giovedì 3 luglio 2008

Metamorfosi della democrazia


Giuseppe D'Avanzo
La Repubblica
2 luglio 2008

GLI OSSERVATORI raccontano un vivamaria che trasfigura la crisi italiana in commedia. Soliti attori. Canovaccio arcinoto. Vi appaiono pubblici ministeri; giudici; due processi; condotte border line; conversazioni licenziose (aumentano l'audience).
L'imputato Silvio Berlusconi veste i panni dell'agnello sacrificale (o del satanasso) di un corpo togato ostinatissimo a non cedere il suo potere (per alcuni abusivo, per altri benedetto). Come se la crisi italiana fosse immutabile e si potesse soltanto esplorare - oggi, come tre lustri fa - lungo la faglia che separa la politica e la magistratura; il potere sovrano dall'ordine giudiziario. Appendice abituale: il mondo diventa bianco o nero, si divide in "giustizialisti" e "garantisti", in "buoni" e "cattivi" (categorie trasmutabili). Fosse così, le lune non sarebbero poi così nere: è il passato che non passa. Questo teatro di maschere non rappresenta però la radicalità delle mutazioni che cova la crisi italiana.
Berlusconi è il solito lupo dallo stomaco forte, è vero. Lavora pro se. Chiede immunità (al solito). A meno di cataclismi o errori grossolani, la otterrà presto. Se il suo problema fosse soltanto l'impunità, spento l'appetito, dovrebbe fermarsi. Tirerà diritto, invece. Governa tra le macerie e il campo è deserto. Ne è consapevole (e appagato, quale sovrano non lo sarebbe?). Si gode gli utili di una società che ha trasformato il cittadino in consumatore, i diritti in desiderio di benessere (da noi, ha contribuito a inventarla).
È favorito dal fallimento del progetto (democratico-capitalistico) di eliminare, attraverso lo sviluppo, le classi povere. Osserva la fine del "progressismo" come conciliazione di capitale e lavoro; democrazia e populismo; cultura e televisione; cattiva coscienza e abiura della memoria. Scruta con compiacimento l'eclissi della politica, subalterna all'economia e perfino alla religione. Prende atto della morte del linguaggio stesso della politica: formule come popolo, nazione, democrazia, Costituzione che cosa significano oggi? Indicano, al più, realtà ormai lontane dai concetti che designavano un tempo. Deve fare i conti con il declino di uno Stato che, dagli anni Settanta, per troppo tempo dunque, ha recuperato in legalità - con un'iperfetazione di leggi, norme, obblighi, istanze di punizione che hanno rinvigorito il potere togato - quel che andava perdendo in legittimità.
Il sovrano sa che - alle viste - non c'è alcuno (partito, istituzione, élite, opinione pubblica) che dia espressione e senso a questo deficit politico e culturale, attualissimo. Il Pd, se è nato, è ancora in fasce, privo di linguaggio e quindi di pensiero: si balocca, in mancanza d'altro, con totem inattuali (un "dialogo" che non c'è). Casini, residuale, non riesce a declinare, dall'opposizione, la sua grammatica della moderazione. Di Pietro, sostenuto dalle "agenzie del risentimento", si colloca tra i suoi migliori alleati con un letale "tanto peggio, tanto meglio". La sinistra radicale, suicidatasi, fatica a rinascere. Cala il capo l'establishment, incerto del suo stesso destino (non c'è posto per tutti sul carro: in tempi di stagnazione, qualcuno morirà). La società appare ammutolita in una zona opaca di indifferenza, confusa dal rumore dei media.
È davvero una "crisi" che si può rappresentare nel conflitto - "novecentesco" e nazionale - di politica e magistratura? È, al contrario, il paradigma di una compiuta modernità. Pare che soltanto Berlusconi ne sia consapevole, forse per istinto di predone, forse per chiaroveggenza di mago. Dichiara lo Stato un guscio vuoto. Ne recupera la pura struttura di sovranità e dominio. Chiede di esercitarla senza limiti, in nome del "potere costituente del popolo", con una "decisione" che lascia indistinto il diritto e l'arbitrio, il lecito e l'illecito, l'umano e l'inumano, l'eccezione e la regola.
