, di Adenauer, Ehrhard e altri cancellieri tedeschi. Preferisce rivedere, in maniera taccagna, i conti della spesa piuttosto che domandarsi perché si fa la spesa. Non le importa di pronunciare una raffica di «no», come ha fatto ieri sugli Eurobond, apparentemente senza una visione complessiva dei circuiti finanziari, senza rendersi conto che un leader europeo, come aspira a essere, deve tenere in serbo qualche sì. Deve indicare una strada percorribile e non predicare principi inflessibili.

C’è forse qualcosa di simbolico nel fatto che l’attuale presidente del Consiglio italiano sia arrivato ieri all’incontro di Strasburgo con cronometrica puntualità, mentre il suo predecessore aveva abituato i colleghi internazionali a mal sopportati ritardi. In ritardo, invece, è arrivato il cancelliere tedesco. Colpa, ahimè, di un guasto all’aereo: nemmeno l’efficientissima Germania è perfetta. Se Angela Merkel riuscirà a prendere coscienza delle imperfezioni tedesche, che i mercati in questi giorni le hanno pesantemente ricordato, forse c’è speranza per l’Europa.

mario.deaglio@unito.it

martedì 4 ottobre 2011

La vera partita per il Paese


MARIO DEAGLIO

Con la decisione della Fiat di uscire dalla Confindustria, l’amministratore delegato Marchionne si configura una volta di più come avversario del «gattopardismo», un termine che vuole indicare un cambiamento di facciata che lascia intatti i sottostanti meccanismi e rapporti di potere. Derivato da «Il Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa, dove il nipote del protagonista, Tancredi, pronuncia una frase divenuta emblematica della realtà italiana: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» descrive purtroppo molto bene la nostra disperante immobilità.

Marchionne, può essere ammirato o criticato, può trovare consensi o dissensi ma di sicuro non è un Gattopardo. La sua azione di amministratore delegato della Fiat continua a configurarsi come il principale elemento di discontinuità, o, se si preferisce, di rottura, con la tradizione italiana di rapporti tra imprese e politica, tra imprese e mondo del lavoro, tra imprese e estero.

La decisione del 2009 di correre l’avventura americana con l’ingresso nel capitale della Chrysler, un’impresa più grande della Fiat - di cui la Fiat oggi detiene la maggioranza assoluta - non rientra certo negli schemi normali del capitalismo italiano, spesso molto attenti a non «offendere» i grandi concorrenti stranieri ma piuttosto a collaborare con loro; così come non vi rientrano gli accordi sindacali relativi agli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori e ex Bertone che hanno, in varia misura e con varie modalità, scardinato la bene oliata macchina delle normali contrattazioni sindacali; e il disinteresse che in più di un’occasione recente la Fiat ha mostrato verso gli sgravi fiscali per sostenere la domanda di auto in Italia.

La strategia degli investimenti di un gruppo delle dimensioni della Fiat non può non condizionare in gran parte la politica industriale dell’Italia, specie quando questa politica, come è successo negli ultimi 2-3 anni, può considerarsi praticamente inesistente. Quella che si è venuta definitivamente precisando con gli annunci di ieri è sicuramente una strategia scomoda, che, per di più, va contro a molta saggezza convenzionale. Il ritorno in Italia dalla Polonia di lavorazioni industriali «pesanti», la conferma di un ruolo tecnologico-produttivo importante per lo stabilimento torinese di Mirafiori, il tentativo di riaccendere la competizione della Fiat nel settore delle auto di qualità, in competizione con grandi case straniere, a partire dallo stabilimento ex Bertone sono mosse audaci, specie in un momento di difficile congiuntura mondiale come quello presente. Sono scommesse importanti, dall’esito non scontato, in un mondo industriale che non ama molto scommettere e che cerca spesso garanzie pubbliche e coperture bancarie, oltre che l’assenso informale del sindacato, a gran parte delle proprie iniziative.

Tutto ciò non significa che il mondo industriale non possa trovare una sua dimensione internazionale o che l’ambiente in cui operano le imprese italiane sia oggettivamente privo di punti di forza; di sicuro, però, tale ambiente si è rivelato poco adatto al quadro competitivo che, per il momento almeno, prevale nel mondo. Per valutare bene la portata dell’inadeguatezza italiana occorre ricordare che da vari anni nessuna grande impresa, italiana o estera che sia, compie investimenti importanti nel Mezzogiorno - se si eccettua qualche iniziativa dell’industria pubblica - e che il resto d’Italia vive in un clima economico stagnante in marcato contrasto, anche in questo periodo di crisi, con il carattere estremamente dinamico dell’economia mondiale. Una ricerca del Fraser Institute che viene presentata in questi giorni a Torino dal Centro Einaudi, pone l’Italia al 70˚ posto nel mondo e al terzultimo in Europa per quanto riguarda la libertà economica; nel 2008 era al 66˚ posto, nel 2003 al 50˚, 10 anni fa al 35˚.

Questi numeri parlano da soli. O forse no. L’Italia può anche legittimamente scegliere la strada del «piccolismo», dell’irrilevanza internazionale, del Paese-museo; delle relazioni sindacali in cui si stabilisce che tutto cambi, come con l’articolo 8 della recente manovra che consente di regolare con accordi anche i licenziamenti individuali, salvo poi procedere a un’intesa Confindustria-sindacato che impegna i contraenti a non applicare tale articolo. Precisamente tale intesa è stata la causa prossima dell’uscita della Fiat dalla Confindustria.

