Giancarlo Caselli
Procuratore generale a Torino
La Stampa
La giustizia italiana è un malato grave, ma invece di mettere in campo robuste azioni positive si preferisce parlar d’altro. Si dovrebbe spendere di più e meglio. Le risorse dovrebbero esser distribuite più razionalmente. Sistemi processuali farraginosi e complessi, al limite dell’incredibile, dovrebbero essere finalmente snelliti. Le impugnazioni dovrebbero essere decisamente ridotte, come in tutti i Paesi europei. Ma di azioni positive non se ne vedono. Domina invece il paradosso dell’inefficienza efficiente. Se la giustizia non funziona non si faccia un bel niente per farla funzionare meglio. La si lasci soffrire: che le cose peggiorino sempre più, fino alla catastrofe. Perché sempre più inefficienza significa sempre meno credibilità della magistratura. E quando - alla fine della storia - se ne aggredirà l’indipendenza, i magistrati (questo cancro!) si ritroveranno assolutamente soli. Nessun cittadino che non sia pazzo si mobiliterà per chi non sa rendere il servizio per cui è pagato coi soldi pubblici (non a caso l’indice di gradimento della magistratura registra crescenti flessioni… e c’è qualcuno che si stupisce). Ecco dunque l’inefficienza efficiente. Funzionale cioè a un disegno che mira (mortificando la magistratura) a ridurre se non impedire i controlli che si indirizzino verso determinati interessi. Spietati verso gli altri (tolleranza zero…), ma indulgenti verso se stessi: è la regola di chi, in Italia, va cercando in ogni modo impunità.
In questo quadro, anche l’incredibile diventa possibile: rovistando nelle pieghe della manovra finanziaria si scoprono tagli consistenti alle spese di giustizia e ulteriori riduzioni negli organici (già pesantemente sofferenti) di segretari e cancellieri. Colpi da ko, letteralmente, per una giustizia che già barcolla. Con buona pace per la tutela dei diritti dei cittadini (a partire dalla sicurezza). Ma con la prospettiva di ripartire dalle macerie - se non proprio volute, quanto meno «volentieri» non impedite - per edificare una casa nuova: riformando il Csm, cancellando l’obbligatorietà dell’azione penale, introducendo quella separazione delle carriere che avrà come interfaccia - inevitabilmente - la dipendenza dei pm dal governo. Così i giochi (con la ciliegina della riesumazione dell’immunità parlamentare dopo il lodo) saranno fatti: e quei rompiscatole di magistrati se ne staranno finalmente buoni nel recinto tracciato dalla politica. Una politica al riparo dai controlli e quindi non più costretta a proclamare rispetto per la legalità, laddove è l’orticaria per le regole che la fa (in verità trasversalmente) da padrona.
Strutturali - rispetto alla strategia della inefficienza efficiente - sono le martellanti campagne tese ad avvalorare l’esistenza di atteggiamenti giustizialisti o peggio di una persecuzione giudiziaria nei confronti di questo o quel personaggio «eccellente». Tali campagne hanno l’effetto di erodere in radice la credibilità della giustizia. Se lo dicono «loro», con il peso che deriva dalle prestigiose cariche ricoperte, ogni cittadino soccombente in una causa civile o condannato in un processo penale la penserà allo stesso modo. Un momentaccio, per la magistratura. Alessandro Galante Garrone ha scritto che «a volte non basta, per un giudice, essere onesto e professionalmente preparato; in certe situazioni storiche, per poter ricercare e affermare la verità, con onestà intellettuale, bisogna essere combattivi e coraggiosi». Che oggi vi sia una situazione di questo tipo lo teme Federico Orlando, quando scrive (Europa - 16.7.08) che per la «casta» dei magistrati non c’è «bisogno di suggerimenti, perché la casta si autosuggerisce», magari vedendo che certi difensori sono «diventati nuovamente ministri o addirittura alte cariche protette da scudi». Per cui in certi casi «(la casta) si autolimita».
Ho ancora sincera fiducia nella forte tenuta della magistratura, ma sarebbe sbagliato nascondere la rilevanza del tema posto da Orlando. Che gira e rigira è il problema della linea di confine fra attacco e intimidazione. Con il corollario di alcuni interrogativi ineludibili. È giusto gettare pregiudizialmente fango su un magistrato sol perché indaga o eventualmente condanna - per fatti specifici, non certo per il suo «status» - un personaggio pubblico? Giustizia giusta è solo quella che assolve? Ragionando in questo modo, non si sovvertono le regole fondamentali della giustizia? Non si incide sulla serenità dei giudizi? La posta in gioco è evidente. Riguarda la Costituzione repubblicana, il rischio che essa stia subendo - nelle prassi se non nelle forme - curvature negative sul piano di alcuni principi fondamentali. Un pessimo viatico per le preannunziate riforme d’autunno, nel senso che se il buon giorno si vede dal mattino saranno riforme non della giustizia ma dei giudici, la cui «efficienza» sempre più sarà misurata sulla capacità di conformarsi agli orientamenti del governo.
PS. Agli ipocriti che bollano l’indipendenza della magistratura come privilegio di una casta irresponsabile, è facile replicare che senza indipendenza della magistratura non si può neppur concepire una giustizia giusta, almeno tendenzialmente uguale per tutti. Se non c’è indipendenza, inevitabilmente qualcuno potrà indicare ai magistrati chi favorire e chi invece maltrattare. Ecco perché l’indipendenza della magistratura è un privilegio, sì: ma dei cittadini che vogliano continuare ad essere uguali.
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