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lunedì 20 dicembre 2010

Il Cavaliere tira un sospiro di sollievo "Ora Pier comincia a ragionare"


di CARMELO LOPAPA

L'irritazione del premier Berlusconi per la campagna acquisti già congelata alla Camera, per colpa di "procuratori" troppo solerti e sovraesposti, è almeno pari al sollievo che gli procurano nel pomeriggio le ultime uscite concilianti di Pier Ferdinando Casini.

"Adesso Pier ragiona, vedrete che non avremo bisogno di forzare e di trascinare il Paese alle urne" confida ai più stretti collaboratori dopo aver ascoltato in tv le parole del leader terzopolista. Sentire ieri Casini evocare il modello americano e il concorso dall'opposizione alle scelte del Paese è musica per il Cavaliere, alle prese in queste ore col pressing leghista e la voglia matta di
Umberto Bossi di passare alla svelta all'incasso elettorale. Il fatto è che tra il presidente del Consiglio e il numero uno dell'Udc è in atto un sottile gioco del cerino, l'uno e l'altro pronti a tutto pur di scaricare sull'avversario la responsabilità di una crisi e della conseguente chiusura anticipata della legislatura. L'incendiario rischierà di pagare il conto alle urne. Ecco perché Berlusconi, come spiegava nel week end ad un ministro, è pronto a staccare la spina solo dopo uno stop plateale in Parlamento, "solo quando sarà chiaro che saranno i terzopolisti e la sinistra che mi impediscono di governare".

Proverà ad andare avanti, intanto. Anche tramite l'"operazione scialuppa" che partirà domani: prima riunione dei 22 deputati del gruppo misto che hanno votato la fiducia all'esecutivo e che si apprestano a dar vita intanto a un coordinamento, ma presto anche al "gruppo di responsabilità". Manovra da condurre in porto subito per soccorrere il governo nelle cinque commissioni in cui il centrodestra si trova dal 14 dicembre in minoranza e le quattro in cui è in pareggio. La prima mossa sarà la richiesta alla Presidenza della Camera di una presenza dei deputati della nuova formazione laddove non sono rappresentati. Quanto all'iniziativa tenga il premier è confermato dallo sponsor d'eccezione che sovrintende da giorni alle operazioni: il Guardasigilli
Angelino Alfano, in stretto contatto con il fondatore del Pid Saverio Romano. Dentro, con i cinque ex Udc, i sette di NoiSud, i quattro ex Fli (Moffa, Polidori, Siliquini e Catone), i tre "responsabili" Scilipoti, Cesario e Calearo, quindi Nucara, Pionati e Grassano. A Montecitorio il gruppo c'è. Al Senato, salvo "prestiti", è fermo a quota nove. Il pressing lì è tanto insistente quanto sterile sulla democratica Baio Dossi.

Il fatto è che la campagna acquisti si è subito arenata anche alla Camera. Berlusconi l'ha presa malissimo. Appena giovedì notte a Bruxelles dichiarava di averne personalmente "recuperati altri otto", alludendo a finiani e centristi pronti all'esodo dopo la sconfitta. Degli otto arrivi non vi è più traccia e il Cavaliere attribuisce la colpa a chi, da Pionati ad altri, si sarebbe mosso senza la dovuta accortezza nei contatti. Il gruppone intanto nascerà, sotto la guida, con molta probabilità, dello stesso Romano - se per lui il mini-rimpasto di fine gennaio non aprirà le porte di un ministero - o di Silvano Moffa. "Lavoriamo guardando anche all'opposizione - racconta il presidente della commissione Lavoro - per un gruppo in grado di garantire le riforme". Con un handicap di immagine, però: il rischio di presentarsi col pessimo brand di partenza del gruppo dei "comprati". Romano, che dei "responsabili" si definisce "l'ostetrico", nega: "Non siamo stati comprati da nessuno e siamo qui per sostenere il governo, salvare il Paese in crisi dal voto e trasformarci in polo attrattivo. Sarà più facile per gli insofferenti finiani e centristi avere un dialogo con un interlocutore strutturato". A breve il nuovo gruppo sarà interlocutore di Berlusconi quando si discuterà di nuovi ingressi al governo. Siliquini, Polidori e Pionati già in pole da sottosegretari. Nucara e Calearo in corsa per qualcosa di più.

(20 dicembre 2010)

domenica 5 dicembre 2010

"Non tratto, chi mi ricatta il 14 si pentirà" Il Cavaliere riapre la caccia agli incerti


di CARMELO LOPAPA

"Non è più il tempo di trattare. Non tratto con chi vuol solo ricattare e farmi fuori. Fiducia o elezioni subito". Silvio Berlusconi stronca qualsiasi velleità diplomatica delle sue "colombe". Rientrato in Italia, lavora tra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli prima di volare in serata a Milano, e la lunga serie di telefonate con ministri, sottosegretari e dirigenti Pdl contengono un unico messaggio. E non è un messaggio di apertura a Gianfranco Fini, "che ha ridotto la terza carica dello Stato al rango di capofazione: avevo ragione nel chiederne le dimissioni".

Il premier riprende in mano le redini della crisi. Incontra il prefetto di Napoli, ma il pomeriggio lo dedica dallo studio della sua residenza a quell'arte della persuasione nella quale ritiene di eccellere. Gli avversari lo chiamano "calciomercato". Sta di fatto che il Cavaliere si è riappeso alla cornetta del telefono come di consueto nei momenti critici per un'ultima manovra di avvicinamento alle pedine centriste e finiane che ritiene ancora "recuperabili". "I nomi non li facciamo, non diamo questo vantaggio, ma la sorpresa per il cosiddetto terzo polo sarà amara, il 14 dicembre: le firme alla mozione le hanno messe i capigruppo non i deputati" spiega un ministro che ha sentito Berlusconi galvanizzato. Ma distinguere tra propaganda e realtà, nelle ricostruzioni di queste ore, è arduo.

Quel che è certo è che Berlusconi avrebbe fatto a meno dell'uscita spregiudicata di Verdini sul capo dello Stato. In una fase delicata come quella attuale, tutto desidera "meno che avere contro il Quirinale". Detto questo, ha fatto rilanciare ai La Russa, Gasparri, Napoli e altri che, con tutto il rispetto per le prerogative del Colle, loro puntano dritto al voto se sfiduciati. Tant'è che il capo del governo non ha richiamato pubblicamente - e sembra neanche privatamente - il suo coordinatore, al contrario di quanto alcuni big del partito avrebbero sperato. A cominciare dall'ala più moderata del Pdl che fa capo ai ministri e dirigenti di "Liberamente", che ha bollato il "ce ne freghiamo" del coordinatore toscano "un rischioso autogol". Privo di conseguenze, tuttavia. Il premier si sarebbe irritato molto di più, spiega chi lo ha sentito, per l'accenno fatto da Cicchitto in mattinata a una trattativa possibile con finiani e Udc sulla riforma elettorale. Non tanto perché, puntuale, ha provocato lo stop spazientito della Lega (con Calderoli), ma perché lo stesso Berlusconi si è ormai convinto, con buona pace di
Gianni Letta, che con i terzopolisti non bisogna più dialogare.

Ha corretto la linea nella telefonata fatta al teatro napoletano affollato agli ex udc ora "Popolari per l'Italia di domani". E ancor più poi sentendo al cellulare il loro leader,
Saverio Romano. "La spunteremo anche alla Camera, vedrai. Altro che trattativa: intanto votino la fiducia e poi ragioniamo - sono state le parole di Berlusconi -. Io ai ricatti non cedo e certo non mi dimetto". E ancora: "Avevo ragione nel chiedere le dimissioni di Fini. Sentito? Ha trasformato la terza carica dello Stato in un capofazione". E il Cavaliere resta convinto che "quella ammucchiata, che non va oltre il 12 per cento, ha solo l'ambizione di spartirsi Quirinale e Palazzo Chigi".