L’importante in questa vicenda non è stabilire se Marchionne abbia ragione o torto; è prima di tutto importante che gli impegni presi vengano rispettati e sin qui questo è successo. Occorre poi che l’Italia, di tutti i colori politici e di tutte le convinzioni, decida se vuole cercar di giocare una partita economica di primo piano. Se lo vuol fare non potrà difendere i diritti attuali di tutti se non riducendo di fatto i diritti di chi è senza lavoro e delle nuove generazioni, come purtroppo sta succedendo. Di fronte a alternative del genere, rinviare le scelte e fare i Gattopardi non serve a nulla.

mario.deaglio@unito.it

sabato 3 settembre 2011

La manovra del malessere italiano


MARIO DEAGLIO

La cura economica anticrisi proposta dagli americani - consistente nell’immettere quantità molto ingenti di nuova liquidità nell’economia degli Stati Uniti e, per conseguenza, in quella mondiale - non ha funzionato, anzi si sta rivelando un vero e proprio disastro: moltissimo debito e niente crescita, minaccia di inflazione e occupazione che non riparte. Le Borse dei Paesi ricchi hanno perso il 10-15 per cento dall’inizio di agosto e nella giornata di ieri hanno subito una nuova, forte caduta. L’orgoglioso «modello tedesco» che doveva trainare la grande ripresa europea si ritrova con crescita prossima allo zero.

Si sta duramente prendendo atto che, per uscire da questa crisi, non serve, o non è sufficiente, stampare moneta, come ha fatto il governatore americano Bernanke; si deve anche prendere atto che non serve neppure ricercare a tutti i costi l’azzeramento dei deficit dei bilanci pubblici, come invece continua a ripetere il governatore Trichet dalla sede della Banca Centrale Europea a Francoforte.

Nessuno però sa bene che cosa fare, meno che mai i governi europei impegnati nella messa a punto di manovre e leggi finanziarie all’insegna della confusione, in un orizzonte dominato da inquietudini politiche di breve periodo, ossia da preoccupazioni elettorali prima che economiche, e dalla palpabile carenza di grandi visioni.

In questo panorama non allegro a quelle generali si sommano le specifiche difficoltà della manovra italiana di bilancio. Una manovra cucita di giorno, all’inizio in un’atmosfera quasi festiva e campestre, nella casa del presidente del Consiglio e scucita di notte, come la tela di Penelope, via via che i calcoli degli esperti mettevano in luce le incongruenze, le difficoltà pratiche, l’impossibilità della realizzazione delle decisioni affrettatamente prese poche ore prima.

Una manovra abbozzata sulla base di valutazioni molto approssimative, talora grossolanamente errate, circa il numero degli italiani toccati dai vari provvedimenti, gli effetti generali derivanti dal possibile taglio di voci fondamentali della spesa pubblica locale e, più in generale, le conseguenze macroeconomiche della riduzione concordata con l’Unione Europea. Una manovra della quale il presidente del Consiglio, lasciando da parte nozioni elementari di economia, ha dichiarato - e i suoi ministri hanno implicitamente concordato con lui - che conta solo il totale, perché imposto dall’Europa, non come a questo totale si arriva.

Ne è derivato un provvedimento cupo, disordinato, che non dà alcuna speranza, fatto in buona parte di tagli e ancora di altri tagli, di cavilli e di altri cavilli ancora. E quando i tagli sono troppo grossolani, e i cavilli troppo evidentemente vessatori, li si elimina dal testo e si attribuisce la somma mancante a una generica «lotta all’evasione», come una volta si diceva «Dio provvederà», senza spiegare come e perché questa lotta all’evasione dovrebbe avere risultati migliori di quelli del passato. L’idea di spostare risorse da un tipo di impiego a un altro per cercare così di far funzionare qualche meccanismo di stimolo, non è stata presa in considerazione. Ugualmente non si sono tenute in alcun conto le ultime notizie congiunturali che indicano un preoccupante rallentamento dei consumi delle famiglie già prima della manovra. Continuare su una linea esclusivamente restrittive non solo equivale a versare sale sulle ferite ma può cancellare le speranze per il futuro e aumenta le probabilità di una nuova recessione.

E’ naturale che, in questa situazione, la Commissione Europea abbia ieri diplomaticamente espresso «dubbi» - che celano un giudizio pesantemente negativo - su questa «miracolosa» lotta all’evasione, dalla quale dovrebbe derivare un gettito che, nelle stime del governo, è prodigiosamente aumentato nel giro di pochi giorni senza che si spieghi da che cosa derivi questo prodigio. La reazione dei mercati è stata assai meno diplomatica: la differenza nella quotazione dei titoli decennali del debito pubblico italiano rispetto a quelli tedeschi (ritenuti i più sicuri d’Europa) ha raggiunto il 3,3 per cento, il che significa che, al fine di cautelarsi contro il «rischio Italia», per prestare denaro a lungo termine allo Stato italiano i mercati esigono un tasso di interesse più che doppio di quello che richiedono per prestar denaro allo Stato tedesco. Si tratta del differenziale più alto da quando la Banca Centrale Europea ha attivato gli acquisti concordati per difendere le quotazioni.

