Luigi Morsello
Non hanno nessuna pretesa le riflessioni che seguono se non quella di portare un contributo, da parte di chi ha maturato un’esperienza di 40 anni di lavoro nelle carceri italiane in qualità di direttore, mai di dirigente.
Nel 1957 era il vigore lo Statuto degli impiegati civili dello Stato, di cui al d.P.R. 10 gennaio n. 3.
Si trattò di uno sforzo poderoso di riassetto della miriade di leggi e leggine che fino allora avevano frammentato la condizione giuridica del lavoro dipendente pubblico; il legislatore dell’epoca sapeva legiferare.
Si potrebbe obbiettare che era un’altra epoca storica (storica ? siamo nel 1957, non nel 1857 !), un altro ritmo di vita, la società non correva (e con lei forze politiche oggi incapaci di guidarla ed indirizzarla per il bene comune, non di un singolo soggetto – si chiama privilegio !), il legislatore, oltre ad essere enormemente più competente dell’attuale e negli ultimi quattro lustri, aveva più obbiettivamente tempo per legiferare degnamente.
Fatto sta che questo codice del pubblico impiego disciplinò razionalmente la materia, secondo un modello verticistico, per carriere, preesistente, dividendo il lavoro dipendente pubblico in quattro carriere o gruppi:
1) Gruppo A: la carriera direttiva, che si concludeva con l’accesso al grado di ispettore generale, dopo aver superato lo sbarramento di esami di idoneità, concorsi speciali per esami, promozioni per merito distinto; il grado iniziale era consigliere di 3^ classe, quindi di 2^ e di 1^, poi unificati in un ruolo unico; gli altri gradi erano: direttore di sezione, direttore di divisione ed il finale quello già detto; nelle altre amministrazioni era previsto il grado di direttore generale, per decenni appannaggio della magistratura nell’amministrazione penitenziaria;
2) Gruppo B: la carriera di concetto iniziava con l’accesso a vice segretario e culminava col grado di segretario capo;
3) Gruppo C: la carriera esecutiva iniziava con la nomina ad applicato aggiunto e culminava col grado di archivista capo (alcune amministrazioni prevedevano anche un grado superiore);
4) Carriera del personale ausiliario: iniziavano col grado di ausiliare e culminavano con quello di commesso capo; per i ruoli tecnici era previsti due gradi: agente tecnico, agente tecnico capo.
Poi vi erano disposizioni speciali per vari Ministeri e per l’Amministrazione centrale. In buona sostanza un codice armonico, lungo, minuzioso, dettagliato. Furono introdotte modifiche varie, ma fino al 1972 l’impianto del codice funzionava, anche bene.
Nel 1972 iniziarono le modifiche, che io giudico nefaste, esiziali per il buon funzionamento del pubblico impiego.
Fu varato il d.P.R. 30 giugno 1972 n. 748 ed iniziarono i disastri.
Si trattò della introduzione nel campo del lavoro dipendente pubblico di questa ‘dirompente’ novità: il ruolo dirigenziale !
Venne presentato come una norma salvifica, della qualità e della produzione lavorativa che languiva.
Insomma, l’autorità politica, non volendo o non sapendo (propendo per entrambe), come contrastare iniziali forme di assenteismo e di 'lavativismo' (che è sempre esistito) anziché punire i lavativi di ogni ordine e grado, ivi compresa l’Autorità politica al governo (li vedete voi i politici che puniscono sé stessi ?), tirò fuori il primo di una serie infinita di ‘toccasana’.
Questo complesso normativo inventava i ruoli dirigenziali, con la previsione di tre gradini, e cioè, dal basso verso l'alto:
1) primo dirigente;
2) dirigente superiore;
3) dirigente generale,
ed ecco fatto, con un tocco di bacchetta magica, tutto iniziò a funzionare a meraviglia.
Ma quando mai !
Fu introdotto nel complesso normativo un articolo, un codicillo, anch’esso salutato come salvifico e che avrebbe dovuto produrre lo svecchiamento dei vertici dell’epoca del pubblico impiego: l’art. 67 (esodo volontario): l’inizio di una nuova era, il grido di battaglia, “Largo ai giovani !”
Riproduco il solo comma 1:
“Ai dirigenti ed al restante personale delle carriere direttive i quali chiedano, entro il 30 giugno 1973, il collocamento a riposo anticipato sono attribuiti:
a) un aumento di servizio di sette anni sia ai fini del compimento dell'anzianità necessaria per conseguire il diritto a pensione sia ai fini della liquidazione della pensione o dell'indennità una volta tanto; agli stessi effetti l'aumento di servizio è di dieci anni per le donne con prole di età inferiore ai quattordici anni;
b) un aumento di servizio pari al doppio del periodo occorrente per il raggiungimento del limite massimo di età per il collocamento a riposo, e comunque per non oltre sette anni, ai fini della liquidazione dell'indennità di buonuscita;
c) la qualifica immediatamente superiore a quella posseduta o, se l'interessato ne faccia domanda o rivesta la qualifica terminale della propria carriera, cinque aumenti periodici di stipendio, in aggiunta a quelli in godimento, ai fini della liquidazione della pensione, o della indennità una volta tanto, e dell'indennità di buonuscita.”
Mi sembra chiaro il ricatto.
Se tu, pubblico dipendente di una certa età, te ne vai in pensione ti regaliamo:
*sette anni (dieci per le donne con figli con meno di 14 anni di età) di maggiore anzianità, sia ai fini della liquidazione della pensione o dell’indennità sostituiva, sia della buonuscita,
**la qualifica immediatamente superiore a quella posseduta, in alternativa e a domanda, cinque aumenti periodici (biennali) di stipendio in aumento a quelli posseduti e per gli impiegati che possedevano già la qualifica terminale (ispettore generale), sia ai fini pensionistici che della buonuscita.
