Il Rosso e Il Nero, settimanale di strategia.
Alessandro Fugnoli è strategist di Abaxbank, Banca d'Investimento del Gruppo Credem
Il velocipede risale all’età vittoriana. Aveva una ruota grande, su cui stava seduto il guidatore, e una ruota piccola che aveva solo funzione di equilibrio. L’uomo dell’età vittoriana pensava alla civiltà europea (con l’appendice americana) come la ruota grande del mondo che portava luce e civiltà alla ruota piccola dell’Asia e dell’Africa.
Questo velocipede mentale sopravvive oggi con segno rovesciato. L’uomo euroamericano caucasico porta sfruttamento guerra e male nel mondo, ma in questa sua funzione diabolica, da cui deve redimersi con il relativismo, si sente ancora la ruota grande, il protagonista.
Si sente traccia di questo assetto mentale anche sui mercati, tra gli economisti e anche tra i policy maker. Le borse hanno sopravvalutato la crisi degli anni 2000-2002 e hanno sottovalutato la ripresa globale iniziata in Occidente nel 2003 nei suoi primi due anni perché non hanno considerato la prepotente ripresa dell’Asia dopo il 1999. I modelli econometrici, in tutto quel periodo, continuavano a essere basati su Stati Uniti, Europa e Giappone. Il resto era come se non ci fosse.
Certo, negli ultimi anni è stato tutto un parlare di Cina, India ed emergenti, come nei salotti del Settecento era di gran moda il turchesco e la cineseria e si ascoltavano rapiti i gesuiti e gli ambasciatori che tornavano dalla Porta d’Oro o da ancora più lontano. Nell’agire concreto, però, l’autoreferenzialità, il pensarsi come la ruota grande e lo sbagliare di conseguenza i conti riaffiorano continuamente.
Intendiamoci. In dollari (e perfino in parità di potere d’acquisto) la ruota grande è ancora la nostra, anche se ogni giorno che passa il velocipede vittoriano assomiglia sempre di più a una bicicletta con le due ruote uguali. Questa però è la fotografia. La storia e l’economia si fanno però al margine. I flussi sono più importanti degli stock.
Prendiamo il petrolio e l’inflazione che genera. Poiché un americano consuma 25 barili all’anno, un europeo 15 e un cinese due, c’è l’idea che siccome noi della ruota grande cominciamo a consumare di meno e a usare l’utilitaria e non il Suv per andare a comprare le sigarette, allora è ovvio che il prezzo che sale non ha più senso e può essere spiegabile solo con gli speculatori con il cappello a cilindro che si incontrano di notte nei vicoli poco illuminati e si accordano con rapidi gesti silenziosi su quanto fare salire il greggio l’indomani.
Economisti eccellenti come Bob Barbera e David Rosenberg, che contro il consenso hanno visto giusto nel vedere grigio, continuano a ipotizzare (rinviandola continuamente) la caduta dell’ultima scarpa della crisi, ovvero il bear market delle materie prime, e su questo costruiscono uno scenario di inflazione che scende e Fed che taglia. Nel frattempo, però, il greggio continua a salire.
Ora, non c’è dubbio che il rialzo del greggio avrà interruzioni e ritracciamenti anche rilevanti, ma non va dimenticato che la diminuzione di domanda da noi è stata finora più che compensata da un aumento in Asia. La variazione di consumo di cinesi e indiani (i litri in più di benzina che usano) moltiplicati per il loro numero (gli asiatici sono il quintuplo di noi della ruota grande) sono di più dei litri in meno nostri.
L’ingrandirsi della ruota piccola, nel petrolio, non conta solo dal lato della domanda, ma anche da quello dell’offerta. Una volta l’Arabia Saudita si preoccupava, dopo le esperienze degli anni Settanta, di non eccedere con l’avidità e di aumentare la produzione per non mettere in ginocchio il suo unico cliente, l’Occidente. Oggi Arabia, Iran, Venezuela e Russia hanno due clienti, non uno. Il prezzo d’equilibrio non è più la soglia del dolore dell’Occidente mapuò salire ancora finché non raggiunge la soglia di dolore dell’Asia, che è più alta.
L’Asia è piena di dollari. Ogni giorno ne riceve un miliardo e mezzo nuovo, che si aggiunge ai due trilioni e passa (escludendo il trilione giapponese) che ha già in cassa e che non sa bene come investire o spendere. Perché non spenderne una parte accumulando riserve strategiche di greggio e un’altra parte continuando a sussidiare i consumi interni di prodotti petroliferi? Si lamenta il fatto che in Europa la benzina costa 11 dollari al gallone mentre in America ne costa solo 4, ma si dimentica che in tutta l’Asia continentale si va dai 2 ai 3 e che gli aumenti di questi mesi sono stati irrisori, tanto che i consumi continuano a crescere indisturbati.