In un’atmosfera mondiale di malessere diffuso e di diffusa sfiducia che ha portato ieri la quotazione dell’oro a un ennesimo record, l’Italia appare in più colpita da uno specifico e grave «malessere italiano», fatto di miopia e disorientamento, preoccupazione e sfiducia, al quale contribuisce anche la scarsità di proposte coordinate e complete provenienti dall’opposizione. Per superarlo occorre prima di tutto prenderne atto e non rifugiarsi, come gran parte del mondo politico, in una rassegnata ignoranza o in un’arrogante indifferenza.

mario.deaglio@unito.it

lunedì 15 agosto 2011

L'incapacità di offrire una speranza


MARIO DEAGLIO

È un agosto in cui tutto va abbastanza male. Con il numero degli italiani in vacanza che fa segnare un record negativo, il Parlamento aperto, le Borse in picchiata; con il dollaro degradato, la guerra di Libia, l’inflazione che minaccia la Cina, le fiamme della rivolta di Londra.

Il rilancio economico dei Paesi ricchi è almeno parzialmente fallito, il debito pubblico è in difficoltà quasi ovunque, i governi non sanno bene che cosa fare. E’ utile tener presente questo quadro perturbato per comprendere bene la manovra italiana di finanza pubblica, anche se tutto ciò può rappresentare solo un’attenuante per un provvedimento di politica economica purtroppo insufficiente, forse persino controproducente.

Tale provvedimento va collocato, prima di tutto, nell’orizzonte culturale del mondo politico che appare caratterizzato da due atteggiamenti di fondo.

Il primo, che riguarda soprattutto la maggioranza, è un rifiuto viscerale ad accettare la realtà e la gravità della crisi. La crisi viene considerata non già una conseguenza di debolezze intrinseche dell’economia italiana bensì un fatto esterno non prevedibile, una tegola che ci è caduta addosso. Prima di questo spiacevole incidente, sembra di capire, l’Italia stava andando benissimo.

In secondo luogo vi è la lontananza del mondo politico dai cittadini che impedisce ai parlamentari di cogliere sia il risentimento crescente per i loro innumerevoli privilegi sia le difficoltà della vita di tutti i giorni per i normali cittadini. Il presidente del Consiglio ha «un cuore che gronda sangue» per gli inasprimenti fiscali ma i bilanci famigliari degli italiani cominciano a grondare debiti: il tasso di risparmio delle famiglie è a livelli minimi da decenni, l’indebitamento delle stesse ai massimi. La ricchezza finanziaria, ossia i risparmi accumulati nel tempo dalle famiglie, si sta sciogliendo rapidamente.

Questa non comprensione di fondo dell’eccezionalità della situazione sia internazionale sia interna ha indotto il governo a non far uso di strumenti eccezionali. Dal presidente del Consiglio è arrivato un secco ultimatum a un’imposta patrimoniale, troppo lontana dalle sue promesse elettorali; dalla Lega Nord è venuto un ultimatum altrettanto secco alla modificazione dei meccanismi previdenziali, probabilmente perché il nucleo duro dell’elettorato di quella forza politica è costituito da persone ormai prossime alla pensione.

La manovra ha quindi dovuto far leva soprattutto su strumenti tradizionali: un giro di vite fiscale, verso i soliti soggetti, un taglio alle spese, più una manciata di interventi minori (dalla soppressione dei Comuni più piccoli all’obbligo per i funzionari pubblici a volare in classe economica, alla razionalizzazione di alcune festività e forse anche alla tassazione delle rendite finanziarie) che vanno nella direzione giusta ma che non bastano a ribaltare un giudizio negativo.

Tale giudizio deriva dalla constatazione che in questa finanziaria non ci sono misure per favorire la crescita mentre i provvedimenti previsti molto probabilmente aggraveranno il rallentamento già in atto, determinando forse una nuova contrazione del prodotto lordo. Il governo non riesce infatti a far balenare alcuna luce in fondo al tunnel. Pur di vedere questa luce, probabilmente gli italiani avrebbero accettato una manovra più severa in cui una parte delle risorse raccolte fossero state destinate a stimoli alla produzione. Il governo si propone invece come sconsolato gestore di una crisi alla quale non si intravede alcun termine.

L’«effetto annuncio» di quest’assenza di nuovi orizzonti è sicuramente molto negativo. Prima ancora di subire gli inasprimenti fiscali, gli italiani modificheranno in senso restrittivo i propri comportamenti di spesa, come già avevano cominciato a fare nei mesi scorsi. Per conseguenza, il pericolo di un calo generalizzato della domanda di beni di consumo è purtroppo reale, così come lo è quello di un rinvio dei programmi di investimenti da parte delle imprese. Minori consumi e minori investimenti implicano minori entrate fiscali, con il pericolo di innescare un, sia pur lieve, movimento di contrazione.

A un governo che non sa offrire speranze fa da contrappunto una popolazione con orizzonti angusti alla quale manca il soffio del cambiamento. La forza politica che, sotto vari nomi - da Forza Italia a Popolo della Libertà - fa capo al presidente del Consiglio era sorta all’insegna dell’entusiasmo e dell’ottimismo. Il volto teso del presidente del Consiglio, non più entusiasta né particolarmente ottimista, che annuncia provvedimenti restrittivi «tradizionali» è prima di tutto l’immagine di una sconfitta politica.

