sabato 1 novembre 2008

LA CASA di RECLUSIONE di SAN GIMIGNANO

di Luigi Morsello

TRE


In seguito, anni dopo, mi è accaduto spesso di confrontarmi o dovermi confrontare con situazioni più disperanti, ma avevo più esperienza e qualche competenza in più.
Invece, a San Gimignano la situazione dei servizi era a dir poco di tipo ottocentesco. Ciò che cadeva sotto la mia osservazione non riuscivo a capire se fosse legittimo e fino a qual punto.
Insomma, mi chiedevo, è legittimo che la segreteria del personale e la matricola detenuti fossero nelle mani di un brigadiere e di un detenuto ?
Legittimo o no, era la realtà. Non solo, nello stesso stanzone c’era anche un altro detenuto, addetto all’ufficio contabile.
Andiamo con ordine. Per far posto alla direzione, traslocata temporaneamente dalla sua sede naturale, erano state svuotate uno stanzone, in fondo al quale c’erano due stanzette, una era l’ufficio del direttore, l’altra del contabile di cassa e del materiale, lo stanzone ospitava gli uffici di segreteria agenti e della contabilità del materiale.
Un unico brigadiere, Biagioni Mario, si occupava di entrambi ed era coadiuvato da un detenuto, Pagni Gino, che era la vera mente degli uffici, condannato per omicidio e tentato omicidio, un uomo intelligentissimo e perciò stesso assolutamente fidato. Era lui a sbrogliare le posizioni giuridiche complesse, a scrivere lettere di una certa difficoltà. Non che il brigadiere fosse uno stupido, anzi, ma Pagni aveva una istruzione di livello universitario, rimesso in libertà conseguiva la laurea in giurisprudenza ma si occupava di logopedia, coautore di due libri sull’argomento del 1998 e del 2000 de di una apprezzata monografia, "Gli Ughi", prefazione di Piero Bargellini, 1979, Officine grafiche Canessa, Rapallo.
La contabilità del materiale (croce e delizia di ogni carcere e non solo) era nella mani di Gritti Lorenzo, bresciano, considerato a ragione il vero contabile del materiale, ma era un detenuto anch’egli, anch’egli responsabile di un omicidio a scopo di rapina.
Mentre Pagni era un uomo robusto e sanguigno, Gritti era magro, segaligno, sempre pallido, si muoveva a scatti, interagiva poco con la realtà del carcere.
Il contabile era romano, non un cattivo ragazzo, ma abulico, distratto, assolutamente privo del dovere d attenzione e di vigilanza che si conviene ad un contabile. Basti sapere che un giorno andò a pranzo presso la mensa agenti e dimenticò la cassaforte aperta, se ne accorse Gritti che mi telefonò agitatissimo a casa e pretese che si facesse la verifica dei contanti in sua presenza; non aveva lasciato mai l’ufficio del contabile, anzi si era rifiutato di farlo, a buon diritto, perché la direzione durante la pausa pranzo restava aperta ed accessibile a chiunque interno al carcere, Gritti era arrivato per primo in direzione, restando raggelato da quanto aveva scoperto.
Naturalmente, non mancavano soldi.
Questi due detenuti sono rimasti a svolgere quel lavoro fino al momento della loro scarcerazione.
Vivere da detenuto all’interno del carcere è un problema, che Gritti aveva risolto, a suo modo, isolandosi, mentre Pagni invece mediava fra me e gli altri detenuti, avendolo già fatto anche in precedenza. Questa mediazione era un buon salvacondotto per farsi perdonare che lavorava, pagato con una mercede irrisoria, per l’Autorità.
Oggi questo problema non esiste più, dopo il 1975, l’anno del varo del nuovo ordinamento penitenziario, il lavoro iniziò a scarseggiare per i detenuti all’interno del carcere.
I laboratori gestiti dai privati furono rapidamente chiusi uno dopo l’altro perché la mercede non era più fissata arbitrariamente dall’amministrazione penitenziaria, ma doveva essere pari ai due terzi della retribuzione per categoria prevista dai contratti collettivi di lavoro, com’è ancora oggi.
Con il nuovo regolamento di esecuzione della legge penitenziaria del 2000 il legislatore (art. 47, comma 1, d.P.R. 30 giugno 2000 n. 230) ha parzialmente posto rimedio.
Il testo della norma suddetta:
“1. Le lavorazioni penitenziarie, sia all'interno sia all'esterno dell'istituto, possono essere organizzate e gestite dalle direzioni degli istituti, secondo le linee programmatiche determinate dai provveditorati. Allo stesso modo possono essere organizzate e gestite da imprese pubbliche e private e, in particolare, da imprese cooperative sociali, in locali concessi in comodato dalle direzioni. I rapporti fra la direzione e le imprese sono definiti con convenzioni che regolano anche l'eventuale utilizzazione, eventualmente in comodato, dei locali e delle attrezzature già esistenti negli istituti, nonchè le modalità di addebito all'impresa, delle spese sostenute per lo svolgimento della attività produttiva. I detenuti e internati che prestano la propria opera in tali lavorazioni, dipendono, quanto al rapporto di lavoro, direttamente dalle imprese che le gestiscono. I datori di lavoro sono tenuti a versare alla direzione dell'istituto, la retribuzione dovuta al lavoratore, al netto delle ritenute previste dalla legge, e l'importo degli eventuali assegni per il nucleo familiare, sulla base della documentazione inviata dalla direzione. I datori di lavoro devono dimostrare alla direzione l'adempimento degli obblighi relativi alla tutela assicurativa e previdenziale.”.
Va detto, però, che i detenuti devono essere compensati con la retribuzione del loro lavoro sempre in base a contratti nazionali collettivi di lavoro, in quanto la riduzione della retribuzione ad una misura non inferiore ai due terzi dei C.C.N.L. è possibile solo per il lavoro svolto alle dirette dipende dell’amministrazione penitenziaria.
Allora era diverso.
Quando assunsi la direzione a San Gimignano avevo nella mente le lavorazioni presso la casa penale di Firenze. Erano già un retaggio del passato, ma c’erano.
A San Gimignano non c’era nulla.
Mi fu detto che c’era la falegnameria, ci andai e vi trovai un solo detenuto, Frignani Giuliano, anch’egli in carcere per omicidio, che vivacchiava beatamente a far nulla, ma era falegname dalla libertà.
Eravamo nei sotterranei del carcere, li chiamavano “I Fondi”, un ambiente degradato con delle splendide volte a crociera che in pratica reggevano il peso di tutti i piani superiori.
Oltre la ‘falegnameria’ c’era anche una ‘officina fabbri’, una ‘lavanderia agenti’, un ‘laboratorio cestai’, ma erano bazzecole.
L’officina fabbri era un solo ambiente, dove un detenuto calabrese, Cataldo Michele in carcere per omicidio, sembrava il ‘buon Vulcano’ della mitologia greca, la lavanderia un altro locale con una lavatrice per famiglia scassata ed un detenuto, Pernice Aurelio in carcere per omicidio, che si consumava lì la vita, il ‘cestaio’ poi faceva ceste, cioè basi per damigiane ed altri lavori con fibre vegetali intrecciate, era un uomo, in carcere per omicidio, che dava la sensazione della forza fisica, Lorenzini Romano si chiamava, in carcere per omicidio, era tutto nero, mani annerite dalla preparazione delle fibre vegetali messe ad ammorbidirsi in appositi contenitori, capelli tagliati corti, a spazzola, ci passava in pratica tutto il giorno.
Il fabbro era un fabbro vero, bravo con il ferro battuto, ma lento, lentissimo, non ne ho mai capito il motivo, intelligente lo era. Era un calabrese che solo una volta si lasciò andare ad una confidenza, molti anni dopo e mi disse che si era accollato un omicidio commesso da altri, lo aveva ‘dovuto’ fare. Io gli ho creduto e gli credo ancora. Lo misi alla prova commissionandogli un lampadario in ferro battuto, come da fotografia consegnatagli, in stile toscano antico. Dopo un po’ capii che era inutile stargli addosso, era lento, pensai addirittura che non lo avrebbe finito mai, ci mise degli anni ma il lavoro fu all’altezza.
Nella mia mente passa tutta una galleria di volti, erano detenuti ‘lungodegenti’, come li chiamavamo un po’ ingenerosamente, cioè con fine pena molto lontano nel tempo. Li ho avuti per anni davanti agli occhi. Ne conoscevo i sentimenti, che mi manifestavano con discrezione, le debolezze, la forza morale.
Il lavandaio era quello più propenso all’isteria, ma era un gran lavoratore: generazioni di agenti accasermati si sono serviti del suo lavoro, sempre impeccabile: naturalmente gli comprai una lavatrice più grande, per comunità, non di tipo industriale però e lo feci felice.
La falegnameria attrasse subito la mia attenzione (avevo in mente duella di Firenze), c’erano una pialla a filo, una pialla a spessore ed una sega a nastro con volano di 70 cm., tutto materiale antidiluviano.
Chiesi a Frignani di mostrarmi il funzionamento di quelle macchine, mi guardò e mi disse che era meglio di no; naturalmente, poi le dovette mettere in funzione: aveva ragione, il fracasso era terribile. Tempo dopo capii che la sua raccomandazione era interessata, temeva che chiudessi la ‘falegnameria’ per via delle macchine obsolete, poi capì che non era questo il motivo.
