MARIO DEAGLIO
Ci possono essere molte buone ragioni per essere d’accordo e forse altrettante per essere in completo disaccordo con le strategie dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. Su un punto, però, sostenitori e avversari debbono convenire: queste strategie rappresentano il principale elemento di discontinuità sulla scena politico-economica italiana degli ultimi decenni.
Il passaggio dalla cosiddetta «prima» alla cosiddetta «seconda» Repubblica non ha infatti portato ad alcuna vera discontinuità: ha determinato un certo ricambio, forse peggiorativo, della cosiddetta classe politica lasciando sostanzialmente intatti i meccanismi di fondo dell’economia e della società. Non ha di fatto modificato né la concertazione sui problemi del lavoro, ossia la soluzione delle controversie mediante un dialogo teso a raggiungere un equilibrio tra le parti, sovente con la mediazione del governo; né le procedure atte a realizzare mutamenti nel potere economico attraverso aggregazioni e aggiustamenti più o meno grandi, largamente concordati nei cosiddetti «salotti buoni».
Con il loro misto di concretezza e di durezza, i casi industriali di Pomigliano e di Mirafiori stanno invece proponendo un’alternativa radicale ai meccanismi della concertazione. La quotazione in Borsa, iniziata ieri, di una galassia di titoli con il marchio Fiat e la parallela suddivisione del gruppo stesso in due grandi aree - che potrebbero avere destini economici e industriali differenti - propone un’alternativa quasi altrettanto radicale ai meccanismi interni del capitalismo italiano.
Pomigliano e Mirafiori hanno posto l’esigenza di un forte cambiamento nelle relazioni industriali in Italia e quindi anche nel ruolo non solo del sindacato ma anche della Confindustria che pure in passato è ripetutamente riuscita a reinventarsi mediante riforme interne.
Parallelamente, i nuovi titoli Fiat potrebbero di fatto indurre un mutamento di funzioni della Borsa Italiana, altro ente che ha cercato di reinventarsi: da quello prevalente di luogo in cui vengono ratificati, con nuove configurazioni azionarie, cambiamenti decisi altrove a quello di vero «campo di battaglia», di vero terreno di scontro tra vari progetti finanziari e industriali. Anche in questo caso, come per la concertazione, si avrebbe una sostanziale riduzione dello spazio riservato ai pubblici poteri e quindi una profonda modificazione nei rapporti tra economia e politica.
Negli incontri Fiat-sindacati, così come nell’incontro di ieri tra Marchionne e i media, sono state di fatto delineate non solo due proposte specifiche di investimento industriale, ma un nuovo modello di relazioni industriali e un nuovo modello di funzionamento della Borsa italiana. Il tutto è privo di un’incastellatura teorica e di una particolare armatura giuridica, ambedue tipiche del cambiamento graduale all’italiana. Ha il merito di squarciare il velo dell’ipocrisia sul grave indebolimento produttivo italiano che politici e parti sociali hanno a lungo cercato di non vedere.
I rapporti tra economia e politica ne dovrebbero risultare profondamente modificati, alla politica non viene richiesta alcuna particolare benedizione né alcun particolare aiuto. La politica stessa viene di fatto sostituita dal mercato e dal profitto, ma sarebbe un errore immaginare che il riferimento al mercato e al profitto sia necessariamente tipico di una politica miope, della ricerca di un «mordi e fuggi» a favore degli azionisti: il ciclo di investimenti proposto si articola infatti su uno o più decenni e non certo su pochi trimestri e l’impegno finanziario è di tutto rispetto. Al posto della vecchia Fiat, con la sua componente «istituzionale» nel quadro dell’economia italiana, che, proprio per questo, racchiudeva al suo interno settori produttivi molto diversi tra loro, con un complicato sistema di rapporti con il settore pubblico, si propongono almeno due grandi imprese, una nel settore dell’auto e un’altra in vari settori legati alla motorizzazione, con logiche di alleanze, crescita ed espansione molto diverse tra loro. In grado, secondo questo progetto, di competere sul mercato globale senza particolari «garanzie» e di essere separatamente molto più efficienti di quanto non fossero rimanendo unite.
Le discontinuità sono sempre scomode, il loro esito contiene una componente di incertezza e occorre capire se l’Italia di fatto accetterà la particolare discontinuità che le viene proposta. Dovrebbe però essere chiaro che nell’attuale contesto mondiale è difficile pensare a vie alternative per una nuova crescita, il rilancio dell’occupazione, l’interazione tra produzione e ricerca scientifica. E’ difficile vedere qualcosa di diverso di un’Italia che vivacchia e che si allontana sempre più rapidamente dal gruppo dei Paesi di testa, nei quali si sviluppano e si applicano le tecnologie da cui dipende il nostro futuro; di un’Italia eccessivamente attenta agli scontri tra i politici e clamorosamente lontana dai grandi movimenti di idee, di invenzione, di produzione, che stanno dando al pianeta una nuova dimensione.
mario.deaglio@unito.it
3 commenti:
Abbiamo una politica vecchia che non sa affrontare il uovo e preferisce crogiolarsi nel limbo di giochi speculativi tutti destinati a produrre solo carta straccia.
Se non si pone un freno alla borsa, molto mal gestita e poco controllata, e non si da sviluppo alla ricerca, finiremo per diventare uno dei paesi meno produttivi al mondo.
Ho il terribile sospetto che lo siamo già!
Purtroppo, hai ragione.
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