Vi è inoltre il pericolo di rilevanti tensioni sociali. A seguito dei tagli agli enti locali, introdotti senza troppo riguardo per l’efficienza, la manovra darà origine a una serie di disservizi e di scontentezze che possono costituire la premessa a un Paese più cupo. I tagli agli enti locali significheranno infatti strade più sporche e autobus più cari, minore assistenza agli indigenti e agli handicappati, minori iniziative culturali. I dipendenti pubblici, presi di mira dal provvedimento, si sentiranno trattati in blocco come fannulloni e malfattori, ci sarà animosità verso i lavoratori autonomi, toccati solo leggermente dagli inasprimenti fiscali. Forse non ci sarà macelleria sociale ma quasi certamente una macelleria della qualità della vita.

Vi è una modesta possibilità che queste prospettive negative possano essere quanto meno alleggerite nel corso della discussione parlamentare se l’opposizione saprà dare contributi correttivi e se la maggioranza li saprà accettare; a questa speranza si deve aggiungere quella che la congiuntura internazionale migliori e che un po’ di stimolo derivi dalla domanda estera. Due rondini, però, non fanno primavera.

mario.deaglio@unito.it

martedì 12 luglio 2011

I gravi rischi della tempesta perfetta

MARIO DEAGLIO

La telefonata del cancelliere tedesco Angela Merkel al primo ministro italiano Silvio Berlusconi, apparentemente rassicurante e di appoggio alla manovra finanziaria che si appresta ad essere esaminata dal Parlamento, costituisce in realtà un duro monito - mentre è riunito un vertice europeo di crisi - a procedere speditamente sulla via del risanamento finanziario, un invito pressante a resistere alle forti tentazioni, emerse in questi giorni, di un annacquamento della manovra appena presentata.

Ed è un segnale di quanto profonda sia la crisi attuale e di quanto limitate siano le opzioni di un’Italia almeno parzialmente sotto tutela europea.

Il limite delle opzioni italiane deriva dal fatto che l’Italia si trova in una situazione che qualcuno ha chiamato «tempesta perfetta» e che si verifica quando tutte le dimensioni di una crisi si influenzano e si aggravano a vicenda. La «tempesta perfetta» che si è scatenata in questi giorni sull’Italia è a un tempo finanziaria, economica e politica. È illusorio pensare di «sistemare» una di queste dimensioni senza sistemare anche le altre; e senza tener conto che, in realtà, l’attacco speculativo che coinvolge il debito pubblico italiano e la Borsa italiana potrebbe essere il culmine di uno scontro più vasto tra euro e dollaro in una situazione di forte disordine monetario mondiale.

Tra moneta americana e moneta europea è in atto una sorta di duello tra due debolezze: gli americani devono fare i conti con un rilancio non riuscito della loro economia, con un «tetto» del debito pubblico di fatto già sfondato, senza il consenso parlamentare, con qualche preoccupante segnale di inflazione incipiente; gli europei con i conti pubblici pericolanti di molti Paesi dell’euro. L’attacco al debito pubblico italiano - oggi tecnicamente non più debole di ieri - potrebbe essere una sorta di diversivo per cercar di evitare, o quanto meno di procrastinare, una diffusa perdita di fiducia nel dollaro che rischia di lasciarsi sfuggire la sua posizione di punto centrale del sistema valutario mondiale.

Per l’Italia, la «tempesta perfetta» comporta pericoli molto gravi. Significa che tutti i nodi vengono al pettine nello stesso momento: la manovra finanziaria non può essere disgiunta da un nuovo equilibrio politico (di questo si è già avuto qualche sentore nel mutare dei rapporti tra Lega Nord e Popolo della Libertà, con una maggiore forza dialettica della prima) e probabilmente da un nuovo patto sociale, il che richiede consensi più vasti di quelli dell’aritmetica parlamentare. Perché questi consensi si materializzino è necessario che il tutto si collochi nell’ottica di una fondata speranza di ripresa quanto meno nel medio periodo.

La manovra finanziaria contiene al suo interno numerosi elementi di elasticità, forse già pensati per poter essere anticipati in una situazione di emergenza: lo slittamento in avanti di quanto è previsto dalla manovra per il 2013 e per il 2014 rappresenterebbe un «indurimento» apprezzato dai mercati. Occorrerebbe però anche l’introduzione di alcuni elementi non presenti nel progetto attuale, che potrebbero attenuare gli eccessi dell’attuale compressione della spesa pubblica, chiaramente insostenibile nella sua forma attuale, da parte della maggioranza degli enti locali: un programma di vendita, almeno parziale, di poste e ferrovie (due imprese pubbliche di grandi dimensioni che potrebbero avere motivi di interesse per i mercati), una vendita di oro che, per quanto relativamente modesta dati i vincoli internazionali che l’Italia deve rispettare, darebbe un’idea del carattere strutturale dei rimedi che si stanno approntando, e un inasprimento delle misure per la compressione del costo della politica. Naturalmente si dovrebbero scordare provvedimenti volti a sanare situazioni particolari come quelli che possono coinvolgere la Fininvest, tolti dal testo definitivo della manovra attuale, ma che qualcuno pensa di ripresentare.