I finiani però restano sereni, forti di quota 85 della mozione di sfiducia. Sarà davvero inattaccabile? "Il presidente può anche fare le sue telefonate, ma la situazione non cambierà" dice il coordinatore Fli
Adolfo Urso. È sui numeri che si gioca la sfida. Ma il 317 sbandierato da Fini e Casini "non sta in piedi", sostiene il sottosegretario Daniela Santanché, che sul rafforzamento della maggioranza lavora da tempo: "La loro è una guerra psicologica, vorrebbero far credere al capo dello Stato di essere in grado, proprio con quei numeri, di dar vita a un nuovo governo. Ma l'unico progetto politico che hanno è mandare a casa Berlusconi. E falliranno". Domani si apre la lunga settimana di vigilia, che il premier trascorrerà tra Arcore e Roma, con una puntata forse a Napoli. Per poi concentrarsi sul discorso che leggerà alle Camere.

(05 dicembre 2010)

sabato 20 novembre 2010

Mara tradita nell'ultima battaglia "Ormai nel partito comandano gli affaristi"


di CARMELO LOPAPA

La gestione di un affare da oltre 150 milioni di euro che rischia di passare di mano. I ras berlusconiani in Campania, Nicola Cosentino e Mario Landolfi (entrambi sotto inchiesta), che si precipitano a Palazzo Grazioli. Il presidente del Consiglio che cede al pressing, promette di rivedere, correggere, smussare il decreto legge varato solo poche ore prima dal governo. È a quel punto, solo allora, che il ministro Mara Carfagna - sponsor del commissariamento che sanciva l'affidamento alla Regione della realizzazione dei tre termovalorizzatori di Napoli e Salerno - decide di gettare la spugna. Si sente tradita, raggirata, abbandonata in questa che è una storia di appalti pubblici e di cordate politiche in guerra. Di impegni siglati e del rischio di infiltrazioni camorristiche nella terra in cui la monnezza, prima ancora che un'emergenza, è un business.

Berlusconi la chiama appena atterrato a Lisbona. Sono lontani i buoni rapporti di un tempo: "Devi spiegarmi cosa è successo - lei lo incalza - Sono mesi che quella banda mi attacca, non puoi lasciare l'intera gestione dell'emergenza nelle mani di Cosentino e dei suoi uomini". Lui si impegna a trovare una soluzione. Ma stavolta sembra che non basti. Resta la delusione di fondo che il ministro confiderà poco dopo ai collaboratori: "Non voglio più stare vicino a certi affaristi. Starò col presidente in questo momento di bisogno. Ma dopo il 14 mi sentirò libera. Nel Pdl ormai comandano i Cosentino, i Verdini, i La Russa, dimenticano che ho avuto 58 mila voti sei mesi fa". Parla fitto col finiano Bocchino, alla Camera, nelle ore in cui si consuma lo strappo. Gli avversari interni l'accusano di intelligence col nemico. Un transito a Fli e magari una candidatura shock a sindaco di Napoli in rotta col coordinatore pdl Cosentino, sono per ora solo ipotesi vaghe che la Carfagna smentisce.

Il fatto è che ancora una volta il gruppo di potere che nella sua regione fa capo all'ex sottosegretario, dimessosi dopo la richiesta di arresto per concorso in associazione camorristica, riesce a convincere, persuadere, condizionare il premier. Eppure, il decreto per lo smaltimento rifiuti approvato in Consiglio dei ministri stabiliva che il pallino nella costruzione dei costosissimi termovalorizzatori passasse dai due presidenti di Provincia Edmondo Cirielli e Luigi Cesaro (uomini di Cosentino) al governatore Stefano Caldoro (pdl ma suo avversario). Già in Consiglio dei ministri La Russa aveva invitato la Carfagna a non incaponirsi "per ragioni personali", a non insistere "per beghe locali" sul commissariamento. E invece la ministra ha insistito e l'ha spuntata. Poi la retromarcia del premier. "Avevo proposto questa soluzione per mettere a riparo l'operazione da affari sporchi - si sfogava lei ieri con alcuni deputati in Transatlantico - Ma questo è ormai il partito dei Verdini, dei Cosentino e dei La Russa". Il clima ostile maturava da giorni. Gli attacchi personali si moltiplicavano. Le interviste di Sallusti e di Stracquadanio, la allusioni sui rapporti con Bocchino, le foto, gli insulti e i "vergogna" alla Camera. Il sospetto latente che una "macchina del fango" si stesse muovendo anche contro di lei.

Sta di fatto che subito dopo il Consiglio dei ministri, giovedì, i deputati che fanno capo a Cosentino, gli stessi presidenti delle Province di Salerno, Cirielli, e di Napoli, Cesaro (sotto inchiesta a Napoli), e poi Landolfi e Laboccetta e Castiello danno tutti segni di nervosismo. Disertano alcune votazioni in aula.
Fanno sapere a Berlusconi di essere pronti a passare al gruppo misto se quel decreto non verrà modificato: facendo così saltare la Finanziaria e mettendo ulteriormente a rischio la fiducia del 14 dicembre. Cosentino piomba a Palazzo Grazioli, accompagnato da Landolfi. C'è anche Gianni Letta in stanza col premier. Subito dopo l'incontro, il coordinatore Pdl in Campania va a Montecitorio e dà notizia del "successo" ai suoi, riportata dalle agenzie di stampa: "Sono molto soddisfatto, Berlusconi mi ha dato garanzie sulle competenze e sulla corresponsabilità degli impianti tra Province e Regione. La quadra trovata permetterà di accelerare la costruzione degli impianti".

L'affare può partire, insomma, e sarà soggetto alla sovrintendenza anche delle Province, dunque della potente corrente Cosentino. Ad oggi, in Campania c'è un solo termovalorizzatore, quello di Acerra, che funziona solo in parte, e che è già costato 25 milioni. Altri 75 milioni di euro sono stati investiti per la realizzazione di quello di Salerno. Altrettanti se ne prevedono per Napoli. Il terzo impianto non si sa ancora dove realizzarlo.

(20 novembre 2010)

venerdì 19 novembre 2010

E Silvio inizia a cantare vittoria "Gianfranco si è dovuto arrendere"


di CARMELO LOPAPA

Silvio Berlusconi assapora il gusto irresistibile della vittoria. Almeno quanto Fini e Casini stanno prendendo atto, in queste ore, con 25 giorni di anticipo sul D-day, che la loro sfiducia forse non la spunterà e con molta probabilità sarà meglio non presentarla affatto.

Pier Ferdinando Casini, tra una votazione e l'altra della legge di Stabilità a Montecitorio, in serata catechizzava già i suoi: "Fini non riuscirà a convincere l'intero gruppo a votare la sfiducia, cinque potrebbero restare fuori, i tre liberaldemocratici sono diventati due e sono pure a rischio, in queste condizioni dove andiamo? Ma non dobbiamo trasformarla in una catastrofe, potrebbe essere un'opportunità: Silvio costretto a restare con tre o quattro voti di maggioranza e, se vuole le elezioni, a dimettersi senza nemmeno l'alibi della sfiducia".

La vigilia della partenza per il vertice Nato di Lisbona è il giorno dell'euforia, a Palazzo Grazioli. "Grazie alle astensioni dei finiani e di altri che non voteranno quella mozione, ce l'abbiamo fatta anche a Montecitorio" gongola un premier entusiasta con tutti i suoi interlocutori. Prima Gianni Letta, Bossi e Calderoli incontrati al termine del Consiglio dei ministri a Palazzo Chigi. Poi, il deputato ex An Mario Landolfi, in serata gli ex dc, il ministro Gianfranco Rotondi e il sottosegretario Carlo Giovanardi ricevuti nella residenza privata. La sensazione netta, raccontano, è che il pressing sui peones sia andato a buon fine. Il videomessaggio del presidente della Camera Fini viene letto né più né meno che come una "mezza resa", quantomeno una disponibilità a trattare. "È un segnale positivo per i prossimi giorni, si sta arrendendo" ha confidato in serata il capo del governo. Con gli ex An, tra i quali Landolfi, si era mostrato abbastanza sicuro già a metà giornata. "Non avrebbero senso le mie dimissioni per ottenere un Berlusconi bis, la richiesta di Fini è incomprensibile, perché nel governo non c'è un deficit di leadership". Convinto poi che "è già terminato l'effetto novità di Fli, la gente capisce che la crisi avrebbe come unica conseguenza la consegna del Paese alla sinistra". Ma il pressing continua. Incassato il transito di Grassano, l'agenda è fitta di incontri con i parlamentari borderline. Una sola raccomandazione, rivolta ai dirigenti Pdl: "Ho avuto fin troppi problemi, fate sapere a chiunque abbia bisogno di chiedere qualcosa, di rivolgersi ai miei collaboratori. Non qui a me. Io parlo di politica". E di governo. Perché ora, con l'undicesima pregiatissima poltrona liberata ieri dall'ormai ex viceministro Giuseppe Vegas (designato alla Consob), si profila dopo il 14 dicembre una sorta di rimpasto. Col quale da Palazzo Chigi solletica gli appetiti. I berlusconiani lasciano circolare già il nome dell'ex pd Massimo Calearo quale ministro alle Politiche Ue al posto del finiano Ronchi. Un posto da sottosegretario ventilato per un impaziente Francesco Pionati, un altro promesso ai centristi siciliani che hanno abbandonato l'Udc. Saverio Romano, in Transatlantico, pregusta già il futuro: "Ormai è fatta, il 15 dicembre facciamo un il nuovo governo". Facciamo.