È una tecnica di governo che gli permette (è cronaca) di inaugurare un "diritto della diseguaglianza"; di organizzare "campi di identificazione" al di fuori di ogni garanzia carceraria; di raccogliere le impronte di un'etnia; di trasformare i soldati in poliziotti; presto di smontare gli istituti dello stato sociale che reggono il patto costituzionale. In soldoni, di separare la legge da ogni principio costituzionale, il giudizio da ogni possibile contenuto etico. Quel che abbiamo di fronte allora non sono le "naturali" e prevedibili tensioni interne di una democrazia che fatica a trarsi fuori da una troppo lunga transizione. È, piaccia o meno, la metamorfosi di una democrazia. Bisogna comprenderla, immaginarne gli esiti e le ragioni, prima di liquidarla con qualche pittura pigra o stereotipo antico.
Occorre soprattutto prendere atto che oggi il Paese fa i conti con quell'unico progetto. L'obiettivo primario e dichiarato di Berlusconi (anche i distratti lo vedono, se sono in buona fede) è la riduzione di poteri plurali e diffusi a vantaggio di una forma politico-istituzionale accentrata nella sua figura di premier e nel ruolo di garanzia del presidente della Repubblica.
Berlusconi si muove "in parallelo" alla Costituzione (sospensione dei processi, lodo Alfano, detenzioni senza reato, discriminazione etniche), lungo un percorso "duale" che pretende "ordinario". Bypassa la Carta, ma senza riformarla. Intende contrattare di volta in volta le sue decisioni non nel quadro politico dove competono le forze sociali e politiche, ma in un rapporto diretto (e minaccioso) con chi - di quei principi - è custode (Napolitano). Anche così si deve raccontare la "battaglia" del Csm, come è stata definita. Il botta e risposta, che ne è seguito, tra Quirinale e Palazzo Chigi. Anche in questo caso, siamo nell'officina di una metamorfosi.
Non c'è alcun dubbio che il Consiglio possa offrire al ministro di giustizia un parere sul prevedibile pandemonio provocato dalla sospensione dei processi. "È materia organicamente sua" (Cordero) offrire indirizzi, proposte, avvisi (anche non richiesti) alla discrezionalità del Guardasigilli. Napolitano lo ricorda ("Non può suscitare sorpresa o scandalo che il Csm formuli un parere"). Vuole raffreddare il clima: "Non può esservi dubbio od equivoco sul fatto che al Csm non spetti in alcun modo un vaglio di costituzionalità".
Ma in ballo non è "il parere" in quanto tale, è il suo peso politico-istituzionale, è il sostegno (indiretto) che può offrire a chi avrà l'obbligo di pesarne presto la coerenza con i principi. Non c'è che dire, il terreno di scontro è ben scelto da Berlusconi. Il Csm, tra gli organi costituzionali (o a rilevanza costituzionale), è il più ambiguo: "potere dello Stato" e insieme "organo di amministrazione".
Incompetente a esprimere - direttamente o indirettamente - la sovranità nazionale eppure legittimato a concorrere con le sue proposte alla formazione dell'indirizzo politico. Nella sua autonomia, protetto da divieti preventivi imposti da altri poteri (li pretendevano Schifani e Fini), ma stretto in confini costituzionali che gli impediscono interventi che interferiscono con le altrui prerogative (lo rammenta il capo dello Stato). È quest'ambiguità che consente a Berlusconi di protestare come illegittima ogni parola sui rischi di norme che possono contrastare con la prima legge dello Stato, dimentico che "l'organizzazione giudiziaria è intessuta della concretezza dei principi costituzionali" (è impossibile discutere di quella, senza interpellare gli altri).
L'offensiva del premier, alla fin fine, non indebolisce la discrezionalità del Consiglio nell'esercizio delle sue attribuzioni. Esclude dal "dialogo" istituzionale il Parlamento, già consegnatosi all'impotenza, e un ministro designato al servizio del sovrano e non della giustizia. Libera il campo per quel "confronto a due" a cui Berlusconi chiede protezione per i suoi passi storti. Diventa come un "memento" al capo dello Stato, che avrebbe potuto farsi scudo anche del parere del Consiglio.
Se, come dice, trasformerà in provvedimento con forza di legge il divieto di intercettazioni (il capo dello Stato ne ha già escluso l'urgenza), Berlusconi pare già pronto alla mischia. Presenza solitaria nella debolezza dei poteri dello Stato, Napolitano è destinato presto a diventare il punto di attrito e di resistenza alle pressioni del premier nella costruzione della Terza Repubblica, modernissima e inquietante creatura.

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