Le grandi linee di un nuovo patto sociale dovrebbero essere rappresentate da sacrifici paralleli per «capitale» e «lavoro». I sacrifici per il «capitale» sarebbero rappresentati da una qualche forma di imposta patrimoniale. I sacrifici per il «lavoro» dall’attenuazione di alcune conquiste del passato nell’ambito dei contratti nazionali; la falsariga dovrebbe essere rappresentata dai grandi accordi sindacali tedeschi dell’anno scorso che hanno fortemente contribuito al robusto rilancio dell’economia della Germania. Naturalmente i dettagli sarebbero tutti da studiare e toccherebbe a chi si trova al governo gestire questo parallelismo con la necessaria credibilità e decisione. Tutto ciò sarebbe probabilmente sufficiente a «mettere in sicurezza» il sistema italiano e a prepararlo per una nuova fase espansiva dell’economia europea, se questa ci sarà davvero, oppure a conferirgli particolare solidità se questa fase espansiva non dovesse materializzarsi.

La logica di un simile insieme coordinato di provvedimenti è che questo Paese si merita qualcosa di meglio del piccolo cabotaggio che ha caratterizzato la sua politica e la sua economia negli ultimi anni, qualcosa di meglio del dissolversi della sua coscienza pubblica in uno scetticismo privo di qualsiasi moralità, purtroppo evidente nella successione di scandali pubblici e privati che l’hanno caratterizzato di recente. A centocinquant’anni dalla formazione dello Stato italiano, l’Italia ha ancora molte cose da dire sull’orizzonte mondiale e non dovrebbe aver bisogno di una telefonata del Cancelliere tedesco per sapere che cosa deve fare.

mario.deaglio@unito.it

giovedì 30 giugno 2011

Su Bankitalia non si può sbagliare

MARIO DEAGLIO

Nell’intricato panorama dell’economia italiana, stretta tra la prospettiva di una manovra lunga e severa - resa indispensabile dalle difficoltà europee e mondiali assai più che dalle difficoltà italiane - e quella di una crescita comunque stentata, si è aperto in questi giorni un nuovo problema: oltre a rappresentare un «successo d’immagine» per l’Italia a livello mondiale, cosa rara di questi tempi, la nomina di Mario Draghi alla guida della Banca Centrale Europea fa sorgere l’esigenza di pensare alla sua successione alla guida della Banca d’Italia.

E di pensarci in tempi rapidi perché, nonostante la schiarita rappresentata dal voto di ieri del Parlamento greco, le perturbazioni monetarie mondiali non sono certo finite e l’Italia avrebbe maggiori rischi di esserne coinvolta se l’incertezza sul nome del futuro Governatore dovesse durare troppo a lungo.

Dalla Banca d’Italia passa una parte non piccola dell’identità economica italiana.

E’ stato grazie alla Banca d’Italia di Mario Draghi che il sistema bancario italiano non si è dissolto dopo l’estate bollente del 2006, con la probabile acquisizione di alcuni dei principali istituti bancari italiani da parte di concorrenti stranieri. Quelle stesse banche sono state incoraggiate a fondersi, a raggiungere e mantenere un consistente livello di solidità patrimoniale; sono oggi annoverate tra le principali aggregazioni finanziarie europee e rappresentano una delle maggiori garanzie della tenuta italiana,

Il sistema di vigilanza della Banca d’Italia, uno dei più severi del mondo, ha poi contribuito a tenere le banche italiane lontane dalle avventure troppo frequenti in altri sistemi creditizi: basti pensare che in Gran Bretagna, patria dei moderni sistemi bancari, tre delle maggiori banche hanno dovuto essere nazionalizzate in situazioni di emergenza, naturalmente a spese dei contribuenti; il costo elevato di quelle nazionalizzazioni (che l’Italia ben difficilmente potrebbe permettersi) ora frena l’economia britannica. In Italia, quasi nessuna banca ha dovuto avvalersi del «paracadute» pubblico rappresentato dai cosiddetti «Tremonti bonds».

Di fronte a una crisi mondiale che fa ragionevolmente prevedere nuovi mesi di incertezza e di perturbazioni monetarie, la tenuta del sistema bancario appare essenziale alla tenuta dell’Italia. Essa sarà meglio garantita se verrà prescelto un candidato in grado di garantire la continuità della «cultura» della Banca d’Italia e della sua esperienza positiva degli ultimi anni.

Fatta salva l’indiscussa qualità professionale dei nomi dei possibili candidati, appare preferibile un’autonomia di fatto della Banca d’Italia dal ministero dell’Economia. Tra i due enti che, con competenze molto diverse, governano il sistema economico italiano la collaborazione - pur talvolta venata da qualche contrapposizione dialettica, tutto sommato salutare - è preferibile alla subordinazione della prima al secondo. Una Banca d’Italia sottomessa al Tesoro evocherebbe i tempi precedenti al «divorzio» del 1981 che pose le basi del rientro italiano dalla grande inflazione degli Anni Settanta. Fino ad allora la Banca d’Italia era tenuta a sottoscrivere, più o meno passivamente (e a far sottoscrivere dalle banche) i titoli pubblici che il Tesoro riteneva opportuno emettere.