Gianfranco Fini dopo la registrazione del videomessaggio si dice tranquillo, anzi, "tranquillissimo", ma l'umore appare nero per il rischio boomerang. "Voglio vedere come andrà avanti con questo governo da gennaio, con 3-4 voti di maggioranza e tutti i ministri costretti a essere presenti in aula" si sfoga con i fedelissimi che gli raccontano dell'ottimismo del premier. "Noi possiamo pure perdere la partita clou, il derby del 14 dicembre, ma il campionato poi sarà tutta un'altra storia". Sta di fatto che in queste ore di quasi sconforto tra finiani, centristi e democrats,
in Transatlantico trapela anche un certo rammarico per quel mese di tempo che, involontariamente, il Colle ha concesso a Berlusconi e alle sue trattative. Il Quirinale ha seguito una propria linea in piena autonomia. Ieri si raccontava di una telefonata non proprio serena ricevuta dalla massima carica dello Stato da un alto dirigente Pd, con cui gli veniva contestata la scelta della sfiducia al ministro Bondi il 29 novembre, quando la legge di stabilità non sarà ancora approvata. Una certa preoccupazione per il rischio destabilizzazione il presidente Napolitano l'avrebbe espressa in tal senso al telefono anche allo stesso Fini. Nascerebbe da qui la cautela con cui il leader di Fli ha già concordato coi suoi l'astensione sul pur non amato ministro dei Beni culturali.

(19 novembre 2010)

giovedì 18 novembre 2010

Caccia ai transfughi in Transatlantico al Pdl serve quota 316 o qualche assenza


di CARMELO LOPAPA

ROMA - "Offerte, rialzi, ribassi, sembra di stare a Wall Street" la butta lì in Transatlantico, a metà giornata, il finiano Aldo Di Biagio. Ci sono liste che passano di mano, deputati avvicinati dai colleghi pidiellini, telefonini che trillano, parlamentari che entrano ed escono dallo studio di Gianfranco Fini al primo di piano di Montecitorio. Deputati e ministri del Pdl si riuniscono al gruppo con Cicchitto e tirano le somme: oggi contano su 305 deputati rispetto ai 316 necessari: parte la caccia agli undici. Ma - qui sta il punto di svolta - ne potrebbero bastare anche 4-5 in meno se altrettanti centristi o finiani, contrari alla sfiducia, il 14 dicembre se ne stessero a casa, abbassando il quorum. Tra i falchi berlusconiani parte così la rincorsa alla mezza dozzina. Quattro i finiani ritenuti quanto meno "avvicinabili" dalla corte del Cavaliere, un paio gli udc, tentano anche con un dipietrista, ma a fine giornata il carniere resta quasi a secco.

Anzi, la maggioranza perde altri pezzi, anche di peso. Dovrebbe annunciare ad ore il passaggio dal Pdl all'Udc di Casini il siciliano Dore Misuraca. Deputato un tempo vicino a Micciché, sta per fare armi e bagagli col suo carico di voti: la sua famiglia è titolare di una clinica e punto di riferimento politico del potente mondo della sanità privata nell'isola. Sono segnali. Come lo sono i giuramenti di fedeltà a Casini degli udc pur avvicinati, da Alberto Compagnon ("Sto col leader, non ho crisi di coscienza") ad Angelo Cera, che si schermisce: "Il corteggiamento lo detesto, sto bene dove sto". Il leader centrista si tiene stretti i suoi, ma anche Gianfranco Fini ha il suo bel da fare, in queste ore. Il senatore Giuseppe Valditara gli ha portato in studio il senatore pidiellino Piergiorgio Massidda, da tempo in rotta col partito, ma ancora in bilico. Esce da Montecitorio e nicchia: "Non ho ancora deciso, c'è tempo fino al 14 dicembre". Anche se i finiani si dicono ottimisti.

La vera partita si è aperta sulle resistenze dei 4-5 futuristi a votare la sfiducia. Al vertice di Fli nella sede di FareFuturo, Urso, Bocchino, Briguglio e gli altri hanno parlato di congresso, della probabile campagna elettorale (e relativo budget), ma anche dell'astensione sulla sfiducia a Bondi il 29 novembre, e di come arginare i dubbiosi. Carmine Patarino, indicato tra gli incerti, diventa responsabile organizzazione per il Sud di Fli. Catia Polidori, finita nel toto "abbordabili", diventa capogruppo in commissione Attività produttive. L'ex militare Gianfranco Paglia è uscito rassicurato, raccontano, dal faccia a faccia avuto con lo stesso Fini.

È una guerra psicologica, in aula e fuori. A un certo punto della giornata, un ministro Pdl mette in giro la voce che l'ormai ex ministro Andrea Ronchi non voterebbe la sfiducia. Lui stronca l'indiscrezione: "Non c'è alcuna possibilità di defezione". Restano tuttavia almeno un paio di ossi duri da convincere, tra i finiani. Giampiero Catone, da poco transitato dal Pdl, si dice pure d'accordo con la sfiducia "ma bisogna prima sapere cosa accade, al buio non si può andare". E ancor più incerto Giuseppe Consolo: "Non ho ancora deciso, in Fli non siamo una caserma, ma sono baggianate le voci di compravendita che mi riguardano". Dal Pdl bussano anche alla porta di Ferdinando Latteri, l'ex rettore di Catania già transitato dal Pd all'Mpa di Lombardo. Lui resiste, "tranquilli, è blindato" assicura il senatore Giovanni Pistorio. I berlusconiani tornano alla carica del dipietrista Antonio Razzi, che continua a rispondere come già a settembre: "Ho una mia dignità". Ma le opposizioni sotto attacco mantengono le posizioni e ne conquistano. Voteranno la sfiducia Giorgio La Malfa, con un piede in Fli (il Pri di Nucara ne ha chiesto ieri l'esclusione dalla Delegazione Nato in quota Pdl), e Paolo Guzzanti. "Campagna acquisti, chiedete alla nostra Paola Frassinetti" sbotta il ministro La Russa a chi gli chiede del pressing. Tra lei e Fini sembra abbia fatto da tramite sempre Valditara. La deputata ammette e taglia corto: "È vero, ci sono contatti bilaterali, ma resto nel mio partito". Il mercato continua.

(18 novembre 2010)

lunedì 15 novembre 2010

Il Cavaliere guarda già al dopo-voto "Riuscirò a conquistare il Quirinale"


di CARMELO LOPAPA

Le lettere di dimissioni del ministro Ronchi, del vice Urso e dei sottosegretari Menia e Buonfiglio sono state già firmate. Questa mattina saranno recapitate a Palazzo Chigi. Si chiuderà così l'avventura dei finiani al governo. Nell'ennesimo gabinetto di guerra, convocato per stasera ad Arcore coi tre coordinatori pidiellini e il vertice leghista guidato da Umberto Bossi, il premier spiegherà che eviterà, se possibile, di salire al Colle. Ma dal Quirinale non fanno mistero di attendersi invece un passaggio già in questi giorni, come prassi istituzionale vuole in casi del genere. Quel passaggio sancirà la pre-crisi.

