Di Joachim Marschall
Anche se il concetto di intelligenza sociale è nato quasi un secolo fa, psicologi e neurologi non sono ancora in grado di spiegare le caratteristiche che permettono ad alcune persone di tessere relazioni più facilmente di altre. Ma forse finalmente siamo un po' più vicini a svelarne i segreti.
Nel 1995 Daniel Goleman diffuse in tutto il mondo l'idea di «intelligenza emotiva». Nel 2006, con il suo ultimo libro, ha reso di pubblico dominio un altro concetto: quello di «intelligenza sociale». Secondo lo psicologo californiano, mentre per intelligenza emotiva si intende soprattutto la capacità di essere consapevoli dei propri sentimenti e di comportarsi in modo coerente con essi, l'intelligenza sociale entra in gioco ogni volta che si incontrano due o più persone. Goleman non è però riuscito a fornire una definizione più precisa del significato di comportamento «socialmente intelligente», come del resto era accaduto ad altri psicologi prima di lui.
I primi passi in quella direzione li aveva compiuti già nel 1922 un altro psicologo statunitense, Edward Lee Thorndike, secondo il quale l'intelligenza sociale consisteva nella «capacità di comprendere gli altri, di saperli affrontare e di comportarsi in modo saggio nelle relazioni»: una caratterizzazione generale che, pur segnando l'atto di nascita del concetto, lasciava del tutto aperto il problema di indicare in che cosa si riflettesse esattamente l'intelligenza sociale, e di come, e se, si potesse misurarla. È questo un requisito indispensabile quando si vuole confrontare la manifestazione di un qualsiasi tratto significativo in più soggetti. Inoltre, come si fa a insegnare questa importante capacità se è impossibile descriverla con precisione? Insomma, senza riferimenti misurabili non può esserci ricerca sull'intelligenza sociale.
Genetica e malattia mentale
Di Edmund S. Higgins
Le esperienze della vita possono modificare la parte di patrimonio genetico che controlla l'attività del nostro cervello: fino al punto di farci ammalare.
Nel corso della storia del genere umano, sciamani, preti e medici hanno cercato di capire che cosa va storto quando una persona cede alla tristezza, alla pazzia o alla psicosi. Le diverse teorie hanno di volta in volta dato la colpa delle malattie mentali a uno squilibrio dei fluidi corporei, ai moti dei pianeti, a conflitti mentali inconsci, a esperienze negative. Oggi molti ricercatori ritengono invece che i disturbi psichiatrici nascano in larga misura dalla costituzione genetica delle persone.
In effetti i geni sono le istruzioni per costruire le proteine che controllano il cervello. Ma non è possibile che sia solo una questione genetica: non sempre i gemelli identici, che hanno praticamente lo stesso DNA, sviluppano gli stessi disturbi mentali. Per esempio, se uno dei due diventa schizofrenico, l'altro ha soltanto una probabilità del 50 per cento di soffrire della stessa malattia. In realtà, un gran numero di dati suggerisce che le malattie psichiatriche sono causate da una complessa interazione tra l'ambiente e alcuni specifici geni. Solo di recente però gli scienziati hanno iniziato a capire come l'ambiente influenza il cervello fino a produrre cambiamenti di ordine psicologico.Grazie a una nuova concezione della malattia mentale, i ricercatori stanno scoprendo che le esperienze vissute nel corso della vita possono letteralmente «cambiare la testa» di una persona, aggiungendo una specie di patina chimica al DNA che controlla le funzioni del cervello. Questo processo però non altera la sequenza di DNA usata dalle cellule per sintetizzare le proteine, la cosiddetta «sequenza codificante». Un'esperienza traumatica, l'abuso di stupefacenti, la mancanza d'affetto, possono agire in modo che certe molecole si leghino al DNA di un individuo. Ma senza andare a toccare ciò che costituisce l'essenza di un gene, cioè la sua sequenza codificante.
Professione cliente
Di Paola Emilia Cicerone
Viaggio nel lato oscuro della sessualità maschile, di chi paga per avere sesso con motivazioni che vanno dalla solitudine al disimpegno affettivo. Perché pagare per fare sesso? «Perché è più semplice». Una risposta reale e probabilmente sincera. Che non esaurisce, ma avvia il dibattito sui clienti di quello che si definisce il mestiere più antico del mondo. Meno studiati delle prostitute, sulle quali psicologi e criminologi hanno speso fiumi di inchiostro, eppure fondamentali per capire il fenomeno. E forse anche per sapere qualcosa in più sull'atteggiamento maschile nei confronti del sesso.
Avere dati certi sul fenomeno non è facile, a cominciare dai numeri. La cifra più citata, 9 milioni di clienti, risalirebbe a una stima realizzata nel 1996 dall'Università di Firenze, «e molto probabilmente si riferisce al numero di prestazioni», spiega Andrea Cauduro, criminologo e ricercatore di Transcrime, il Centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità transnazionale dell'Università di Trento e dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Secondo dati europei, a far ricorso alla prostituzione sarebbe il 10 per cento circa della popolazione, mentre in Italia ci sarebbero almeno 70.000 prostitute, tra italiane e (soprattutto) straniere.
Il condizionale è d'obbligo, data la difficoltà di censire un fenomeno variegato e in buona parte clandestino. Che accorpa situazioni e clientele diverse: quelli che ricorrono alle escort, termine usato in passato per definire accompagnatrici di lusso, che oggi spesso indica semplicemente le ragazze che si prostituiscono in appartamento (più propriamente loft girl) e usando il Web. E i clienti delle «stradali» - le prostitute che lavorano sul marciapiede e spesso sono anche «trafficate», ossia straniere, a volte minorenni, entrate nel paese illegalmente e costrette alla prostituzione - oppure dei trans. Soggetti che si rivolgono a pubblici diversi, con esigenze e disponibilità diverse, dato che si va dai 15-20 euro di un rapido incontro in strada ai 300 euro all'ora e più delle escort di nome, di cui si trovano vere e proprie recensioni nei siti specializzati.
(27 luglio 2008)
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