Completano questa prima panoramica altri personaggi. Il dato più significativo che non erano quelli che io ho trovato a San Gimignano solo delle persone ma anche dei veri e propri ‘personaggi’.
L’app. Venanzio era il responsabile della cucina detenuti, l’app. Loriggio Vincenzo era addetto all’orto, una dipendenza esterna al muro di cinta del carcere, perimetrata dalla mura castellane di San Gimignano.
L’app. Volpini Giovanni era di San Gimignano ed era addetto alla squadra muratori, che si componeva di un solo elemento fisso, Costi Guerrino, mentre all’orto lavorava il detenuto Feo Domenico.
L’app. Venanzio era una persona mite, brava nel suo lavoro, l’app. Loriggio non sopportava la vista del sangue e sveniva quando lo vedeva.
Costi Guerrino, emiliano di Carpineti era il detenuto più anziano essendo in carcere da 22 anni, era responsabile di un triplice omicidio, aveva sparato dentro una sezione M.S.I. con un fucile da caccia perché non sopportava il fracasso che vi si faceva.
Feo Domenico era un altro calabrese, responsabile di un omicidio, a me ammesso. Lo cito perché fu protagonista di episodio a dir poco singolare.
Devo però premettere che prima del 1975 il Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena prevedeva (artt. 117-120) l’ammissione al lavoro all’aperto, che è cosa altra dall’ammissione al lavoro all’esterno del nuovo ordinamento penitenziario.
La discriminante più importante era che il detenuto doveva essere sorvegliato con sorveglianza armata. L’app. Loriggio aveva con sé la pistola d’ordinanza, la tremenda Beretta mod. 40, con la quale manco a distanza ravvicinata si faceva centro.
Fatto sta un giorno Feo si ferì malamente, uscì del sangue e Loriggio svenne. Se qualcuno sta pensando che Feo ne approfittò per scappare si sbaglia. Sentite un po’ cosa fece Feo: si caricò sulle spalle l’app. Loriggio svenuto, raccattò la pistola che gli era caduta per terra, aprì il portoncino dì ingresso della zona orto, uscendo e raggiunse l’ingresso del carcere, consegnando il tutto all’esterrefatto portinaio !
Altri tempi, altri detenuti: gli feci avere una riduzione di pena, senza suonare la grancassa. Oggi ne avrebbero fatto una trasmissione televisiva.
Costi Guerrino era un uomo anziano, alto, segaligno, con le mani rotte dalla fatica. Se non ci parlavi, badava solo a lavorare, se ci parlavi ti regalava un sorriso sdentato. Era un uomo semplice.
Essendo sdentato, aveva diritto al pane morbido per gli adentuli, altrimenti erano dolori a masticare. Però qualche volta questo pane non veniva fornito dall’Impresa del Mantenimento, una ditta privata.
Per un po’ Costi sopportò, si mostrò comprensivo, ma ci fu un giorno in cui perse la calma. Accadde in cucina detenuti, dove il pane veniva distribuito. Costi andò su tutte le furie perché per l’ennesima volta il pane morbido non c’era o non ne era stato fornito per tutti. Fui chiamato in cucina detenuti dall’app. Venanzio, che mi aprì tremante la porta della cucina e lì vidi per la prima volta qualcosa che non dimenticherò. Il voto di Costi era sfigurato da una smorfia, gli occhi opachi non vedevano più. Non riconosceva nessuno e nessuno gli si poteva avvicinare. Era la personificazione della rabbia. Toccava a me, come sempre. Venanzio mi disse di non avvicinarmi ma io lo feci, senza esitazioni, gli toccai il braccio e lo chiamai per nome, smise di urlare parole incomprensibili, mi guardò senza vedermi, poi gli dissi sono io, il direttore. Solo allora finalmente mi vide, rientrò in sé, ritornò alla realtà, uscendo fuori da quel mondo di furia scatenata ed incontrollabile.
Poi mi dissero che ero arrivato appena in tempo prima che facesse una sciocchezza, non lo so, può darsi, però io mi immaginai che quello doveva essere stata la sua situazione psicologica quando nel 1948 imbracciò la sua doppietta e sparò.
Che cosa mi fece agire con sicurezza: lo conoscevo bene, mi conosceva bene, ormai erano trascorsi alcuni anni ed io stavo facendo realizzare lavori di manutenzione alla squadra muratori (che avevo dotato di tutti gli attrezzi necessari) che a Costi piacevano, come gli piaceva che si fosse usciti a San Gimignano dall’immobilismo. Mi ammirava, mi trovava simpatrico e alla mano, io lo sapevo e volli intervenire per evitargli di rovinarsi nuovamente.
Ne furono eseguiti tanti lavori, in economia e tramite il Genio Civile, la prima categoria con la squadra muratori (si aggiungevano unità a seconda della necessità).
