sabato 7 marzo 2009

La girandola degli eurodeputati. Eletti in 78, ne sono cambiati 37


Deciso a stroncare l'andazzo indecoroso che vede gli italiani snobbare il Parlamento europeo, Silvio Berlusconi ha avuto un'idea: mandarci chi non ci andrà mai. Cioè i ministri.
Per legge incompatibili. E destinati solo a rastrellare voti e incassare un po' di soldi nelle settimane necessarie alla Cassazione a dichiararli decaduti. Una scelta di astuzia elettorale. Ma che rischia di esporci a Strasburgo a una nuova figuraccia. Agli occhi di tutti gli altri europei, infatti, abbiamo già buoni motivi per arrossire fin da quando Franco Maria Malfatti, primo italiano presidente della Commissione Europea, si dimise dopo soli due anni per candidarsi alle politiche e fare poi il ministro dell'Istruzione. Era la primavera del 1972. E quella scelta di preferire lo strapuntino domestico ministeriale alla presidenza del governo continentale fu presa male, a Bruxelles. Dove certo la nostra immagine europeista non è stata rafforzata dalla scelta successiva di Carlo Ripa di Meana di mollare il commissariato all'Ambiente per fare il ministro nel primo governo Amato. O da quella più recente di Franco Frattini di abbandonare la carica di vice-presidente della Commissione e commissario alla Giustizia per tornare alla Farnesina. Tutte decisioni lette dagli europei come un segnale preciso: per gli italiani è più importante la bottega domestica. Tesi confermata, negli anni, dalla pessima fama che via via si sono fatti i nostri deputati a Strasburgo. I più pagati di tutti, con quell'indennità di base di 149.215 euro (tre volte più di un portoghese, quindici volte più di un ungherese...) che sommata a tutte le altre voci e ai benefit vari può portare a un incasso di oltre 25 mila euro al mese.

I più assenteisti di tutti. Sono decenni, ormai, che i nostri si sono fatti questa fama. E le cose, stando a uno studio dell'Università tedesca di Duisburg e a una inchiesta delle Acli (secondo cui la presenza dei parlamentari italiani si attestava all'ultimo posto assoluto con il 68,6% e cioè 13 punti sotto i francesi, 20 sotto gli olandesi, 21 sotto i belgi e i finlandesi) sono progressivamente peggiorate. Fino al punto che Renato Brunetta può legittimamente vantarsi d'avere bucato, da europarlamentare, solo 73 sessioni plenarie su 221, con un tasso di assenze del 33,1%. Alto, rispetto al Senato Usa dove l'assenteismo medio negli ultimi decenni è stato del 3,1% e solo un senatore su 25 salta più di un decimo delle votazioni. Basso, rispetto a tanti colleghi. Di destra e sinistra. Una noia mortale, spiegò un giorno Gianni Vattimo a Claudio Sabelli Fioretti raccontando della sua frustrazione di deputato a Strasburgo: «Ogni volta mi chiedevo: ma che cavolo vado a fare? Era come entrare in un supermercato senza soldi. E si discuteva dell'altezza dei parafanghi delle auto e della lunghezza dei porri». Uffa, sbottano puntualmente tutti quelli che si sentono sotto accusa, «non vanno guardate le presenze nelle sedute ma nelle commissioni». Può darsi. Tutti gli altri indicatori, però, danno risultati altrettanto sconfortanti. Basti ricordare, come ha scritto Emiliano Fittipaldi su L'Espresso, che «61 deputati non hanno mai presentato una relazione (che, a differenza delle inutili interrogazioni, sono testi "legislativi" o "di indirizzo") e 17 non si sono mai scomodati ad aprire bocca in assemblea» col risultato che i sei ciprioti, pur guadagnando un quarto degli italiani, sono intervenuti più di tutti i nostri messi insieme.

La verità, come ha riassunto Sergio Romano, è che per i nostri politici «chi lascia l'Italia "esce dal giro" e fa molta fatica e rientrarvi, anche se l'esperienza accumulata nel frattempo dovrebbe rendere la sua persona ancora più apprezzata e utile. È meglio restare a Roma, dove si distribuiscono le cariche nazionali e lo sgabello di oggi può diventare la poltroncina di domani ». I numeri dicono tutto: abbiamo un decimo dei parlamentari europei (78 su 785) ma un quinto di quelli che hanno piantato Strasburgo per tornare a casa: 37 su 180. Ci battono solo i romeni. Insomma, quasi la metà dei nostri rappresentanti, fatta la tara ai seggi passati di mano due volte, si è stufata ed è venuta via. Chi, come Lilli Gruber o Michele Santoro, per tornare al giornalismo. Chi, come la piemontese Mercedes Bresso, per fare il governatore. Chi, come Umberto Bossi o Alessandra Mussolini, perché ha preferito il successivo scranno a Montecitorio o a Palazzo Madama. Altri ancora per poltrone più caserecce. Come Giuseppe Castiglione che, dichiarato decaduto dalla Cassazione perché eletto presidente della provincia di Catania (vuoi mettere, rispetto a Strasburgo?) ha lasciato il posto a Michele Cimino che a sua volta ha risposto picche: sorpreso alle elezioni di Agrigento dal successo di un ragazzino legato ad Angelino Alfano, ha preferito tenersi stretto un assessorato regionale.

E meno male che, dopo mille scandali, la legge italiana si è adeguata alle direttive europee e fissa oggi incompatibilità nette. Chi va in Europa non può allo stesso tempo fare né il presidente, né l'assessore, né il consigliere regionale, né il presidente di provincia, né il sindaco di un comune con più di 15.000 abitanti. Né, s'intende, il deputato, il senatore o il ministro. Per legge: articolo 5 bis. Per questo la decisione di Berlusconi di schierare alle Europee tutti i suoi ministri (e chi accarezza l'idea di usare ancora specchietti per le allodole non manca neppure a sinistra) rischia di lasciare gli europei basiti: ma come, se l'incompatibilità è assoluta! Oddio, non che tutti dentro il governo siano entusiasti dell'idea. Ma molti si sono subito detti disponibili. A partire da Ignazio La Russa. A suo fratello Romano, del resto, è andata di lusso. Quando Formigoni gli affidò l'assessorato lombardo all'industria faceva l'europarlamentare a Bruxelles. La legge dice che, anche per non prendere le doppie prebende, doveva optare entro un mese. Quattro mesi dopo aveva ancora i piedi in due staffe. E solo dopo quasi mezzo anno...

Gian Antonio Stella
07 marzo 2009

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