In realtà ci dimentichiamo dell’Asia non solo sul petrolio, ma anche quando pensiamo alla strategia generale per prevenire un ritorno degli anni Settanta e dei loro orrori. Ci diciamo con tono compiaciuto che questa volta non ripeteremo l’errore monetario di quel periodo. Non adotteremo cioè una politica accomodante di fronte al petrolio che sale. Non aggiungeremo altra inflazione domestica a quella che ci tocca importare. E se occorre, accidenti, alzeremo i tassi, come farà Trichet questo giovedì.
In realtà, nella ruota piccola, i tassi li aumentano molto lentamente, per cui, almeno finora, sono saliti meno dell’inflazione. Inoltre, se anche dovesse venire meno l’accomodamento monetario, resta un imponente accomodamento fiscale sotto forma di fiscalizzazione del rialzo del greggio in tutta l’Asia continentale. In questo modo la distruzione di domanda di greggio dobbiamo prendercela tutta noi, perché in Asia che siamo a 143 dollari lo leggono sui giornali, ma non lo vedono alla pompa.
Un altro antipatico effetto rétro del petrolio è che fa esplodere i costi di trasporto delle merci, deglobalizza e riregionalizza il mondo, come era, per l’appunto, negli anni Settanta, quando la Cina viveva ancora il sonno della ragione dei postumi della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria.
Delocalizzare diventa ogni giorno meno vantaggioso non più solo per il cambio ma anche per i costi delle navi. Minore delocalizzazione uguale meno profitti o più inflazione per noi. Un altro piccolo passo verso la stagflazione. Di questi rischi crescenti è perfettamente cosciente il rapporto annuale appena uscito della Banca dei Regolamenti Internazionali. Detta così, la palpebra si fa subito pesante, ma la scrittura di Malcom Knight (che purtroppo lascia in questi giorni) è brillantissima e la lettura, che consigliamo a tutti, è avvincente.
L’anno scorso Knight aveva concluso il suo lavoro chiedendosi (senza darsi risposta) come era stato possibile avere tutti quanti tirato la corda così tanto senza spezzarla. E’ straordinario, diceva, essere cresciuti così tanto in modo così pazzamente squilibrato senza inflazione, senza crollo del dollaro, senza default su larga scala. E’ una cosa insostenibile, concludeva, siamo oltre il tempo limite da un pezzo, siamo sfacciatamente fortunati, godiamocela finché possiamo.
Quest’anno il messaggio è che quello che era insostenibile, per l’appunto, non è più stato sostenuto. Quella che si è aperta un anno fa è una fase lunga (molti anni), dolorosa, piena di incognite e con i rischi solo verso il basso. Butta lì perfino un paragone con la Grande Depressione del 1873-1896. Non esclude una caduta ulteriore del dollaro, una sistemazione faticosa e lunga della montagna di debiti che abbiamo creato, una scivolata pesante degli Stati Uniti. Teme l’inflazione, dà alla lotta per prevenirla priorità temporale rispetto alla lotta alla stagnazione. Invoca rialzi dei tassi da parte di chi può permetterselo e sicuramente, più che all’Europa, pensa all’Asia.La Bir è la banca delle banche centrali. Il rapporto è on line ma si esprime con la franchezza che può permettersi chi sa che verrà letto solo dai cultori della materia. Bernanke e Trichet devono pesare le virgole e i sospiri, Knight ci fa intravedere quello che pensano veramente. L’estate e l’autunno macro non si preannunciano entusiasmanti. I consumi tengono, ma non trainano la produzione, che mostra in America qualche segno di prossima fragilità ulteriore. Le borse non hanno molti appigli cui aggrapparsi. Un petrolio in correzione sarebbe ossigeno puro, ma al momento si va dall’altra parte. Si studiano misure per frenare la speculazione, come la limitazione dell’open interest (possibilità di chiudere le posizioni, ma non di aprirne di nuove). Una trovata che risale agli anni Settanta (c’è una coazione a ripetere davvero notevole). I repubblicani in questi giorni hanno rallentato il solare, i democratici bloccano nucleare e Alaska. Alcuni di loro propongono la nazionalizzazione di raffinerie e società petrolifere.Uno spiraglio piccolo viene dall’Iran. Come ha sempre fatto in questi anni, quando vede che i suoi interlocutori si arrabbiano si dichiara improvvisamente disponibile e possibilista. Questa volta la pazienza europea è vicina all’esurimento e i caccia israeliani fanno le prove generali, ma proprio per questo non è da escludere che venga fuori qualcosa di buono.
