di Marco Travaglio
Nella Prima Repubblica si diceva che il modo
migliore per non risolvere un problema era creare una commissione d’inchiesta.
Anche in America l’anchorman Milton Berle sosteneva che “una commissione è un
gruppo che risparmia minuti e perde ore”. E Richard Harkness ha scritto sul New
York Times: “Dicesi commissione un gruppo di svogliati selezionati da un gruppo
di incapaci per il disbrigo di qualcosa di inutile”.
Ora, lungi da noi pensar male della “commissione di studio
sulla trasparenza e la prevenzione della corruzione” creata da Filippo Patroni Griffi, ministro della Pubblica amministrazione per
emendare la legge anticorruzione varata il 1°marzo 2010 dal governo B. e da
allora inabissata nelle secche della Camera. Tanto più che il ministro dichiara
a Repubblica che la lotta alla corruzione “è una priorità della nostra agenda”
e scopre persino che “vanno ratificate al più presto le convenzioni”
anticorruzione di Strasburgo (dal 1999).
Solo che fra i membri del sinedrio, accanto al giudice Cantone, al consigliere della Corte dei conti Granelli, ai prof. Mattarella e Merloni, c’è pure il prof. avv. Giorgio Spangher. Che, salvo casi di omonimia, fu membro del Csm in
quota Forza Italia dal 2002 al 2006, avallando tutte le leggi vergogna del
governo B.; ma soprattutto fu consulente retribuito degli avvocati di B. nel
processo Ruby e dei coimputati di Previti nei processi Imi-Sir e Mondadori.
Processi questi ultimi per corruzione giudiziaria, per i quali Spangher firmò
tra il 2001 e il 2002 tre luminosi pareri pro veritate contro i giudici
milanesi come consulente privato; e subito dopo, come presidente della I
commissione del Csm, aprì una pratica per trasferire per incompatibilità
ambientale Ilda Boccassini e Gherardo
Colombo sulla scorta delle ispezioni scatenate da B.
Qualcuno adombrò il conflitto d’interessi, ma Spangher replicò serafico:
“Ho dato quei pareri, ma senza guardare le carte”. Nei primi due, stilati nel
2001 per conto di Rovelli jr. e di Giovanni Acampora (l’uno poi condannato e prescritto
in Cassazione, l’altro condannato definitivo), Spangher sosteneva che i rinvii
a giudizio erano nulli per “vizio assoluto e oggettivo”, dunque si imponeva “la
regressione processuale per tutti gli imputati” (Previti compreso) alla casella
di partenza.
Il Tribunale fu di diverso parere.
Sfumate le manovre per azzerare il processo, partirono quelle
per trasferire a Brescia i casi Imi-Sir,
Mondadori e Sme con l’apposita legge Cirami.
Anche lì Spangher, consulente multiuso, si rivelò prezioso, con
un nuovo parere del 2002: “Ho esaminato le richieste dei signori Rovelli nonché
di Silvio Berlusconi, Verde, Pacifico, Previti”, scriveva. E concludeva che
l’intero Tribunale di Milano era gravato da un legittimo sospetto “non
eliminabile con normali misure”.
Spangher si avventurava in arditi paralleli fra la Milano del
2002 e l’Italia dei “processi post-bellici ai collaborazionisti” dei fascisti.
Descriveva un clima preinsurrezionale (“lacerazione e frattura
del tessuto sociale, istituzionale, politico, economico”), in cui “agli
imputati è impossibile esplicare pienamente i diritti processuali”. Colpa del “resistere resistere resistere” di Borrelli, dei terribili Girotondi
e del “contrasto istituzionale del ministro con il Csm”.
La Cassazione si fece una risata e lasciò i processi a Milano.
Ma, pochi mesi fa, riecco Spangher al fianco di Longo e Ghedini con un bel
parere pro veritate per bloccare sul nascere il processo Ruby in quanto, com’è
noto, la giovine era la nipote di Mubarak, dunque la telefonata di B. in
questura avvenne nell’esercizio delle funzioni di premier, ergo era di
competenza del Tribunale dei ministri.
Non contento, il prof si fece audire dalla Camera per sostenere
il conflitto di attribuzioni alla Consulta contro i giudici di Milano che si
ostinano a processare B.
Ora, per conto del governo “tecnico”, studia il miglior modo di
prevenire e reprimere la corruzione”.
Siamo in buone mani.
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