Con l’attuale ministro dell’Economia, il rischio di una Banca d’Italia «schiava» probabilmente non si corre, in quanto la gestione Tremonti è tutto fuorché finanza allegra, come gli italiani in questi giorni possono ben constatare. I ministri, però, passano e i governatori restano, non avendo bisogno di essere confermati a ogni cambio di maggioranza. Con i tempi che corrono, una scelta che si fermi all’interno di Via Nazionale appare certamente la più lungimirante.

mario.deaglio@unito.it

venerdì 17 giugno 2011

Condannati all'incertezza monetaria

MARIO DEAGLIO

Di fronte alle notizie in arrivo dalla Grecia, che parlano di gravi disordini e di possibile instabilità politica, di fronte ai mugugni dei cittadini-elettori dei Paesi ricchi, che si esprimono con sempre minor consenso ai partiti di governo, c’è da domandarsi se il mondo della finanza non abbia, per caso, fatto i conti senza l’oste.

L’oste, in questo caso, è rappresentato dai cittadini-elettori, appunto, ai quali si richiede un esercizio di austerità quasi sempre non piccolo, in certi casi durissimo, per compensare i tempi allegri in cui gli stessi cittadini hanno eletto governi-cicala. I governi-cicala hanno varato sistemi pensionistici non sostenibili, aumentato spese pubbliche non essenziali, indebolito in vari altri modi la finanza pubblica. Naturalmente i cittadini hanno sbagliato a scegliere governanti poco saggi, ma è sufficiente quest’errore a giustificare il sacrificio di intere generazioni di giovani che non trovano lavoro, nonché di quella porzione di lavoratori che vede diminuire sia la stabilità del proprio lavoro sia il potere d’acquisto dei propri salari?

Non si tratta di una domanda retorica, bensì di un interrogativo politico del quale nessuno conosce bene la risposta. È però legittimo supporre che, prima o poi, appaia sulla scena politica qualche leader che, rispolverando ideologie oggi in soffitta, si chiederà se non è preferibile far pagare, almeno in parte, la crisi al «capitale» - oggi peraltro diffuso ben al di là della normale cerchia dei capitalisti - invece che al «lavoro». Del resto, molti cittadini-elettori sarebbero probabilmente d’accordo con una proposta che riducesse il valore dei titoli pubblici in loro possesso purché i loro figli e nipoti siano in condizione di avere un lavoro stabile a condizioni almeno non peggiori di quelle dei padri.

In quest’orizzonte si inquadrano i dibattiti sul debito della Grecia: un Paese che non può essere aiutato con la «ristrutturazione» del suo debito senza che ne soffra tutto il sistema (ovvero le banche - non italiane - detentrici di gran parte di questo debito), ma che ugualmente non può essere aiutato con il rifinanziamento del debito stesso da parte dei Paesi dell’euro senza una ribellione elettorale da parte dei cittadini-elettori chiamati a sopportare un ennesimo, gravoso peso. La Grecia, culla della civiltà europea, diventa così pietra dello «scandalo», parola greca che significa inciampo, di un’Europa all’incerta ricerca delle propria identità e del proprio futuro. Lo «scandalo» non si ferma all’Europa, in quanto nessuna delle grandi monete non europee può dirsi in buona salute, al punto che un ipotetico cedimento dell’euro significherebbe la fine di quell’ordinata ragnatela di scambi globali che, pur con molti difetti, ha tenuto lontane le prospettive di una guerra globale.

Probabilmente per la Grecia un rimedio si scoverà, anche grazie all’eccellenza, sia tecnica sia diplomatica, di Mario Draghi, nuovo governatore della Banca Centrale Europea, che si troverà per prima cosa sulla scrivania questa patata davvero bollente. Consisterà probabilmente di un allungamento dei tempi concessi alla Grecia per ritrovare il pareggio di bilancio - all'inizio stupidamente e cinicamente calcolati in pochissimi anni senza tener conto degli squilibri sociali che ciò avrebbe causato -, di una remissione «volontaria» di una quota del debito da parte delle grandi banche che lo detengono, di maggiori aiuti del Fondo Monetario Internazionale. Difficilmente, però, la soluzione greca potrà essere estesa a tutti i Paesi oggi in difficoltà e a quanti potrebbero esserlo domani, compresi gli Stati Uniti, la cui moneta è ostaggio di un durissimo scontro tra il governo del Presidente Obama e il Congresso controllato dall’opposizione.

Siamo condannati a vivere un lungo periodo d’incertezza monetaria che, di fatto, lega le mani a tutti i governi e che impedisce in particolare al governo italiano di allentare i cordoni della borsa, come piacerebbe a molti ministri. Basterebbe un solo accenno concreto in questa direzione a far iscrivere l’Italia nell’elenco dei Paesi a rischio e a far cadere il valore di mercato dei titoli del debito pubblico italiano. In questo contesto va collocato il pesante avvertimento della Banca Centrale Europea, nel suo bollettino mensile uscito ieri, perché il Paese specifichi meglio «ulteriori interventi» (ossia tagli alle spese pubbliche e quant’altro) per alcune decine di miliardi di euro entro il 2013. Erano cose già note, ma il ripeterle nel momento in cui un italiano sta per prendere il timone a Francoforte può avere l’intento di sottolineare che, non per questo, l’Italia potrà anche solo pensare a condizioni di favore.