Berlusconi ha già fatto sapere che non assegnerà subito le quattro deleghe che si libereranno oggi (cinque con l'Mpa) e le altre cinque vacanti da mesi (dopo l'uscita di Cosentino, il nuovo incarico di Romani, tra gli altri). "Lo farò dopo la fiducia". Non a caso. Da oggi - racconta chi frequenta Palazzo Grazioli - si riapre il mercato, pressing sui finiani più moderati e i pidiellini indecisi, con le dieci poltrone a fare da montepremi tra le offerte più appetibili. "Con Fini non tratto più - ripeteva ieri il premier - contatterò piuttosto uno per uno i suoi che, passando a Fli, mi hanno promesso che non mi avrebbero mai votato la sfiducia".

Prima di partire per Milano alla volta di San Siro, il capo del governo è rimasto a Roma mezza giornata a ragionare con
Gianni Letta e, al telefono, con alcuni ministri su quel che lo attende. Continua a ostentare sicurezza: "Sono solo manovre di palazzo, i sondaggi veri non sono i loro, sottovalutano che l'unico in grado di parlare al popolo sono io". Premier d'attacco, leader già sintonizzato sulla campagna elettorale. "Quando ci saremo davvero, allora potrò dire quel che ora devo tacere su certi personaggi" va ripetendo con riferimento a Fini e non solo, dice uno dei suoi più stretti collaboratori. Convinto che, comunque vada, "le elezioni le rivinco e al Quirinale andrò io, in ogni caso, nonostante i loro giochini". Un Berlusconi comunque intenzionato a giocarsi tutte le sue carte anche in questa complicatissima partita della crisi. "Sono l'azionista di maggioranza del governo" va ripetendo: "Senza di noi e la Lega, non ci sarebbe il Nord e non è pensabile un esecutivo che ne faccia a meno". Ipotesi alternative non ne esistono, insiste dunque il premier con coordinatori e deputati Pdl sentiti nel corso della giornata: "E chi pensa di coinvolgere Letta, non ha capito che Gianni non si presterebbe mai, contro di me". Se di piano "b" si è ragionato ieri, tra Palazzo Grazioli e Milano, è quello che prevede il ricorso a un Berlusconi bis (dunque con dimissioni e reincarico), solo nel caso in cui la sfiducia alla Camera dovesse essere approvata prima della mozione di sostegno al Senato. Ma su questa priorità il partito ha ricevuto l'ordine di alzare le barricate. "La scelta sul ramo del Parlamento spetta al governo - rivendica Gaetano Quagliariello - E nessuno può trasformare Palazzo Madama da camera alta a figlio di un dio minore". Se poi andrà male, "le elezioni sono la soluzione più limpida" per dirla con un fedelissimo come Osvaldo Napoli.

Su tempi e sviluppi della crisi si è a lungo parlato nelle telefonate intercorse in queste ore tra Fini, il Quirinale, Bersani, Casini, Rutelli. L'orientamento è quello di rinviare la discussione della sfiducia a dopo l'approvazione definitiva della legge di Stabilità (dunque a dicembre) come auspicato dal Colle. Ma, subito dopo, sostengono Fini e Casini la sfiducia andrà discussa prima alla Camera. Martedì, in conferenza dei capigruppo, il presidente di Montecitorio darà un segnale in tal senso.

Per il resto
, la strategia del "Kadima" di Fini, Casini e Rutelli (e Lombardo) è già tracciata. La loro mozione di sfiducia sarà presentata all'ultimo momento utile. Un accordo di massima vorrebbe che Pd e Idv ritirino la loro, per convergere tutti sull'unico testo e infine spuntarla. Scontato lo scenario post crisi, i tre lo proiettano tutto su un governo di larghe intese che porti a termine la legislatura. "Ridicola la minaccia di sciogliere solo la Camera - è stato il commento di Fini coi suoi alla provocazione di Berlusconi - Perché dopo la sfiducia a Montecitorio, dove si voterà prima, anche i numeri al Senato si capovolgeranno". Nell'incontro di stasera, Bossi, Maroni e Calderoli tenteranno per l'ultima volta di convincere il premier a scendere a patti con Fini. Senza tanta convinzione, ormai anche il Senatur se n'è fatto una ragione: "Berlusconi vuole il voto e alla fine ci andremo".

(15 novembre 2010)

sabato 13 novembre 2010

Il patto di Gianfranco con Udc e Pd "Voto sulla manovra, poi l'affondiamo"


di CARMELO LOPAPA

ROMA - L'ultima telefonata dal premier Berlusconi in precipitosa fuga da Seul contiene l'ordine perentorio di andare alla conta. Presto, anzi subito. Al Senato. Prima che gli avversari confezionino la trappola mortale alla Camera. Ma Fini, Casini e Bersani il loro patto lo hanno già siglato. La sfiducia dopo la legge di Stabilità arriverà comunque, arriverà a Montecitorio, arriverà entro fine mese.

Perché "serve una crisi vera, poi si discuterà di nomi e di premier" va ripetendo ai suoi il presidente della Camera. È un count down forzato, nel quale il premier decide di lanciarsi anche a costo di precipitare in quello stesso "vietnam" di numeri risicati e contrattati a Palazzo Madama nel quale due anni fa si è infine arenato il governo Prodi. Sui dieci pidiellini "malpancisti", su un incerto Dini, su un Pisanu sempre più critico il pressing da ieri si è fatto di nuovo incessante. Movimenti in vista anche a Montecitorio. Insomma, si riapre il "calciomercato".

È una sfida, quella che il presidente del Consiglio lancia in Parlamento, contro i "giochi di palazzo" dai quali si sente ormai soffocato. Per portarla avanti non lesinerà anche questa volta l'impegno di uomini e risorse. "Se a Palazzo Madama otteniamo la fiducia, anche qualora poi dovessimo cadere alla Camera, non ci sarebbe più alcuno spazio per un governo di transizione", ragiona al telefono il Cavaliere da Seul con i capigruppo pidiellini al Senato, con i quali concorda le due righe della mozione di sostegno al governo. "In quel caso, voglio vedere con che coraggio Fini, Casini e Bersani andrebbero ancora a chiedere al Quirinale un esecutivo diverso". Appena rientrato a Roma, oggi Berlusconi riunirà il bureau Pdl a Palazzo Grazioli.
Il gabinetto di guerra, in vista dell'uscita dei finiani dal governo già fissato per lunedì, sarà pressoché permanente. L'arma finale, che balena nella mente del premier e che Ignazio La Russa ha ventilato ieri anche davanti alle telecamere, è la richiesta al Quirinale di scioglimento della sola Camera, nel caso in cui il governo cadesse solo a Montecitorio. Una mezza provocazione, messa così, difficile anche da sottoporre al Colle.

Ma ad essere mobilitato ormai è anche lo stato maggiore dell'opposizione. I contatti di Fini con Casini, Rutelli, Bersani sono continui. I quattro hanno ragionato, pallottoliere e calendario alla mano. Martedì il presidente del Senato Schifani dovrà inserire in agenda la mozione di sostegno al governo, l'input del Pdl è che venga fatto il prima possibile. Al voto si potrebbe andare anche giovedì. I dieci senatori di Futuro e libertà non parteciperanno al voto. Più problematica l'astensione, che a Palazzo Madama equivale al voto negativo e potrebbe non andare giù ai più moderati del drappello guidato da Pasquale Viespoli. Nel Pdl invece sembra sia stata ricompattata la dozzina che aveva promosso il documento critico contro governo e partito. "Sulla fiducia non abbiamo dubbi, la voteremo, dimostreremo che almeno qui il governo ha i numeri, poi si vedrà" spiega Ferruccio Saro. Il suo sì lo darà anche Beppe Pisanu, in rotta col premier però contrario alle elezioni anticipate, dunque disposto a votare la fiducia a "qualunque governo la presenti in questo momento critico". Dovrebbe dare il suo sì anche Dini, nonostante i dubbi delle ultime settimane. Incerto il sardo Massidda, l'ormai ex pdl Musso, l'autonomista Pitzger.