Quando questi lavori interessavano anche l’esterno del carcere allora poteva intervenire solo Costi, il quale non era stato mai autorizzato dal Magistrato di sorveglianza al lavoro all’aperto (lo feci fare io), ma usciva dal carcere da quel dì.
L’alloggio del direttore necessitava di lavori anch’egli, era esterno al carcere e l’unico che poteva uscire era Costi. I lavori vennero effettuati a spizzichi e a bocconi perché l’alloggio era abitato, da me, da mia moglie e dalla mia prima e per il momento unica figlia, Francesca, nata a Firenze.
Costi badava solo a lavorare (aveva imparato in carcere a fare il muratore), non alzava mai gli occhi. Mia moglie lo trattava con gentilezza, l’avevo rassicurata. Entrambi avevamo notato che quell’uomo anziano guardava con un sorriso dolcissimo mia figlia Francesca. Un giorno volli fare qualcosa, agii sulla base di una intuizione, avevo mia figlia in braccio e gliela diedi in braccio a lui.
Difficile descrivere efficacemente le emozioni che deve aver provato, prima incredulità (davvero ?), poi emozione e infine felicità, la prese in braccio come se fosse stato un oggetto prezioso e fragilissimo.
Penso di avergli regalato l’emozione di sentirsi nonno.
Maturò il tempo in cui quell’uomo poteva tornare ad essere libero, non aveva più senso tenerlo in carcere.
Il Regolamento carcerario del 1931 contemplava la possibilità di far proporre la grazia presidenziale come speciale ricompensa (art. 151, comma 1, n. 8). La proposta doveva essere fatta dal Consiglio di disciplina, composta dal direttore, che lo presiedeva, dal ragioniere, dal cappellano e dal medico.
Lo informai di questa proposta e qui capii che uomo semplice era Costi, era incredulo e felice, scettico ma grato.
La grazia presidenziale fu concessa, si trattava di organizzarsi per metterlo in libertà dopo tanti anni di carcere, non aveva una cravatta e gliela regalai io, nuova di zecca, ma non sapeva farsi il nodo, glielo feci io.
Salutò tutti, in particolare la mia famiglia, che si era arricchita di altri due figli. Lo accompagnai all’uscita, poi per un pezzetto di strada (via Santo Stefano), quindi lo lasciai solo ad assaporare una libertà che aveva perso tanti anni addietro, quando spense tre vite umane, ma ormai era un uomo diverso.
Il 25 giugno 1975 arrivò una lettera indirizzata mia moglie, impostata Carpineti il 23, era di Costi che scriveva a mia moglie, non a me !
La trascrivo:
“Gentilissima signora, là prego di voler perdonare il ritardo, con cui le mando mie notizie, ma non perché mi sia già dimenticato di S. Gimignano e nemmeno là sua famiglia che sempre là ricorderò, ma come può capire anche lei quando si ricomincia una nuova vita tutte fa novità come hò fatto novità io per tutti quelli della mia zona, che ancora continuano a venirmi a trovare compreso tanti che non conoscevo più, e debbo proprio dirle che non avrei mai pensato di trovare un ricevimento tanto numeroso e cordiale come pure i miei figli e là nuora che ho trovato e posso dirle che mi trovo molto bene sia di salute che di tutto, mi manca soltanto quella persona del cuore di cui tutti abiamo bisogno e che il destino hà voluto privarmi, e così mi sembra di non avere nulla che sia finalmente mio, per ora posso incontrarmi solo con qualche vecchie amicizie che si sono dimostrate molto afettuose, Ora ho acuistato un motorino per mio conto per potermi spostare più facilmente cuando desidero, penso di dover ritornare anche a S. Gimignano per ragioni di documenti che farò richiesta subito e che ancora atendo ma in cuesto mese avevamo anche altro da pensare, comuncue se dovessi venire passerò anche da lei per rivedere la sua famiglia che mie stata di conforto per tanti anni e che ho visto crescere i suoi tanto cari bambini, come desidero rivedere Nicola perche là sua bonta non si può dimenticare come tanti altri che mi anno saputo comprendermi e darmi tanta fiducia in primo luogo suo marito ricco di tanta comprensione e umanità, di cui le mando un cordiale saluto asieme alpiu afettuoso saluto per lei e bambini che sempre mi sembra di sentirli di nuovo la saluto con un arrivederci Guerrino Costi le chiedo scusa del mio mal scritto”.
Formidabile. Indimenticabile.
Nicola era l'agente Tammaro Nicola, che aveva sostituito l'app.Volpini, in pensione.


(continua)

2 commenti:

Unknown ha detto...

bellissimo questo racconto, in particolare il caso che oggi sarebbe oggetto di trasmissione televisiva.
Carolina

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Grazie Carolina, se continuerai a seguirmi ne leggerai di fatti 'singolari'!