Il dollaro di nuovo debole non ci piace particolarmente. Non è questione di differenziale dei tassi, ma di rischi maggiori per l’economia americana rispetto alla nostra.
Questo velocipede mentale sopravvive oggi con segno rovesciato. L’uomo euroamericano caucasico porta sfruttamento guerra e male nel mondo, ma in questa sua funzione diabolica, da cui deve redimersi con il relativismo, si sente ancora la ruota grande, il protagonista.
Si sente traccia di questo assetto mentale anche sui mercati, tra gli economisti e anche tra i policy maker. Le borse hanno sopravvalutato la crisi degli anni 2000-2002 e hanno sottovalutato la ripresa globale iniziata in Occidente nel 2003 nei suoi primi due anni perché non hanno considerato la prepotente ripresa dell’Asia dopo il 1999. I modelli econometrici, in tutto quel periodo, continuavano a essere basati su Stati Uniti, Europa e Giappone. Il resto era come se non ci fosse.
Certo, negli ultimi anni è stato tutto un parlare di Cina, India ed emergenti, come nei salotti del Settecento era di gran moda il turchesco e la cineseria e si ascoltavano rapiti i gesuiti e gli ambasciatori che tornavano dalla Porta d’Oro o da ancora più lontano. Nell’agire concreto, però, l’autoreferenzialità, il pensarsi come la ruota grande e lo sbagliare di conseguenza i conti riaffiorano continuamente.
Intendiamoci. In dollari (e perfino in parità di potere d’acquisto) la ruota grande è ancora la nostra, anche se ogni giorno che passa il velocipede vittoriano assomiglia sempre di più a una bicicletta con le due ruote uguali. Questa però è la fotografia. La storia e l’economia si fanno però al margine. I flussi sono più importanti degli stock.
Prendiamo il petrolio e l’inflazione che genera. Poiché un americano consuma 25 barili all’anno, un europeo 15 e un cinese due, c’è l’idea che siccome noi della ruota grande cominciamo a consumare di meno e a usare l’utilitaria e non il Suv per andare a comprare le sigarette, allora è ovvio che il prezzo che sale non ha più senso e può essere spiegabile solo con gli speculatori con il cappello a cilindro che si incontrano di notte nei vicoli poco illuminati e si accordano con rapidi gesti silenziosi su quanto fare salire il greggio l’indomani.
Economisti eccellenti come Bob Barbera e David Rosenberg, che contro il consenso hanno visto giusto nel vedere grigio, continuano a ipotizzare (rinviandola continuamente) la caduta dell’ultima scarpa della crisi, ovvero il bear market delle materie prime, e su questo costruiscono uno scenario di inflazione che scende e Fed che taglia. Nel frattempo, però, il greggio continua a salire.
Ora, non c’è dubbio che il rialzo del greggio avrà interruzioni e ritracciamenti anche rilevanti, ma non va dimenticato che la diminuzione di domanda da noi è stata finora più che compensata da un aumento in Asia. La variazione di consumo di cinesi e indiani (i litri in più di benzina che usano) moltiplicati per il loro numero (gli asiatici sono il quintuplo di noi della ruota grande) sono di più dei litri in meno nostri.
L’ingrandirsi della ruota piccola, nel petrolio, non conta solo dal lato della domanda, ma anche da quello dell’offerta. Una volta l’Arabia Saudita si preoccupava, dopo le esperienze degli anni Settanta, di non eccedere con l’avidità e di aumentare la produzione per non mettere in ginocchio il suo unico cliente, l’Occidente. Oggi Arabia, Iran, Venezuela e Russia hanno due clienti, non uno. Il prezzo d’equilibrio non è più la soglia del dolore dell’Occidente mapuò salire ancora finché non raggiunge la soglia di dolore dell’Asia, che è più alta.
L’Asia è piena di dollari. Ogni giorno ne riceve un miliardo e mezzo nuovo, che si aggiunge ai due trilioni e passa (escludendo il trilione giapponese) che ha già in cassa e che non sa bene come investire o spendere. Perché non spenderne una parte accumulando riserve strategiche di greggio e un’altra parte continuando a sussidiare i consumi interni di prodotti petroliferi? Si lamenta il fatto che in Europa la benzina costa 11 dollari al gallone mentre in America ne costa solo 4, ma si dimentica che in tutta l’Asia continentale si va dai 2 ai 3 e che gli aumenti di questi mesi sono stati irrisori, tanto che i consumi continuano a crescere indisturbati.