La mozione di sfiducia di Pd e Idv camminerà con passi più lenti a Montecitorio, dove i lavori la settimana prossima saranno monopolizzati dalla legge di stabilità. Ma anche lì la crisi verrà in qualche modo "parlamentarizzata": martedì la norma sui conti dello Stato approda in aula e il centrosinistra presenterà migliaia di emendamenti, Tremonti a quel punto porrà la fiducia che già in settimana dovrebbe essere votata. Futuro e libertà si asterrà, pur votando subito dopo a favore sul merito della legge. Bersani e Di Pietro invece chiederanno al presidente della Camera che la loro mozione di sfiducia, depositata ieri, venga discussa nella finestra riservata agli atti dell'opposizione già prevista per il 22-23 novembre. I finiani non la voteranno, ma ne presenteranno una propria. Bersani in privato e Di Pietro in pubblico hanno fatto sapere che la voteranno. Casini farà lo stesso. Con quei numeri, a fine mese la corsa del governo potrebbe essere finita.

(13 novembre 2010)

mercoledì 3 novembre 2010

L'imbarazzo del Pdl e l'indignazione in Europa


di CARMELO LOPAPA e ANAIS GINORI

Indignazione e scandalo stavolta valicano i confini in un battibaleno. Le parole di Berlusconi bollate a vario titolo come "spacconeria macho" (Daily Mail) o "scivolone omofobo" (LeParisien) corrono sulla rete, rimbalzano tra decine di siti, invadono i blog, dagli Usa all'India, dall'Inghilterra all'Argentina, dalla Germania alla Francia. Finiscono nei tg, accendono reazioni politiche in mezzo continente, viaggiano in tandem con il Rubygate. "Stavolta, il nuovo scandalo che coinvolge una minorenne - scrive il New York Times - potrebbe innescare una crisi politica". Tutto questo accade mentre in Italia, tra ministri e dirigenti pidiellini, cala un gelido silenzio sull'ultima sortita. Palpabile l'imbarazzo, tra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli, dove il presidente del Consiglio rientra dopo l'exploit fieristico.

I più preoccupati sono i ministri della fondazione "Liberamente",
Gelmini, Frattini, Carfagna, Prestigiacomo, l'ala più moderata in seno all'esecutivo. Sono i primi a sentirsi, a metà giornata, in un rapido giro di telefonate all'insegna dell'apprensione. La gaffe rischia di aggravare una situazione già complicata di suo, tra escort, minorenni, inchieste e presunte pressioni alla Questura. La Carfagna, da ministro per le Pari Opportunità, è la prima a uscire allo scoperto in chiave velatamente polemica ("Meglio astenersi da battute che rischiano di oscurare quanto fatto dal governo"). Le agenzie di stampa rilanciano il commento piccato e il premier Berlusconi chiama personalmente il suo ministro. "Mara, ti assicuro che la battuta non aveva alcun intento discriminatorio, era appunto una battuta ironica, nulla di più". Quindi, si informa sullo stato di avanzamento delle leggi anti-omofobia in Parlamento, garantisce il suo impegno per sbloccare le norme destinate ad introdurre le aggravanti per i reati di discriminazione sessuale. La Carfagna incassa la promessa e, per quanto la riguarda, la polemica si chiude lì. Così, anche il ministro degli Esteri Franco Frattini, incalzato da La7, in serata minimizzerà l'accaduto: "Nessun imbarazzo, Berlusconi si scuserà con le cose importanti che il governo farà a tutela degli omosessuali" conferma. Di certo, il presidente del Consiglio non ha alcuna intenzione di fare pubblica ammenda. Perché dovrebbe? Chiede Daniela Santanché, della cerchia più vicina al Cavaliere. "La pensa come tutti i genitori italiani che sperano di avere figli eterosessuali: il resto è soltanto una ipocrita adesione al politicamente corretto. Un polverone mediatico dopo quello su Ruby". Il sottosegretario sarà uno dei pochissimi a difendere apertamente il premier, assieme al portavoce Daniele Capezzone ("Battuta detta sotto pressione").

Ma oltre i confini la pensano diversamente. Daniel Cohn-Bendit azzarda un paragone pesante: "Berlusconi è sceso agli stessi livelli di Ahmadinejad". Il deputato europeo è convinto che la battuta del premier non sia un caso ma un "calcolo preciso". "Gioca con la pancia del paese. L'omofobia è diffusa ovunque, anche se non pienamente espressa". Alcuni europarlamentari, tra cui Gianfranco Battistini, portavoce del gruppo della sinistra unitaria, vogliono portare il caso nell'emiciclo di Strasburgo alla ripresa dei lavori, la settimana prossima. Si farà leva sulle risoluzioni che il Parlamento Ue ha già approvato e sull'intergruppo nato per combattere l'omofobia nei paesi membri. "Il pericolo è che l'Europa perda la capacità di indignarsi davanti alle berlusconate" avverte Cohn-Bendit. Non è il solo, anche per l'ex ministro francese Jack Lang il presidente del Consiglio ha dimostrato di essere "razzista". "È sceso sotto il livello minimo di decenza" commenta. "Prima i suoi rapporti ambigui con le minorenni, ora l'attacco agli omossessuali. Bisogna che l'Italia ritrovi il suo posto in Europa, ma sarà possibile soltanto quando Berlusconi se ne andrà. Intanto, dovrebbe chiedere scusa alla comunità gay italiana ed europea per l'offesa scandalosa". È la tesi che attraversa stampa e siti di tutto il mondo. "Party, scivoloni, imbarazzo" titola Der Spiegel, "Berlusconi giustifica la sua cattiva condotta con frasi politicamente scorrette" per il Suddeutsche Zeitung, "Ancora una berlusconata" per il francese Liberation. Ma lo scalpore varca l'oceano. Anche l'argentino La Nacion si occupa della "frase discriminatoria", fino all'Oriente più lontano, col Times of India, "Berlusconi: meglio essere appassionato di belle ragazze che gay".

(03 novembre 2010)

giovedì 28 ottobre 2010

Esodo dal Pdl ai finiani Berlusconi: "Va fermato"


C'è la lista. E c'è anche una data cerchiata in rosso: 3 novembre, mercoledì. Una conferenza stampa sancirà il passaggio di altri tre, forse quattro deputati berlusconiani al nuovo gruppo di Futuro e Libertà, giusto alla vigilia della kermesse di Perugia che nel fine settimana sancirà il lancio in grande stile del partito di Fini. Il premier Berlusconi vede rosso e corre ai ripari.
La fuga dal Pdl è un tam tam battente, in Transatlantico, e porta dritto ai toscani della fronda anti Verdini,
Alessio Bonciani e Roberto Tortoli. Ma anche all'abruzzese Daniele Toto, già dimissionario dal coordinamento a Chieti. A Roberto Rosso, ex sottosegretario con cinque legislature alle spalle (e scarse chance di ricandidatura). Ancora, a Giancarlo Mazzuca, emiliano, convocato di gran carriera ieri sera da Cicchitto alla sede di Via dell'Umiltà.

Stando ai finiani saranno almeno tre di loro ad annunciare mercoledì l'adesione a Fli. Se così sarà, il gruppo scavalcherà per numero di deputati anche l'Udc, oggi entrambe le sigle a quota 35. Bocche cucite e mezze smentite, per ora, dagli "indiziati" di migrazione, per altro alle prese col pressing dei colleghi pidiellini. Coordinatori e capigruppo sono stati precettati da Berlusconi affinché venga tentato il tutto per tutto per trattenere i malpancisti alla Camera e riportare a più miti consigli i dieci senatori riottosi che martedì sera hanno presentato al gruppo un documento polemico su Pdl e tenuta del governo. "Parlate con loro, trovate voi il modo, non voglio più sentir parlare di malumori" ha intimato il presidente del Consiglio a Cicchitto, a Gasparri, a Verdini poco prima che i coordinatori si riunissero in serata per trovare un compromesso sul nodo della "democrazia interna" invocata da più parti. Risultato: una giunta consultiva di cinque dirigenti affiancherà i coordinatori e vice locali, d'ora in poi eletti e non più nominati. Basterà per convincere gli insoddisfatti? Martedì nuova riunione di gruppo al Senato. "I delusi non hanno da temere, Berlusconi ha garantito tutti e continuerà a farlo anche nella prossima legislatura" è il ramoscello teso da
Osvaldo Napoli.

