martedì 17 marzo 2009


17/3/2009
BRUNO TINTI

I nostri legislatori sono molto focosi: ogni giorno la vita mette in scena i suoi drammi; e ogni giorno il Parlamento ha pronta una soluzione. Non importa che quegli stessi drammi si siano ripetuti migliaia di volte nel passato; e non importa che uomini saggi e sapienti abbiano cercato di governarli con soluzioni sperimentate in migliaia di anni: la parola d’ordine è riforma, sappiamo ben noi come fare. L’ultima delle riforme è la legge sulla violenza sessuale: se taluno viene denunciato per il reato di violenza sessuale, e se ci sono gravi indizi di colpevolezza e pericolo di fuga o d’inquinamento probatorio o di reiterazione del reato, è obbligatorio il carcere. Attenzione, ancora non si sa se questo cittadino è colpevole; è stato denunciato e pare proprio che lo sia; ma il processo si deve ancora fare e, come tutti sanno, si è innocenti fino alla sentenza di condanna. Nel frattempo però se ne deve stare in prigione.

L’occasione dell’ennesima riforma è nota: alcuni giudici erano stati troppo lassisti, stupratori agli arresti domiciliari, una cosa da non credere. Così, su due piedi, la nuova legge: i giudici non facciano più quello che vogliono, ci va un limite alla loro discrezionalità. E qui cominciano i problemi: perché l’articolo 609 bis del codice penale punisce la violenza sessuale, cioè atti sessuali compiuti con violenza o minaccia. Gli atti sessuali sono di molti e differenti tipi: si va, come ha sempre spiegato la giurisprudenza dalla «congiunzione carnale» agli «atti di libidine, cioè tutti quegli atti che esprimono l’impulso sessuale di chi li compie»; tra questi, dice la Cassazione, «toccamenti, palpeggiamenti, sfregamenti e comportamenti simili». E questa fascia di atti sessuali di minor rilievo viene punita sempre dall’articolo 609 bis, al terzo comma, ma con una pena minore. E quindi, virtuosamente, la nuova legge sulla violenza sessuale esclude che, in questi casi, sia obbligatoria la prigione: processiamoli ma non dobbiamo necessariamente catturarli subito. Solo che, a questo punto, la scelta tra gli atti di violenza sessuale meritevoli dell’immediata prigione e quelli che invece possono anche essere trattati senza carcerazione preventiva ricade di nuovo sul giudice. E, c’è da giurarci, le future decisioni che saranno adottate in casi limite, quelli la cui gravità non è così immediatamente valutabile, saranno sommerse dalla consueta organizzata disapprovazione della politica e dell’informazione controllata. Sicché una prima proposta: perché non distinguere esplicitamente tra la violenza sessuale consistente nella «congiunzione carnale» e gli altri «atti di libidine»?. E prevedere la prigione obbligatoria solo nel primo caso? Mi spaventa un po’ l’idea di un giudice che usi la nuova legge per allargare la carcerazione preventiva obbligatoria al «palpeggiatore abusivo».

Un’altra riflessione raccomanderei al legislatore. Di denunce calunniose per violenza sessuale se ne vedono molto più spesso di quanto si creda. Accertare come si sono svolti i fatti, se la violenza ci fu, se non si tratti di un ricatto o di una vendetta è molto complicato e richiede il suo tempo. Però, con la nuova legge, se c’è la denuncia, se non ci sono elementi che permettano di ritenerla infondata, se la parte offesa (magari una ex arrabbiata) racconta di minacce di futuri stupri, allora c’è poco da fare: prigione per il supposto violentatore. Che poi, magari, è innocente. Insomma, vorrei che fosse chiaro che trasformare il giudice in «bocca della legge» (come dicono gli avvocati), sottrargli ogni possibilità interpretativa e valutativa, impedirgli di decidere caso per caso cosa è giusto fare, finirà con il produrre sentenze assurde. Naturalmente i giudici commettono errori, come tutti; ma credere di evitare questi errori tramutandoli in una sorta di computer che, premuti due tasti e fatto un click di mouse, producano la decisione nel pieno rispetto della volontà del legislatore (finalmente), è una vera assurdità. Se continuiamo così, un giorno, in un’aula di Corte d’Assise, in un processo per il reato di cui all’articolo 575 del Codice Penale, quello che dice -quello che dice «chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione», », verrà emessa una sentenza che assolve l’imputato «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato», visto che la vittima era una donna.

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