Il sistema monetario che emergerà da questa fase di passaggio, che si spera il più possibile ordinata, non potrà più essere incentrato sul dollaro, ostaggio dei giochi politici interni degli Stati Uniti; sarà probabilmente multipolare e all’inizio molto confuso. Se si continuerà a commerciare, a scambiare, però, non si comincerà a guerreggiare su larga scala ed episodi tristi come quello libico rimarranno isolati.

mario.deaglio@unito.it

mercoledì 8 giugno 2011

L'austerity deve colpire la politica

MARIO DEAGLIO

Senza riduzione del debito pubblico non c’è crescita. Senza crescita, però, la sola riduzione del debito pubblico spinge l’economia verso una nuova fermata.

E’ in queste condizioni difficili che la Commissione dell’Unione Europea ha inviato ieri le sue «raccomandazioni» ai ventisette governi degli Stati membri, intenti a preparare le leggi finanziarie per il 2012: una novità del sistema europeo di governo dell’economia, introdotta per evitare ripetizioni della «tragedia greca» della finanza pubblica e impedire politiche troppo disinvolte a spese di tutti.

Nelle «raccomandazioni» la Commissione schiaccia fino in fondo il freno del rigore: «Non abbiamo alcun desiderio di imporre l’austerità agli europei - hanno scritto i commissari - ma è un fatto che l’insostenibilità delle finanze pubbliche sta limitando il nostro potenziale di crescita». Giudica generalmente «troppo poco ambiziosi» e troppo vaghi i piani dei governi ai quali indica una serie di priorità: aumento dell’età pensionabile, riduzione dei pensionamenti anticipati, aggancio dei salari alla produttività, semplificazioni burocratiche per le imprese e incentivi per la ricerca e lo sviluppo. Non c’è male sul piano dei principi, soprattutto per chi non deve la propria carica al consenso degli elettori, ma la traduzione di questi propositi abbastanza nobili in proposte concrete è difficilissima per governi alle prese con un’impopolarità crescente.

La Commissione bacchetta un po’ tutti, ma indirizza un discorso particolarmente severo proprio all’Italia, forse perché in realtà proprio l’Italia è il Paese-chiave per la tenuta dell’euro. Sostiene che fino al 2012 i programmi italiani sono sostanzialmente in linea con gli impegni presi di riduzione di deficit e di debito, ma che i piani fiscali per il 2013-14 non sono adeguati all’obiettivo; in questo è in linea con il giudizio di Moody’s, l’agenzia internazionale che ha confermato la sua valutazione sullo stato attuale della finanza italiana ma ha peggiorato la valutazione futura. Quello che è richiesto all’Italia è, in pratica, un cambiamento radicale e gigantesco del settore pubblico. Dietro l’espressione, apparentemente «innocente», di «riforme di struttura» si cela un rinnovamento profondo di tutte le procedure amministrative.

Rinnovamento, è inutile dirlo, che risulterà in una sensibile riduzione del numero dei dipendenti pubblici a tutti i livelli nel giro di pochissimi anni. Le forze politiche saranno costrette a presentarsi agli elettori alla fine di questa legislatura- sia che essa arrivi al suo termine naturale sia che invece venga anticipata - non già con la lista dei regali e delle promesse, ma con la lista dei tagli.

Al primo posto di questa lista non può non esserci la stessa politica. Tagli profondi nella spesa pubblica non possono essere credibilmente proposti da chi non è disposto a tagliare la spesa relativa alle proprie funzioni. Devono quindi costituire il punto di partenza di chi vuol governare il Paese nel prossimo futuro. A un calcolo approssimativo, non dovrebbe essere troppo difficile ottenere un taglio di 1-2 miliardi di euro l’anno, agendo sulla riduzione sia dei privilegi della politica sia sul numero di quanti ne hanno diritto.

Solo con questa premessa sarà possibile cercare davvero di rendere al tempo stesso più efficienti, meno complicate e meno care le procedure amministrative: i burocrati dovranno essere sostituiti, dove possibile, dai computer. Alcune fasi del processo amministrativo dovranno essere saltate, magari prendendo a esempio quanto già si fa in molti Paesi. E un pilastro fondamentale, quello da cui è auspicabile che derivi il maggior contributo, sarà una lotta accanita all’evasione fiscale, un terreno sul quale si è ottenuto parecchio in questi anni ma che comincia a provocare forme vistose di risentimento.

Dallo sport all’agricoltura, i sussidi, anche quelli giustificabili e ragionevoli, dovranno essere rivisti con spirito molto critico; nelle «libere» professioni occorre liberalizzare l’entrata, resa sempre più difficile nel corso dei decenni. E’ inevitabile che molte missioni militari all’estero debbano essere terminate. E forse bisognerà decidersi a vendere un po’ di quell’oro, acquistato decenni fa a trentasei dollari l’oncia, che ora ne vale più di millecinquecento, una mossa che i governi di ogni colore sono sempre stati molto restii a prendere in considerazione. Da tutte queste misure risulterà probabilmente un insieme non trascurabile di risorse da destinare non solo alla riduzione del debito ma anche a progetti di crescita.