Ma dalla Sicilia alla Lombardia, la "fuga" - come la definiscono con enfasi gli uomini di Fini - riguarda soprattutto i dirigenti locali.
Da Generazione Italia stimano in circa 2.500 gli amministratori, consiglieri per lo più, che avrebbero abbandonato il Pdl: una settantina in Piemonte, decine in Lombardia, una quarantina nella Toscana di Verdini, un centinaio in Sardegna, il boom tra Sicilia e Campania. "Il Pdl è totalmente sfasciato anche a livello nazionale, non ha senso continuare a tenerlo cosi" infierisce da La7 il sottosegretario Gianfranco Micciché, ideatore di "Forza del Sud". "Sfasciare tutto è facile, parole arbitrarie, infondate e ingenerose" gli ribatte Sandro Bondi. Il processo di disgregazione sembra però avviato. "Molti passeranno con noi, tre anche prima di Perugia, ci stiamo lavorando io e Italo Bocchino", svela Fabio Granata mandando su tutte le furie i berlusconiani. "Ma la campagna acquisti non era scandalosa?" attacca il senatore pidiellino Achille Totaro.

(28 ottobre 2010)

venerdì 15 ottobre 2010

Berlusconi infuriato col leader Fli "Mi chiedo se il Colle può tollerare"


Giustizia, partito quasi "balcanizzato", adesso la riforma elettorale dietro la quale prende forma la nuova maggioranza trasversale. Le nubi si fanno densissime sulla convalescenza sarda del presidente del Consiglio Berlusconi. Racconta chi ha parlato con lui che abbia perso le staffe anche stavolta, dopo la risposta fulminante e tutta "politica" di Gianfranco Fini al presidente del Senato Schifani. Già irritato d'altronde lo era per come sta precipitando la situazione interna al Pdl, tanto da convocare l'ufficio di presidenza per il suo rientro a Roma la settimana prossima.

"È un fatto gravissimo, Fini va ormai allo scontro istituzionale pur di scardinare la maggioranza - dicono sia stato il ragionamento del premier - Mi chiedo fino a quando il capo dello Stato potrà tollerare questo scenario". È bastato un cenno del leader dalla Certosa e nel giro di poche ore sono tornati a decollare i falchi, da Gasparri a Napoli ("Fini fa strame delle istituzioni"), mentre i finiani alla Briguglio contrattaccavano ("Schifani indipendente? Fa ridere"). Il clima insomma è pessimo, tra i massimi vertici istituzionali. Tra Palazzo Madama e Montecitorio il gelo e semplice "presa d'atto" delle reciproche lettere. La partita sulla riforma elettorale non si chiude qui. Al Senato la maggioranza Pdl-Lega è solida, il premier Berlusconi non poteva tollerare che il pallino passasse all'"infida" Camera e così è stato. Ma questa stessa partita adesso si intreccia con quella ancor più delicata della giustizia. Fini lancia la sfida sull'impossibilità che il Senato, ingolfato com'è, porti avanti la riforma elettorale? "Saremo così rapidi - rilancia il presidente pidiellino della commissione Affari costituzionali Carlo Vizzini - che da qui a breve approveremo il lodo Alfano costituzionale e vedremo se anche la Camera farà altrettanto".

Gianfranco Fini non si è sorpreso più di tanto quando ha commentato con i suoi la missiva di Schifani, "il problema è politico". Anche perché, prosegue il ragionamento del suo leader Italo Bocchino, "ormai ci sono due maggioranze diverse e la logica politica li avrebbe dovuti spingere a iniziare dalla Camera, perché senza un'intesa lì la riforma non ha speranze". Ma ai finiani è fin troppo chiaro che così il Cavaliere e i suoi "provano a barricarsi". Tuttavia, nessuna forzatura per ora, testa bassa a lavorare sul nuovo partito, continua a predicare il presidente della Camera ai suoi. Più che soddisfatto dello scenario che si va delineando nel Pdl: "Lo smottamento ormai è in atto, sono stato facile profeta".

Il presidente del Consiglio proprio sul partito è sempre più deciso a fare di testa sua, esasperato dalle lamentele degli ex forzisti, è già proiettato verso il lancio di un'organizzazione "light" da affiancare al Pdl. Le fibrillazioni si moltiplicano, raccontano si sia trasformato in uno "sfogatoio" anche la cena di mercoledì sera di un gruppo di deputate con il capogruppo Cicchitto. I coordinatori La Russa e Verdini, tra i bersagli. Allora, si parte dal basso con l'elezione (non più nomina) dei coordinatori locali che sarà decisa dall'ufficio politico convocato da Berlusconi per il suo rientro. "I vertici nazionali restano al loro posto, ma il presidente vuole imprimere un sussulto e tutto può succedere" racconta un fedelissimo. Si fa insistente così la voce di possibili dimissioni "pilotate" del coordinatore Sandro Bondi, unico modo per innescare un rinnovo del triumvirato. Ma gli interessati smentiscono e La Russa non perde occasione per far sapere che lui resta lì dov'è. Tutto è in movimento. E il fatto che Claudio Scajola sia stato convocato ieri mattina da Gianni Letta a Palazzo Chigi è apparsa a molti berlusconiani la conferma della sua prossima designazione a responsabile della macchina organizzativa.

(15 ottobre 2010)

domenica 15 agosto 2010

Gianfranco Fini e la famiglia sotto assedio "Su Elisabetta usati metodi brutali"


di CARMELO LOPAPA

"Sono rovinato, sappiatelo. Se trovano anche le fatture del lampadario e del portaombrelli sono nei guai". Gela fedelissimi e collaboratori che lo sentono di primo mattino da Ansedonia. Gianfranco Fini esordisce con tono grave, poi sbotta in una risata. "Se sono queste le cartucce di Vittorio Feltri, in Tribunale ci divertiremo". Fulmini e tuoni sull'Argentario, ma solo fuori dalla finestra della villa (in affitto). Dentro, il presidente della Camera legge i quotidiani ed è più che sollevato. Ha perfino voglia di scherzare sull'affare con cui stanno provando a metterlo in croce da settimane. Una conferenza stampa per passare a questo punto al contrattacco, per ora è solo un'eventualità discussa coi suoi.

Casa monegasca, seconda puntata. Il Giornale torna alla carica sulla storia delle forniture dei mobili, pubblica una ricevuta intestata a "Tulliani" per l'acquisto di una cucina. Tutto vero, raccontano dal fortino finiano, peccato che la cucina sia stata acquistata dal padre "ma per un appartamento romano e non certo per il Principato". Se le cose stanno così, sono altre frecce per la causa giudiziaria già intentata dalla terza carica dello Stato. Mette via i giornali e già in mattinata esce sereno per una passeggiata con la compagna Elisabetta e con le figlie. Lo stesso farà nel pomeriggio. Le attenzioni adesso sono tutte per lei.

Se c'è una cosa che ha davvero "turbato" il leader di Futuro e libertà, racconta Italo Bocchino che è rimasto con lui fino a venerdì mattina, è "la violenza dell'attacco subito in questi giorni non per sé, ma per la sua famiglia, per le conseguenze scorrette che subisce Elisabetta: di solito, i familiari si tengono fuori da questo tipo di vicende". Questa volta non è accaduto, in ultimo con interviste e ricostruzioni sul passato della compagna, che "nulla ha a che fare con la faccenda della casa".

Uno scontro politico che - questa la sensazione del presidente della Camera - si è ormai trasformato in "scontro istituzionale". Le parole del capo dello Stato Napolitano gli sono state di "conforto". Ma gli uomini più vicini a Fini non si aspettano certo che la campagna si fermi qui. Sebbene il nuovo ciclone su Verdini apra un nuovo vulnus ai vertici del Pdl. "Evidente che stanno facendo di tutto per metterci in difficoltà - raccontano - questo renderà molto più complicato il chiarimento a settembre. A cominciare dal nodo giustizia, tanto più se conterrà il via libera al processo breve: se lo scordano. E se a settembre il premier insiste sulla via della rottura, vedremo se esisterà una maggioranza favorevole allo scioglimento delle Camere: non sembra ci sia".

Eppure, anche nella lunga e torrida vigilia di Ferragosto il pressing nei confronti di parlamentari che hanno lasciato il Pdl è stato incessante. In alcuni casi con parziale successo. "Siamo andati oltre. Sono a disagio e come me parecchi altri, tutti tranne Granata" confessava ieri la finiana dubbiosa, Souad Sbai. Nella roccaforte del presidente la considerano ormai con un piede fuori. Ma sicuri che una o due defezioni alla Camera non fermeranno l'auto in corsa. Anche perché altri parlamentari pidiellini, è la tesi, sarebbero pronti a confluire in Fli.

