11 marzo 2009
Dunque il Cavaliere vorrebbe che i parlamentari non votassero più in aula. Basta con queste lungaggini della vecchia politica. Basta con questi riti tanto cari alla sinistra. Lo facessero (al massimo) per delega. Delega a chi? Ai capigruppo. Diciamo una decina in tutto. Magari neanche in aula, direttamente a Palazzo Grazioli, mentre lui mangia il tris di pasta. Chi è d’accordo alzi la mano, benissimo, e lei, laggiù, l’astenuto, mi versi un po’ d’acqua, per favore.
Tutto più rapido, più efficiente, più moderno. Come accadeva durante i suoi antichi consigli di amministrazione. Quelli che lui presiedeva in via Rovani, a Milano, ai tempi eroici della tv commerciale e delle holding e delle pupe di Drive in, con il Confalonieri seduto alla sua destra e poi Galliani, Dell’Utri, Bernasconi, Foscale, eccetera. Unanimi tutti al suo volere. E incantati, nei rari momenti di silenzio, dal fruscio di ciabatte che si sentiva provenire dal piano di sopra, dove viveva ancora nascosta al mondo (e alla prima moglie e al sacerdote) la silente Veronica. Per quattro lunghi anni, quando si dice il sentimento.
Beati i molti politologi che di giorno in giorno intravedono nello sguardo acuto del Cavaliere, nelle sue azioni e minacce, l’embrione dello statista che si perfeziona, si evolve, insieme con la sua primigenia idea di governo aziendale, autoritario, piramidale, che cede ai contrappesi della democrazia. Non sanno (o fanno finta di non sapere) che per lui vale e varrà per sempre l’imprinting delle papere di Lorenz. Le quali, nel suo caso, nuotano nello stagno in plastica di Milano Due, con palestre, piazzette, vigilanza armata intorno, transenne all’entrata, niente poveri tra i piedi. Il logo aziendale in ogni aiuola. E in ogni famiglia, una seconda moglie in soffitta.
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