Nell’amministrazione penitenziaria c’erano solo 12 ispettori generali (divenuti dirigenti superiori), dopo il 30 giugno 1973 ne restarono solo due, uno senza figli e l’altro con otto figlie femmine.
Un disastro !
Ci sono voluti 30 anni per rimediarvi, con molta difficoltà e non altrettanto bene.
Si era frantumato il ricambio generazionale e il rapporto fra generazioni, in cui le precedenti insegnavano alle nuove.
Ora non accade più: nessuno insegna a nessuno, anche perché nessuno ha granché da insegnare.
Ma non è finita qui, e non solo in tema di dirigenza.
Le porcherie perpetrate sono innumerevoli.
L’11 luglio 1980 il legislatore decide di approvare la legge n. 312, contenente il nuovo assetto retributivo – funzionale del personale civile e militare dello Stato.
Come al solito, il legislatore decide che … basta con la inefficienza del pubblico impiego, escogita dunque un’altra bella pensata: modifichiamo di nuovo la struttura del pubblico impiego e questa volta andiamo oltre l’istituzione (del tutto inutile, se non far prendere più soldi ai già privilegiati di prima) della dirigenza amministrativa.
Risultato: sostituisce l’organizzazione per carriere con i livelli retributivo- funzionali.
Roba da restare tramortiti dallo stupore !
Siccome l’organizzazione per carriere non funziona (rectius: non gliene frega niente a nessuno di farla funzionare) modifichiamo e pungoliamo, incentiviamo i pubblici dipendenti con livelli di retribuzione collegati con le funzioni da essi disimpegnate.
Il personale viene inquadrato in otto qualifiche funzionali, poi aumentate a nove dopo qualche anno, dalla base verso i vertici: dalla prima alla ottava qualifica, e poi alla nona.
Prevediamo, pensa il legislatore, per ogni qualifica funzionale vari profili professionali e colleghiamoli con i lavoratori dipendenti delle qualifiche individuate, dalla prima all’ottava e poi, lo ripeto, alla nona.
La struttura del pubblico impiegato per carriere è cancellata a favore di un inquadramento orizzontale.
È prevista la ‘mobilità’ (entra in scena questo sostantivo miracolistico) verticale e quella orizzontale. I pubblici dipendenti possono emigrare verso altre qualifiche del medesimo livello o verticalizzare la propria attività verso un livello retributivo superiore: geniale !
Poi iniziano le solite complicatissime norme di primo inquadramento del personale facente parte delle ex carriere, ma occorre anche elaborare i profili professionali, compito affidato ad ogni Ministero.
Il compito, che si era previsto dovesse svolgersi entro 12 mesi dalla data di promulgazione della 312/1980, sarà completato solo il d.P.R. n. 1219 del 1984.
Dunque, tre anni e mezzo dopo.
Ma non era ancora finita lì, occorreva che una Commissione paritetica determinasse la corrispondenza tra qualifiche precedenti e nuovi profili professionali, compito che veniva consegnato il 28 settembre 1998.
Ovviamente, la lista di attesa era lunga, ai pubblici dipendenti competeva il diritto ai conguagli, con interesse legale e rivalutazione monetaria, per il maturato economico dei cinque anni precedenti tale data, oltre i quali scattava la prescrizione quinquennale dei diritti.
La matassa si ingarbugliava sempre più.
Non passano altri cinque anni ed eccoti l’ennesimo lampo di genio: siccome l’impiego dipendente pubblico continua, ostinatamente, a non funzionare, privatizziamolo, introduciamo la disciplina privatistica nel lavoro dipendente (ex) pubblico (sindacati compresi), così ogni cosa va a posto.
Ma come non averci pensato prima !
Eccoci al decreto legislativo 29 febbraio 1993 n. 29: il gioco è fatto.
Restano nell’alveo della disciplina pubblicistica del lavoro dipendente dello Stato solo:
1) i magistrati,
2) gli avvocati ed i procuratori dello Stato,
3) il personale militare e delle forze di polizia,
4) il personale della carriera diplomatica e di quella prefettizia.
Tutto a posto ? Ma quando mai !
Occorre riesaminare, riassettare, revisionare, rivedere, perché le cose continuano a non andar bene e allora eccoti fuori dal cappello a cilindro del prestigiatore-legislatore il decreto legislativo 165 del 30 marzo 2001, con le solite esclusioni, questa volta è escluso anche il personale direttivo e dirigenziale dell’Amministrazione penitenziaria divenuto, anzi rientrato nella disciplina di diritto pubblico con la legge 154 del 27 luglio 2005, che fa scomparire i direttivi di vertice dall’Amministrazione penitenziaria: i C3 (non la pessima auto della Citroen) tutti dirigenti !
E non è ancora finita.
Chissà cosa si inventerà l’attuale Ministro della Funzione Pubblica.
La conclusione, amarissima, è una sola. La classe politica non sa nemmeno com’è fatto il lavoro dipendente pubblico, provengano da altre estrazioni, di partito, di arti e mestieri vari, di insegnamento universitario ed altro ancora, talvolta dal nulla.
Bravissimi tutti, per carità.
Ma nessuno sa com’è fatto il ‘travet’ !
L’inefficienza nel lavoro dipendente pubblico o ex pubblico è responsabilità primaria del potere politico, sub-primaria dei dirigenti e direttivi di vertice, nazionale, regionale e periferico in genere.
Diceva Totò, nei panni del tirchio barone Antonio Peletti nel film “47 morto che parla”: “E io pago ! E io pago !”.
Qui, in Italia, oggi invece nessuno paga, purtroppo.
Ed è una ennesima vera indecenza.
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