A confortare Fini, in queste giornate di burrasca, poi, la solidarietà e la vicinanza dei tanti che lo hanno chiamato, oltre i suoi. Così ad esempio Pier Ferdinando Casini. I due, accomunati da Bossi in una sorta di insulto anche ieri ("Fini? Troppo amico di Casini"), si sono sentiti più volte nel pieno della campagna mediatica. Che il leader Udc ha definito "squadristica". Vicinanza "personale" che però, lasciano trapelare dagli ambienti centristi, non prelude a risvolti politici immediati, federazioni o sante alleanze. Casini per adesso resta alla finestra, scettico anche dopo l'uscita di Montezemolo. Con Fini, come con Rutelli, resta aperto un dialogo, chiaro. Il presidente della Camera ieri sembra aver superato anche l'incidente al piede rimediato il giorno prima giocando a palla con la figlia. "Un lieve infortunio - ci scherza su Bocchino - che non impedirà a Gianfranco di restare in campo".

(15 agosto 2010)

domenica 8 agosto 2010

Berlusconi e l'incubo della palude "Mi serve un patto con Napolitano"


Il conclave del partito, con ministri, coordinatori e capigruppo, è già fissato per fine agosto. Stato maggiore del Pdl a rapporto per pianificare la battaglia d'autunno, per definire le ultime mosse, quelle che il Cavaliere non può permettersi di sbagliare. E sulle quali adesso teme invece di inciampare.

A farsi largo a Palazzo Chigi è infatti il timore che la crisi, pur cercata, non possa materializzarsi. Il sospetto, nell'ipotesi di un rinvio del premier alle Camere da parte del Quirinale, è che Berlusconi resti imbrigliato nello schema della "mozione Caliendo": Pdl e Lega votano compatte la fiducia, i finiani invece si astengono. Col risultato di lasciare il premier ancora in carica, ma da "anatra zoppa".

Il leader Pdl ne ha parlato anche nel sabato di lavoro agostano appena trascorso a Palazzo Grazioli, prima con Fabrizio Cicchitto, poi con il sottosegretario Gianni Letta incontrato con Bertolaso. Nel mirino, sempre la crisi, da innescare prima possibile. Ma è stato proprio il più ascoltato dei consiglieri, Letta, a mettere in guardia ancora una volta: "Guarda Silvio che non abbiamo alcuna garanzia che le eventuali dimissioni portino dritti alle elezioni". È l'incognita Quirinale, trasformatasi ormai in un autentico spettro per Berlusconi. Ecco perché, ai fedelissimi incontrati ieri e ai collaboratori con cui ha parlato al telefono - tra una passeggiata per i negozi del centro deserto della Capitale e una foto ricordo con i turisti - il premier ha prospettato il suo piano: "Subito dopo il nostro vertice di fine agosto chiederò un incontro al capo dello Stato, dobbiamo capire quali siano le sue reali intenzioni e ottenere garanzie. Bisogna evitare scherzi, stringere un patto". Garanzie, dunque, su un'eventuale crisi "pilotata". Con l'impegno magari del capo dello Stato, in caso di sfiducia e dimissioni, a non cercare soluzioni "istituzionali" o tecniche, "pateracchi" per dirla col ministro degli Esteri Frattini.

Il fatto è che un ritorno alle urne non potrà avvenire prima della prossima primavera. Di questo ormai sembra che Berlusconi ne abbia preso atto, nel dialogo avuto in mattinata con Cicchitto in cui si è parlato anche di riorganizzazione del partito. È bastato scorrere il calendario e verificare i tempi tecnici di un'eventuale crisi parlamentare, per rendersene conto. Il capogruppo alla Camera è comunque al lavoro, con pochi altri, sui ddl da sottoporre alla fiducia, alla ripresa. I quattro punti sui quali stanare i finiani. Un "paniere" nel quale il coordinatore Pdl Ignazio La Russa aggiunge ora anche il nodo immigrazione. Non a caso, dato che proprio su immigrazione e diritto di cittadinanza le idee del presidente della Camera Fini e dei suoi distano ormai anni luce dal resto della maggioranza e dunque un eventuale ddl si presterebbe a diventare terreno per lo scontro finale.

Difficile, a sentire i dirigenti del neonato gruppo di "Futuro e libertà". Perché loro, i finiani, si preparano a rispondere con un "sì" alle proposte del governo e a tenerlo in vita. Le elezioni nei prossimi mesi non sono una prospettiva né conveniente, né opportuna per la squadra dell'ex leader di An. Ormai non passa giorno che il capogruppo Bocchino non confermi l'intenzione di votare la fiducia, salvo poi chiedere provocatoriamente la sostituzione dei coordinatori Pdl, in un'infinita guerra di posizione. Intanto, se Berlusconi resta al lavoro, anche Gianfranco Fini affila le armi per l'autunno caldo. Ritorno in scena programmato per il 5 settembre, in occasione della Festa tricolore di Mirabello. Sarà in quell'occasione che la terza carica dello Stato pronuncerà il suo discorso-manifesto sul nuovo partito e sul futuro della legislatura. "Se la situazione precipiterà, andremo al voto, basterà il suo nome sul logo e stringeremo alleanze inedite - dice sicuro uno degli uomini più vicini al presidente della Camera - Ma i numeri e i movimenti in corso, anche al Senato, ci dicono che al voto anticipato non si andrà, che ci sono le condizioni per un governo di transizione. E a guidarlo potrebbe essere una figura di altissimo profilo quale Giuseppe Pisanu". Un nome, quello dell'attuale presidente dell'Antimafia, che circola con insistenza entro il perimetro del cartello moderato: finiani, centristi, rutelliani. Non solo per la storia politica del senatore e per il ruolo di garanzia che ricopre. Ma soprattutto per la provenienza dalle file della maggioranza e per le posizioni sempre più critiche nei confronti del premier. Dallo strappo del 2006, quando l'allora capo del Viminale entrò in rotta di collisione con Berlusconi sulla difesa della regolarità del voto.

(08 agosto 2010)

sabato 7 agosto 2010

Voto subito, il Pdl si spacca Berlusconi: errori con Fini


CARMELO LOPAPA

La quiete dopo la tempesta porta su Palazzo Grazioli una nuvola carica di dubbi. Il presidente del Consiglio Berlusconi, rimasto a Roma, va a incontrare l'amico e sodale di sempre Cesare Previsti, pranza con lui, poi riceve in via del Plebiscito Francesco Storace. Sente altri collaboratori e ministri nel corso della giornata e a tutti inizia a esternare le perplessità delle ultime ore. Si fa strada il sospetto che l'accelerazione impressa alla crisi forse non porterà subito laddove il capo del governo spererebbe, cioè al voto. "Forse abbiamo sbagliato i tempi" avrebbe confessato a più di un interlocutore. "Se sbagliamo, rischiamo di trovarci un altro governo Dini".
Uscito dopo due ore dalla casa romana di Previti a Piazza Farnese, il premier si limita a qualche battuta coi cronisti: "Non mi strapperete neanche una parola. Quello che succederà me lo direte voi. Io leggo i giornali e mi adeguo alla realtà che raccontate". Poi, "voi andate in vacanza, beati voi... Io andrò qualche giorno ad Arcore per riposarmi". Vacanze di lavoro, come va ripetendo. Parvenza di serenità che nasconde i timori suoi e dell'entourage. "Berlusconi non ha bisogno di consigli, sa sbagliare da solo. Ci sono grandi difficoltà - confessa Marcello Dell'Utri a Radio 24 - Il respiro del governo si è fatto affannoso, c'è dell'asma. Ma non credo si andrà a votare a breve come auspica il premier".

