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venerdì 6 marzo 2009

Lettera di un umanista e letterato ebolitano dell'anno 1564, inviata agli amministratori della sua città

di Mariano Pastore

Dopo mesi di assenza, senza un mio contributo sulle pagine del Giornale di Eboli, torno pubblicando una delle due lettere che Giovanni antonio Clario stampò a Venezia con la traduzione dal volgare in italiano del famoso libro “La Repubblica e i magistrati di Venegia” di Mons. Gasparo Contarini. Ne sono venuto in possesso insieme alle sue Poesie fatte pubblicare sotto altri nomi da Francesco Antonio Doni, e dalle “Odi mistiche” di Felice Cuomo trovate da me in una libreria Argentina (Buenos Aires libros).
Eboli nel XIII° secolo veniva descritto come “Dulce Solum” da Pietro da Eboli nel suo famoso poema “Liber ad Honorem Augusti…”.
Giovanni Antonio Clario, letterato ebolitano, mandò queste lettere agli amministratori della sua città dando notizie che inorgogliscono certamente gli abitanti che amano questo suolo: la lettera che pubblico è del 1564, come descrive la sua, la nostra città a noi che ci troviamo a viverla nel terzo millennio, ci crea tanta rabbia constatare la fine che ha fatto in qualsiasi campo certamente non proverebbe nostalgia per averla lasciata. La trascrivo integralmente come lui la scrisse e la dedico ai nostri cari amministratori che tanto la stanno vituperando:

“Quando io d’ogni altra patria fussi figliuolo: ne altra conoscenza havessi d’Eboli, che il grido che d’ogn’ intorno ne risuona sarei tenuto, se non fussi più che maligno, portargli tutta quella affettione, che ad un bello, e nobile sito pieno di tutte le gratie, che dal Cielo, dalla natura, e dall’Arte, quantunque; picciolo, si debbe portare. Che egli sia bello, da questo si può comprendere, che ivi quasi sempre signoreggia Primavera. Egli è posto à pie d’una poco men che piana collina tanto che le muraglia, ò le più alte case della terra di poco, ò di nulla vengono ad essere superate da quella d’ertezza. La collina, oltre l’altre sue estreme bellezze, non è tanto alta, che si come ne gli altri monti suole, la nebbia v’abbi luogo, onde calando giù offuscasse, et empisse di cattivo humore la terra; e fusse alle genti di quella di noia, e danno cagione. E ben vero, che più in su vi sono de gli altri erti, aspri, horridi, e superbi monti, da i quali le potrebbe venir ciò, qui le fussero più vicini; ma lè son tanto lontani, che avanti che la nebbia venga giù ad arrivarle addosso, è sparita, et dispersa del tutto. Questo dalla parte di sopra. Da i lati, è cinta pur di dilettevoli colline, non più alte di quella, e non men che quella copiose di abbondantissime vigne di ordinati arbusti, di fertili olivetti, di maravigliosi giardini, di bellissime fontane con chiare, dolci, e fresche acque, di folte selvette di verdi allori, di fronduti mirti, et di odoriferi lentischi. Le quai colline, oltre gli utili, et i diletti, che se ne traggono, sono riparo à fiati de i rabbiosi venti, è di mestiere, che se Borea vol farsi ivi sentire, si metta sopra ogni suo potere, et face ogni suo sforzo: ma alla sprovveduta non ci assale giamai, che troppo buone guardie gli fanno la scolta. Dalla frontiera, e parte davanti, non credo che parecchie città di Regno di maggior grandezza e nome della nostra terra habbiano di lei più bella veduta: e questo non à giudicio mio, che l’amore mi potrebbe trasportare, ma di qualunque persona di quindi passa, che ve ne passano infinite: sendovi uno de i gran passaggi, che sia forse un gran parte del Regno di Napoli: il qual piacesse à Dio che non vi fusse: concio sia che da passeggieri reca più odio à noi, che utilità al Signore. Ella ha intorno à quattordici miglia di spatiosa pianura avanti, si uguale, che à pena le acque; del Telegro, e del Sele, questo detto dagli antiche Silaro, quello da Virgilio Tanagro vi corrono alla in giù l’uno bagna quasi le mura della nostra patria, l’altro divide Campania da Lucania, la prima hora chiamata Terra di Lavoro, la seconda Basilicata. Questo fiume Sele se le persone s’ingegnassero à raccorlo più insieme, e à ritenerlo potrebbe recare non poca utilità non solo alla nostra terra, ma eziandio à tutte le altre circonvicine, tenendosi una bonissima guardia alla foce, con una brevissima fortezza egli correndo fa ampissima bocca al mare, la veduta del quale ci è di non poco diletto, e ricreazione. La terra è lontana da questo fiume intorno à quattro miglia , e dal mare tutta la pianura, quanto dicono i philosophi, che vogliono essere lontane le terre dalla marina, accio che ad un tempo si possono prevalere della comodità del mare, e schifare i perigli de corsari. La pianura non è mica sterile, ma distinta d’altri soavissimi fiumicelli, di lieti campi, e à tempo pieni di biade ondeggianti, da fertili possessioni, di ombrosi boschi di quercie, pera, e mela selvaggie, pruni, cornole, nespola, noccioli, labrusche, e altri arbori si fertili, come infertili per le legna, che si abbruggiano nella terra, e per altri usi necessarij, i fertili, per lo nudrimento de porci, cingiali, Daine, Cervi, Volpi, Lepori, Uccelli della caccia de quali si prende non poco sollazzo: oltre ciò è adorna di verdeggianti pascoli, per le Greggi, e Armenti di Capre, Pecore, Bufale, Vacche, Cavalli, Buoi, atti a lavorar de i campi, e necessarij al vitto, e agio dell’ huomo, e altri animali, de quali è tutta piena la campagna. Hor questo quanto alla bellezza. Che la nostra patria sia nobile, da questo che si è detto della bellezza, si potrebbe forse fare la consequentia della nobiltà: pure ne dirò quattro parole. Se gli uomini nobili e per scienza, e per armi, e antichità fanno le terre nobili, io non dubito punto, che la nostra non sia mobilissima in quale ampissima Città, tanto per tanto, sono più Dottori d’ogni maniera, di legge, di Logica di Philosophia, di Medicina, e di Teologia?, in quale più Soldati, Capi di squadra, Reggenti, Alfieri, Locotenenti, e Capitani? in quale più schiatte? più gentilhuomini, cortesi, liberali, magnanimi, affabili? ricchi non vo dire, che ogni gran ricchezza, che eglino possedessero, sarebbe nulla, non che picciola à i meriti loro. Et se la nobiltà si bisogna provare per antichità, come colui provò quella de Baronzi, io dico, che la nostra patria è più che nobile: concio sia chè, si come in una Cronichetta lessi una volta, l’origine nostra si trahe da Obolo capitan generale di Theseo: il quale Obolo, deposto che hebbe Theseo il principato d’Athene, si parti con una Armata da lui, e errando gran tempo per mare, e in quello grandissime fatiche, perigli, e fortune sopportando, arrivò al fine à Sele, pria senza nome, dopo per esservisi annegato un suo compagno cosi chiamato, gli fu imposto quel nome, ove pervenuto, e smontato, lungo il Sele caminando, poco da lui discostandosi, scorse una bellissima collina, e ivi fece pensiero de edificare una ampia Cittade, edificolla, e com’io credo in quella collina che da noi si chiama le Marmore, forse dai marmi di quella Città, della quale anchora appaiano i vestigi. Dopò per guerre, ò altri accidenti, si ritirarono le persone à far castella sopra l’altre colline più alte. E perché il tempo spegne ogni cosa, à tempo de’ buoni scrittori, e che Roma fioriva, dovevano essere cosa di nulla, e però da loro non sono stati nominati. Non mi par di lasciare à dietro in questa parte quello; che giunto, che fù, e smontato, fe battere una certa picciola moneta; la quale dal nome suo chiamò Obolo; onde fu detto Eboli, per tramutation di lettere. E avenga che questo molto quadri, nondimeno hanno voluto altri, che per lo suo fertile terreno sia venuto da Greco cosi fatto nome, da EU, e BOLOS, che vuol dire buona gleba, ò buon boccone. Che ella sia piena di tutte gratie del Cielo, e della natura, dall’odio portatole dall’altre terre postele d’intorno si può scorgere di leggieri; il che sempre suole avenire tra le terre minori, e le maggiori. Chi ne vuole altro testimone vegga l’insegne, che ella fa per arme, che egli fe n’avedra benissimo. Queste sono i quattro Elementi, terra, acqua, aria, e fuoco; de i quali tutti è à compimento dotata, ne di nuovo le ha assunte, ma da suoi primi principij insino al di d’hoggi ha sempre ritenute, di quelle dell’arte, si come non si è mancato mai, cosi credo che non si manchi più hora di adornarla, e farla ognihora più bella di schuole, studi, leggi, statuti, strade, fabriche, chiese, fontane, teatri, arti manuali nuove, e altro, e ho ferma speranza, che se mai da alcuno se n’ha una maggior cura, che hora non se n’ha, ella s’alzarà à tanta grandezza (ch’io non credo, che colui, che del tutto fu fattore, l’habbi fatta riporre in si alto, e nobile sito più farla star sempre bassa, e demessa) che ella terrà altri ordini nel suo governo: il che Dio faccia che’nò tardi lunghissimo tempo à venire. Perché anche Vinegia hebbe forse piu basso, et debile principio, che hora non è il nostro, e non di meno è pervenuta à quella grandezza, che si vede. Egli è il vero, che à quella è stata sopra ogni altra Città del mondo d’aiuto il suo miracoloso sito, ma forse non meno gli ordini, e statuti buoni, che ivi si sono tenuti. E se quello è da commendare nel suo genere, il nostro non è da biasimare nel suo grado. Onde si narra delle Croniche, et Historia di Vinegia, già da me tradotte, e à voi destinate, se pur mai più quelle si stamparano; vi mando la Rep. Et magistrati di quella: e se non sieno più istamparsi, vi prego che non me lo diate à colpa, che ciò non è in poter mio; ma vogliate ricevere questa in contraccambio di quella: del che tanto più vi dovrete tener contenta patria mia onorata, quanto da questa potrete trarre maggiore utilità, e frutto, che da quella. Concio sia cosa che quella dell’origine, e guerre, trattava, questa de gli ordini, et governo ragiona. Di quali quel, che più vi piacerà potrete eleggere, et mettendolo ad effetto prevalervene. Vivete in pace. Di Vinegia, il XXIX. di Ottobre. 1544.

Ubbidiente Figliuolo
Eranchiero Anditimi al secolo Giovanni Antonio Clario