Paola Mastracola
LA STAMPA
23 giugno 2008
Mia madre, se mi vedeva la giacca senza un bottone, non mi faceva uscire di casa. Non ti puoi presentare da nessuna parte se ti manca un bottone, mi diceva. Oggi il grande Armani passeggia per Milano e si dice inorridito da come ci vestiamo. Credo che sui bottoni la pensi come mia madre, e non so come dargli torto.
Basta andare al mare una domenica. Vediamo uomini a torso nudo che trascinano i piedi dentro zoccoloni di plastica e zampettano al ristorante senza nemmeno pulirsi dalla sabbia; e donne fasciate alla bell’e meglio da tendaggi umidicci e stinti che chiamiamo esoticamente pareo. Prendiamo a pretesto il sole, il caldo, la vacanza; per giustificare tutti gli zoccoli e i pareo che ci pare, usiamo come armi affilate le parole: comodo, informale, pratico. In realtà è che non abbiamo più voglia di impegnarci, di fare fatica, di mettere energia nemmeno a scegliere un vestito elegante con i sandali in pelle. Abbiamo barattato l’eleganza con una pseudo libertà, che invece ci abbrutisce e ci degrada.
Siamo ineleganti perché abbiamo perso la precisione e l’accuratezza. Esisteva la calligrafia ovvero la bella scrittura, per esempio, perché qualcuno si metteva lì a disegnare parola dopo parola, con precisione da miniaturista. D’altronde, un tempo facevamo mosaici e costruivamo piramidi… Impiegavamo un tempo infinito a cuocere una statua, a pennellare un ritratto, a scrivere un libro: a volte ci mettevamo una vita e non bastava, il libro usciva postumo (ed era una gloria imperitura, ma sarebbe un altro discorso, lasciamo perdere). Così, viviamo alla giornata, nel tripudio di un carpe diem travisato per sempre: qui non afferriamo nessun tempo, lo sprechiamo a essere fintamente liberi, cioè sciatti, guadagnando un tempo che poi ri-sprechiamo in altro, non si sa bene cosa. Almeno coltivassimo il filosofico otium degli antichi, ma neanche quello. Coltiviamo l’ozio del «fare il meno possibile, che tanto è uguale». Qualcuno deve averci detto che non importa più che ci danniamo l’anima a far bene una cosa, basta farla e il risultato è uguale. La presunta uguaglianza dei risultati!
E così, il mondo tira a campare saturando l'aria di approssimazioni e inesattezze.
I giornalisti non fanno più inchieste sul campo, ma telefonano agli esperti elemosinando opinioni al volo. I magistrati non fanno indagini e pedinamenti, ma preferiscono intercettare. I servizi segreti hanno difficoltà a infiltrare i gruppi terroristici, e quindi monitorano le comunicazioni internet e telefoniche. Gli ispettori ministeriali non leggono i libri, non consultano enciclopedie, non controllano i testi, ma si danno - peggio che i nostri giovani - a uno sfrenato copia-incolla. Povero Montale, che tanto si affannava a dedicar poesie! D’altronde, potremmo dire: c’è così tanta differenza tra un ballerino russo e una donna amata?
Ecco, è questo credere che non ci sia poi così tanta differenza che non va. E torniamo ai vestiti: una volta c’era differenza tra soprabito e cappotto, perché si faceva attenzione a che fosse inverno o primavera. Adesso vale il «fa’ come ti pare», mettiti come vuoi, basta che tu ti senta libero. E così, gli studiosi non vanno più in biblioteca, aprono internet e si perdono a navigare nei suoi flutti. E forse nessuno studierà più niente, perché tanto, che differenza fa? Se ti serve qualcosa, peschi in rete e fai la tua bella figura. I politici non fanno più comizi nelle piazze, non studiano i problemi, non vanno in sezione: si limitano ad apparire in tivù, a concionare alla radio. Gettano parole sul mondo, come viene viene. Parole approssimative, rumorose, non pensate, non amate. Parole dove si sente che non alberga più un pizzico di passione ed esattezza.
Sì, perché anche la passione è esatta; anche l’amore esige impegno e precisione. Come scrivere bene, come indossare un bel vestito, cuocere il tempo giusto un dolce, come amare la persona a cui abbiamo promesso amore. Invece oggi, come ci infiliamo al volo gli zoccoli di plastica per scendere in strada, così una sera diciamo al nostro coniuge che basta, non lo amiamo più, e non sappiamo proprio cosa dirgli se non lo amiamo più: ce ne andiamo, lasciando dietro di noi i cocci sparsi di una casa, dei figli, dei parenti vecchi e malati. Cosa importa? Gira il vento e noi, anime libere e irresponsabili, seguiamo il vento. E il vento ci porterà via, e non resterà nulla di noi. Sciatterie del sentimento.
Dovremmo smetterla. Dovremmo scrivere un manifesto dell’Antisciatto. Senza tante pretese, con un’unica regola: l’umiltà di fare bene quel poco o tanto che sappiamo fare, con il pensiero però che quel nostro umile fare, almeno un po’, concorrerà a migliorare il mondo.