In realtà ci dimentichiamo dell’Asia non solo sul petrolio, ma anche quando pensiamo alla strategia generale per prevenire un ritorno degli anni Settanta e dei loro orrori. Ci diciamo con tono compiaciuto che questa volta non ripeteremo l’errore monetario di quel periodo. Non adotteremo cioè una politica accomodante di fronte al petrolio che sale. Non aggiungeremo altra inflazione domestica a quella che ci tocca importare. E se occorre, accidenti, alzeremo i tassi, come farà Trichet questo giovedì.
In realtà, nella ruota piccola, i tassi li aumentano molto lentamente, per cui, almeno finora, sono saliti meno dell’inflazione. Inoltre, se anche dovesse venire meno l’accomodamento monetario, resta un imponente accomodamento fiscale sotto forma di fiscalizzazione del rialzo del greggio in tutta l’Asia continentale. In questo modo la distruzione di domanda di greggio dobbiamo prendercela tutta noi, perché in Asia che siamo a 143 dollari lo leggono sui giornali, ma non lo vedono alla pompa.
Un altro antipatico effetto rétro del petrolio è che fa esplodere i costi di trasporto delle merci, deglobalizza e riregionalizza il mondo, come era, per l’appunto, negli anni Settanta, quando la Cina viveva ancora il sonno della ragione dei postumi della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria.
Delocalizzare diventa ogni giorno meno vantaggioso non più solo per il cambio ma anche per i costi delle navi. Minore delocalizzazione uguale meno profitti o più inflazione per noi. Un altro piccolo passo verso la stagflazione. Di questi rischi crescenti è perfettamente cosciente il rapporto annuale appena uscito della Banca dei Regolamenti Internazionali. Detta così, la palpebra si fa subito pesante, ma la scrittura di Malcom Knight (che purtroppo lascia in questi giorni) è brillantissima e la lettura, che consigliamo a tutti, è avvincente.
L’anno scorso Knight aveva concluso il suo lavoro chiedendosi (senza darsi risposta) come era stato possibile avere tutti quanti tirato la corda così tanto senza spezzarla. E’ straordinario, diceva, essere cresciuti così tanto in modo così pazzamente squilibrato senza inflazione, senza crollo del dollaro, senza default su larga scala. E’ una cosa insostenibile, concludeva, siamo oltre il tempo limite da un pezzo, siamo sfacciatamente fortunati, godiamocela finché possiamo.
Quest’anno il messaggio è che quello che era insostenibile, per l’appunto, non è più stato sostenuto. Quella che si è aperta un anno fa è una fase lunga (molti anni), dolorosa, piena di incognite e con i rischi solo verso il basso. Butta lì perfino un paragone con la Grande Depressione del 1873-1896. Non esclude una caduta ulteriore del dollaro, una sistemazione faticosa e lunga della montagna di debiti che abbiamo creato, una scivolata pesante degli Stati Uniti. Teme l’inflazione, dà alla lotta per prevenirla priorità temporale rispetto alla lotta alla stagnazione. Invoca rialzi dei tassi da parte di chi può permetterselo e sicuramente, più che all’Europa, pensa all’Asia.La Bir è la banca delle banche centrali. Il rapporto è on line ma si esprime con la franchezza che può permettersi chi sa che verrà letto solo dai cultori della materia. Bernanke e Trichet devono pesare le virgole e i sospiri, Knight ci fa intravedere quello che pensano veramente. L’estate e l’autunno macro non si preannunciano entusiasmanti. I consumi tengono, ma non trainano la produzione, che mostra in America qualche segno di prossima fragilità ulteriore. Le borse non hanno molti appigli cui aggrapparsi. Un petrolio in correzione sarebbe ossigeno puro, ma al momento si va dall’altra parte. Si studiano misure per frenare la speculazione, come la limitazione dell’open interest (possibilità di chiudere le posizioni, ma non di aprirne di nuove). Una trovata che risale agli anni Settanta (c’è una coazione a ripetere davvero notevole). I repubblicani in questi giorni hanno rallentato il solare, i democratici bloccano nucleare e Alaska. Alcuni di loro propongono la nazionalizzazione di raffinerie e società petrolifere.Uno spiraglio piccolo viene dall’Iran. Come ha sempre fatto in questi anni, quando vede che i suoi interlocutori si arrabbiano si dichiara improvvisamente disponibile e possibilista. Questa volta la pazienza europea è vicina all’esurimento e i caccia israeliani fanno le prove generali, ma proprio per questo non è da escludere che venga fuori qualcosa di buono.
Il dollaro di nuovo debole non ci piace particolarmente. Non è questione di differenziale dei tassi, ma di rischi maggiori per l’economia americana rispetto alla nostra.
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