MARIO DEAGLIO
È un agosto in cui tutto va abbastanza male. Con il numero degli italiani in vacanza che fa segnare un record negativo, il Parlamento aperto, le Borse in picchiata; con il dollaro degradato, la guerra di Libia, l’inflazione che minaccia
Il rilancio economico dei Paesi ricchi è almeno parzialmente fallito, il debito pubblico è in difficoltà quasi ovunque, i governi non sanno bene che cosa fare. E’ utile tener presente questo quadro perturbato per comprendere bene la manovra italiana di finanza pubblica, anche se tutto ciò può rappresentare solo un’attenuante per un provvedimento di politica economica purtroppo insufficiente, forse persino controproducente.
Tale provvedimento va collocato, prima di tutto, nell’orizzonte culturale del mondo politico che appare caratterizzato da due atteggiamenti di fondo.
Il primo, che riguarda soprattutto la maggioranza, è un rifiuto viscerale ad accettare la realtà e la gravità della crisi. La crisi viene considerata non già una conseguenza di debolezze intrinseche dell’economia italiana bensì un fatto esterno non prevedibile, una tegola che ci è caduta addosso. Prima di questo spiacevole incidente, sembra di capire, l’Italia stava andando benissimo.
In secondo luogo vi è la lontananza del mondo politico dai cittadini che impedisce ai parlamentari di cogliere sia il risentimento crescente per i loro innumerevoli privilegi sia le difficoltà della vita di tutti i giorni per i normali cittadini. Il presidente del Consiglio ha «un cuore che gronda sangue» per gli inasprimenti fiscali ma i bilanci famigliari degli italiani cominciano a grondare debiti: il tasso di risparmio delle famiglie è a livelli minimi da decenni, l’indebitamento delle stesse ai massimi. La ricchezza finanziaria, ossia i risparmi accumulati nel tempo dalle famiglie, si sta sciogliendo rapidamente.
Questa non comprensione di fondo dell’eccezionalità della situazione sia internazionale sia interna ha indotto il governo a non far uso di strumenti eccezionali. Dal presidente del Consiglio è arrivato un secco ultimatum a un’imposta patrimoniale, troppo lontana dalle sue promesse elettorali; dalla Lega Nord è venuto un ultimatum altrettanto secco alla modificazione dei meccanismi previdenziali, probabilmente perché il nucleo duro dell’elettorato di quella forza politica è costituito da persone ormai prossime alla pensione.
La manovra ha quindi dovuto far leva soprattutto su strumenti tradizionali: un giro di vite fiscale, verso i soliti soggetti, un taglio alle spese, più una manciata di interventi minori (dalla soppressione dei Comuni più piccoli all’obbligo per i funzionari pubblici a volare in classe economica, alla razionalizzazione di alcune festività e forse anche alla tassazione delle rendite finanziarie) che vanno nella direzione giusta ma che non bastano a ribaltare un giudizio negativo.
Tale giudizio deriva dalla constatazione che in questa finanziaria non ci sono misure per favorire la crescita mentre i provvedimenti previsti molto probabilmente aggraveranno il rallentamento già in atto, determinando forse una nuova contrazione del prodotto lordo. Il governo non riesce infatti a far balenare alcuna luce in fondo al tunnel. Pur di vedere questa luce, probabilmente gli italiani avrebbero accettato una manovra più severa in cui una parte delle risorse raccolte fossero state destinate a stimoli alla produzione. Il governo si propone invece come sconsolato gestore di una crisi alla quale non si intravede alcun termine.
L’«effetto annuncio» di quest’assenza di nuovi orizzonti è sicuramente molto negativo. Prima ancora di subire gli inasprimenti fiscali, gli italiani modificheranno in senso restrittivo i propri comportamenti di spesa, come già avevano cominciato a fare nei mesi scorsi. Per conseguenza, il pericolo di un calo generalizzato della domanda di beni di consumo è purtroppo reale, così come lo è quello di un rinvio dei programmi di investimenti da parte delle imprese. Minori consumi e minori investimenti implicano minori entrate fiscali, con il pericolo di innescare un, sia pur lieve, movimento di contrazione.
A un governo che non sa offrire speranze fa da contrappunto una popolazione con orizzonti angusti alla quale manca il soffio del cambiamento. La forza politica che, sotto vari nomi - da Forza Italia a Popolo della Libertà - fa capo al presidente del Consiglio era sorta all’insegna dell’entusiasmo e dell’ottimismo. Il volto teso del presidente del Consiglio, non più entusiasta né particolarmente ottimista, che annuncia provvedimenti restrittivi «tradizionali» è prima di tutto l’immagine di una sconfitta politica.
Vi è inoltre il pericolo di rilevanti tensioni sociali. A seguito dei tagli agli enti locali, introdotti senza troppo riguardo per l’efficienza, la manovra darà origine a una serie di disservizi e di scontentezze che possono costituire la premessa a un Paese più cupo. I tagli agli enti locali significheranno infatti strade più sporche e autobus più cari, minore assistenza agli indigenti e agli handicappati, minori iniziative culturali. I dipendenti pubblici, presi di mira dal provvedimento, si sentiranno trattati in blocco come fannulloni e malfattori, ci sarà animosità verso i lavoratori autonomi, toccati solo leggermente dagli inasprimenti fiscali. Forse non ci sarà macelleria sociale ma quasi certamente una macelleria della qualità della vita.
Vi è una modesta possibilità che queste prospettive negative possano essere quanto meno alleggerite nel corso della discussione parlamentare se l’opposizione saprà dare contributi correttivi e se la maggioranza li saprà accettare; a questa speranza si deve aggiungere quella che la congiuntura internazionale migliori e che un po’ di stimolo derivi dalla domanda estera. Due rondini, però, non fanno primavera.
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