Basta andare al mare una domenica. Vediamo uomini a torso nudo che trascinano i piedi dentro zoccoloni di plastica e zampettano al ristorante senza nemmeno pulirsi dalla sabbia; e donne fasciate alla bell’e meglio da tendaggi umidicci e stinti che chiamiamo esoticamente pareo. Prendiamo a pretesto il sole, il caldo, la vacanza; per giustificare tutti gli zoccoli e i pareo che ci pare, usiamo come armi affilate le parole: comodo, informale, pratico. In realtà è che non abbiamo più voglia di impegnarci, di fare fatica, di mettere energia nemmeno a scegliere un vestito elegante con i sandali in pelle. Abbiamo barattato l’eleganza con una pseudo libertà, che invece ci abbrutisce e ci degrada.
Siamo ineleganti perché abbiamo perso la precisione e l’accuratezza. Esisteva la calligrafia ovvero la bella scrittura, per esempio, perché qualcuno si metteva lì a disegnare parola dopo parola, con precisione da miniaturista. D’altronde, un tempo facevamo mosaici e costruivamo piramidi… Impiegavamo un tempo infinito a cuocere una statua, a pennellare un ritratto, a scrivere un libro: a volte ci mettevamo una vita e non bastava, il libro usciva postumo (ed era una gloria imperitura, ma sarebbe un altro discorso, lasciamo perdere). Così, viviamo alla giornata, nel tripudio di un carpe diem travisato per sempre: qui non afferriamo nessun tempo, lo sprechiamo a essere fintamente liberi, cioè sciatti, guadagnando un tempo che poi ri-sprechiamo in altro, non si sa bene cosa. Almeno coltivassimo il filosofico otium degli antichi, ma neanche quello. Coltiviamo l’ozio del «fare il meno possibile, che tanto è uguale». Qualcuno deve averci detto che non importa più che ci danniamo l’anima a far bene una cosa, basta farla e il risultato è uguale. La presunta uguaglianza dei risultati!
E così, il mondo tira a campare saturando l'aria di approssimazioni e inesattezze.
I giornalisti non fanno più inchieste sul campo, ma telefonano agli esperti elemosinando opinioni al volo. I magistrati non fanno indagini e pedinamenti, ma preferiscono intercettare. I servizi segreti hanno difficoltà a infiltrare i gruppi terroristici, e quindi monitorano le comunicazioni internet e telefoniche. Gli ispettori ministeriali non leggono i libri, non consultano enciclopedie, non controllano i testi, ma si danno - peggio che i nostri giovani - a uno sfrenato copia-incolla. Povero Montale, che tanto si affannava a dedicar poesie! D’altronde, potremmo dire: c’è così tanta differenza tra un ballerino russo e una donna amata?
Ecco, è questo credere che non ci sia poi così tanta differenza che non va. E torniamo ai vestiti: una volta c’era differenza tra soprabito e cappotto, perché si faceva attenzione a che fosse inverno o primavera. Adesso vale il «fa’ come ti pare», mettiti come vuoi, basta che tu ti senta libero. E così, gli studiosi non vanno più in biblioteca, aprono internet e si perdono a navigare nei suoi flutti. E forse nessuno studierà più niente, perché tanto, che differenza fa? Se ti serve qualcosa, peschi in rete e fai la tua bella figura. I politici non fanno più comizi nelle piazze, non studiano i problemi, non vanno in sezione: si limitano ad apparire in tivù, a concionare alla radio. Gettano parole sul mondo, come viene viene. Parole approssimative, rumorose, non pensate, non amate. Parole dove si sente che non alberga più un pizzico di passione ed esattezza.
Sì, perché anche la passione è esatta; anche l’amore esige impegno e precisione. Come scrivere bene, come indossare un bel vestito, cuocere il tempo giusto un dolce, come amare la persona a cui abbiamo promesso amore. Invece oggi, come ci infiliamo al volo gli zoccoli di plastica per scendere in strada, così una sera diciamo al nostro coniuge che basta, non lo amiamo più, e non sappiamo proprio cosa dirgli se non lo amiamo più: ce ne andiamo, lasciando dietro di noi i cocci sparsi di una casa, dei figli, dei parenti vecchi e malati. Cosa importa? Gira il vento e noi, anime libere e irresponsabili, seguiamo il vento. E il vento ci porterà via, e non resterà nulla di noi. Sciatterie del sentimento.
Dovremmo smetterla. Dovremmo scrivere un manifesto dell’Antisciatto. Senza tante pretese, con un’unica regola: l’umiltà di fare bene quel poco o tanto che sappiamo fare, con il pensiero però che quel nostro umile fare, almeno un po’, concorrerà a migliorare il mondo.
3 commenti:
La forma è anche sostanza?
Come si fa a rispondere alla domanda di Carolina?
Troppo spesso la forma non è sostanza, credo.
Troppo spesso la sostanza è nascosta da un'assenza, o una sottovalutazione, della forma.
L'equilibrio tra le due cose sarebbe il massimo...liberi sì nella forma, ma senza indulgere nella 'sciatteria' che potrebbe alla fine diventare una gabbia e condurre alla 'sciatteria dei sentimenti'.
Madda
Certamente per realizzarsi, una forma necessita di sostanza. La prima valorizza e impreziosisce l'altra: è sempre valido l'esempio della scultura che dà forma ad un blocco di marmo innalzandolo a livello di opera d'arte. Ha ragione Madda, da sola la sostanza non basta.
rossana
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