Già, perché il capo del governo si sta convincendo che la formazione di una nuova maggioranza in Parlamento, comunque in grado di sostenere un governo di transizione, non sia un'ipotesi del tutto peregrina. Calderoli dalle file del Carroccio continua a dire "no a esecutivi Frankenstein, meglio il voto". Ma a Berlusconi hanno spiegato che nel Pdl sarà facile reperire venti deputati e venti senatori pressoché certi di non essere ricandidati o di non essere eletti. A quel punto il gioco dei terzopolisti sarebbe fatto. Raccontano che la lettura dell'intervista a Repubblica di Giuseppe Pisanu ("Mi opporrò alle elezioni, in Parlamento tantissimi contrari") abbia contribuito a frenare gli ultimi slanci del presidente del Consiglio sul ritorno alle urne. E così le dichiarazioni dell'ormai ex pdl Chiara Moroni.

Anche l'exit strategy individuata dalle colombe del partito, un mini programma in quattro punti su giustizia, federalismo, fisco e Mezzogiorno sul quale apporre la fiducia e stanare i finiani, non è che lo abbia convinto più di tanto. Il premier Berlusconi è scettico. Teme soprattutto di ritrovarsi in un vicolo cieco, qualora i 33 deputati e i 10 senatori vicini al presidente della Camera votassero quel pacchetto, per poi ricominciare la guerriglia in aula. Tanto più che il capogruppo alla Camera Italo Bocchino ha già fatto sapere che quel patto loro lo accettano, "detto questo, però, i punti vanno tradotti in leggi e su quelle poi staremo attenti". Anche il prossimo capogruppo al Senato di "Futuro e libertà", Pasquale Viespoli, conferma che loro sono "pronti ad aprire il confronto".

Il clima nel dopo strappo dunque è tutt'altro che sereno, nel Pdl. Anche per il braccio di ferro in corso tra falchi e colombe. Alla prima categoria sono iscritti gli ex colonnelli di An e forzisti di peso quale Cicchitto. Sull'altro fronte, Gianni Letta, i ministri Frattini e Gelmini, tra gli altri. I primi lavorano per una rottura e per il voto in autunno. Un errore, al contrario, secondo le colombe che continuano a lavorare di diplomazia: per il voto a novembre non ci sarebbero i tempi tecnici, è la loro tesi. Calendario alla mano, con le Camere che riprendono a lavorare di fatto a metà settembre, Berlusconi dovrebbe aprire una crisi e ottenere lo scioglimento dal Colle entro i primi di ottobre. Meglio trattare con Fini - è dunque il suggerimento di Frattini, Gelmini e dei moderati - e stipulare magari una federazione con Fli, qualora accetti il piano in quattro punti: per vincolare loro e blindare il premier fino al termine della legislatura.

Ma a vacillare nel Pdl è anche il coordinamento. Nell'ultimo vertice di giovedì, Berlusconi ha illustrato i risultati degli ultimi focus dai quali emergerebbe come i giovani elettori pdl siano attratti da Fini. Da qui la necessità di "cambiare l'immagine del partito", ha rimarcato, ipotizzando Gelmini, Alfano e Meloni al coordinamento. La Russa ha ribattuto a muso duro: "Presidente, fà come vuoi, ma gli ex An li rappresento io", non il ministro della Gioventù, sottinteso.

(06 agosto 2010)

venerdì 6 agosto 2010

Elezioni, crisi prima del 14 dicembre "Avversari disuniti, noi pronti in autunno"


DI CARMELO LOPAPA

"Comitati elettorali" del partito da allestire in fretta, subito dopo l'estate. Promotori della Libertà, circoli e giovani, tanti giovani, da reclutare e impiegare ovunque per spiegare quanto fatto dal governo. Il presidente del Consiglio Berlusconi si sente già in corsa e galvanizza il quartier generale del partito. Voto a novembre, il suo auspicio, forse in marzo, ipotizza qualcuno dei suoi. Magari in concomitanza col 27 marzo, anniversario del primo successo nel '94. Ma i rumors non impressionano finiani e centristi: "È tutto un bluff, a settembre ci saranno sorprese". La clessidra della legislatura, sono pronti a giurare, non si chiude con l'ammutinamento del cofondatore.

Il voto è una strada obbligata, invece, per il Cavaliere. "È l'unica via che abbiamo e dobbiamo imboccarla prima del 14 dicembre" - quando la Consulta con molta probabilità gli boccerà lo scudo del legittimo impedimento - scandisce allo stato maggiore riunito a Palazzo Grazioli per l'ultima volta prima della pausa estiva, che sarà breve. Coordinatori, capigruppo e i ministri Tremonti e Frattini, Matteoli e Alfano. Analisi della crisi e messa in moto della macchina del Pdl che per il capo coincide con quella elettorale. Alla fine vanno via i "generali" ma restano Denis Verdini, la Brambilla, la Meloni e la Lorenzin per mettere a punto l'organizzazione. Poco prima, Tremonti aveva spiegato come "il peggio è passato" e potrebbe essere gestita una crisi anche a ridosso della sessione di bilancio. "Avete visto come Pier difende quello, ormai?" ha chiesto amaro Berlusconi ai suoi, dopo aver letto le dichiarazioni del leader Udc in difesa di Fini per il caso Montecarlo. "Ci sono almeno tre ragioni per andare presto alle urne - è stato il ragionamento sentito da chi ha partecipato alla riunione - Perché in questo momento non abbiamo avversari, perché non potranno mai coalizzarsi tutti contro di me, da Fini a Vendola, infine perché non possiamo stare a contrattare con i finiani su ogni legge". A supportare la sua tesi, ecco l'ultimo sondaggio della fidata Euromedia sul dopo-strappo. Attesterebbe, a quanto riferiscono, un Pdl a quota più 2 per cento dopo l'esodo dei finiani, l'ipotetico nuovo partito del presidente della Camera al 2-3 per cento da solo, tra l'8 e il 10 se in lista comune con l'Udc.

Numeri, appunto. Di certo, per ora, c'è la conferma dei tre coordinatori. E la decisione di ribattere subito e con la grancassa a Fini sul tema, a lui caro, della legalità. Sarà tutta centrata sui "successi del governo nella lotta alla mafia" la tradizionale conferenza stampa di Ferragosto, che stavolta il premier terrà non solo con il ministro degli Interni Maroni ma anche col Guardasigilli Alfano. Non a Roma, poi, ma a Palermo, dando all'appuntamento un valore meno rituale e più simbolico.

Sullo sfondo resta però il voto a breve. Che nasconde però almeno un paio di incognite, poste ieri sul tavolo di Palazzo Grazioli dai dirigenti pidiellini. Primo, il rischio di un exploit della Lega, che controlla regioni strategiche come il Veneto e il Piemonte. Secondo, il sistema elettorale che non garantisce affatto una maggioranza solida al Senato, in caso di lista comune tra centristi e finiani in alcune regioni fondamentali, come la Sicilia, dove ai "ribelli" potrebbe annettersi anche un big di peso, da quelle parti, come l'Mpa di Lombardo. Da qui il sogno berlusconiano, difficilmente realizzabile, di un blitz per modificare la legge elettorale solo per Palazzo Madama. Tanto più che sulla Sicilia e lo scisma locale del Pdl, il faccia a faccia di mezzora con Micciché di ieri mattinata non è servito affatto a sciogliere i nodi. Altri problemi riguardano l'immediato: quale escamotage utilizzare per aprire la crisi, per esempio. Il ddl sull'immigrazione, è stato ipotizzato. Ma i finiani non perdono le staffe, come lascia intendere il capogruppo Bocchino: "Evocare il voto anticipato è un bluff, quanto mai improbabile in autunno". E proprio il passaggio a "Futuro e libertà" di Chiara Moroni sembra abbia "deluso" parecchio Berlusconi: "Le ho parlato un'ora e mezza, non c'è stato nulla da fare", ha confessato ai suoi. E ora? "Si scivola verso il voto anticipato, evidente" taglia corto Osvaldo Napoli. E guai a parlare di soluzione alternative, come sottolinea un ministro di prima linea come Franco Frattini: "Il governo deve andare avanti senza farsi logorare ed escludendo ogni pasticcio di governi transitori, chi dovesse creare rotture se ne assumerebbe gravi responsabilità". Ma il voto è di là da venire. Gli uomini del Carroccio invece sono preoccupati da altro: come in commissione Giustizia, anche in Bicamerale per il federalismo è sfumata la maggioranza. Il finiano Mario Baldassarri diventa l'ago della bilancia.

(06 agosto 2010)