Chi vuole governare questo Paese nei prossimi anni potrà essere davvero credibile agli elettori e ai partner europei solo se si presenterà con un programma in regola su questi punti. In caso contrario, bando alle ipocrisie: prepariamoci, di qui a qualche anno, ad abbandonare l’euro e a riprendere il vecchio ciclo di inflazione e svalutazione.

mario.deaglio@unito.it

martedì 4 gennaio 2011

Il mercato al posto della politica


MARIO DEAGLIO

Ci possono essere molte buone ragioni per essere d’accordo e forse altrettante per essere in completo disaccordo con le strategie dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. Su un punto, però, sostenitori e avversari debbono convenire: queste strategie rappresentano il principale elemento di discontinuità sulla scena politico-economica italiana degli ultimi decenni.

Il passaggio dalla cosiddetta «prima» alla cosiddetta «seconda» Repubblica non ha infatti portato ad alcuna vera discontinuità: ha determinato un certo ricambio, forse peggiorativo, della cosiddetta classe politica lasciando sostanzialmente intatti i meccanismi di fondo dell’economia e della società. Non ha di fatto modificato né la concertazione sui problemi del lavoro, ossia la soluzione delle controversie mediante un dialogo teso a raggiungere un equilibrio tra le parti, sovente con la mediazione del governo; né le procedure atte a realizzare mutamenti nel potere economico attraverso aggregazioni e aggiustamenti più o meno grandi, largamente concordati nei cosiddetti «salotti buoni».

Con il loro misto di concretezza e di durezza, i casi industriali di Pomigliano e di Mirafiori stanno invece proponendo un’alternativa radicale ai meccanismi della concertazione. La quotazione in Borsa, iniziata ieri, di una galassia di titoli con il marchio Fiat e la parallela suddivisione del gruppo stesso in due grandi aree - che potrebbero avere destini economici e industriali differenti - propone un’alternativa quasi altrettanto radicale ai meccanismi interni del capitalismo italiano.

Pomigliano e Mirafiori hanno posto l’esigenza di un forte cambiamento nelle relazioni industriali in Italia e quindi anche nel ruolo non solo del sindacato ma anche della Confindustria che pure in passato è ripetutamente riuscita a reinventarsi mediante riforme interne.

Parallelamente, i nuovi titoli Fiat potrebbero di fatto indurre un mutamento di funzioni della Borsa Italiana, altro ente che ha cercato di reinventarsi: da quello prevalente di luogo in cui vengono ratificati, con nuove configurazioni azionarie, cambiamenti decisi altrove a quello di vero «campo di battaglia», di vero terreno di scontro tra vari progetti finanziari e industriali. Anche in questo caso, come per la concertazione, si avrebbe una sostanziale riduzione dello spazio riservato ai pubblici poteri e quindi una profonda modificazione nei rapporti tra economia e politica.

Negli incontri Fiat-sindacati, così come nell’incontro di ieri tra Marchionne e i media, sono state di fatto delineate non solo due proposte specifiche di investimento industriale, ma un nuovo modello di relazioni industriali e un nuovo modello di funzionamento della Borsa italiana. Il tutto è privo di un’incastellatura teorica e di una particolare armatura giuridica, ambedue tipiche del cambiamento graduale all’italiana. Ha il merito di squarciare il velo dell’ipocrisia sul grave indebolimento produttivo italiano che politici e parti sociali hanno a lungo cercato di non vedere.

I rapporti tra economia e politica ne dovrebbero risultare profondamente modificati, alla politica non viene richiesta alcuna particolare benedizione né alcun particolare aiuto. La politica stessa viene di fatto sostituita dal mercato e dal profitto, ma sarebbe un errore immaginare che il riferimento al mercato e al profitto sia necessariamente tipico di una politica miope, della ricerca di un «mordi e fuggi» a favore degli azionisti: il ciclo di investimenti proposto si articola infatti su uno o più decenni e non certo su pochi trimestri e l’impegno finanziario è di tutto rispetto. Al posto della vecchia Fiat, con la sua componente «istituzionale» nel quadro dell’economia italiana, che, proprio per questo, racchiudeva al suo interno settori produttivi molto diversi tra loro, con un complicato sistema di rapporti con il settore pubblico, si propongono almeno due grandi imprese, una nel settore dell’auto e un’altra in vari settori legati alla motorizzazione, con logiche di alleanze, crescita ed espansione molto diverse tra loro. In grado, secondo questo progetto, di competere sul mercato globale senza particolari «garanzie» e di essere separatamente molto più efficienti di quanto non fossero rimanendo unite.

Le discontinuità sono sempre scomode, il loro esito contiene una componente di incertezza e occorre capire se l’Italia di fatto accetterà la particolare discontinuità che le viene proposta. Dovrebbe però essere chiaro che nell’attuale contesto mondiale è difficile pensare a vie alternative per una nuova crescita, il rilancio dell’occupazione, l’interazione tra produzione e ricerca scientifica. E’ difficile vedere qualcosa di diverso di un’Italia che vivacchia e che si allontana sempre più rapidamente dal gruppo dei Paesi di testa, nei quali si sviluppano e si applicano le tecnologie da cui dipende il nostro futuro; di un’Italia eccessivamente attenta agli scontri tra i politici e clamorosamente lontana dai grandi movimenti di idee, di invenzione, di produzione, che stanno dando al pianeta una nuova dimensione.

mario.deaglio@unito.it