martedì 28 aprile 2009

Il potere dei dubbi


Barbara Spinelli

La pólis democratica è fin dalle origini scoperta e accettazione dell’alterità, un continuo esercizio che prende la forma del chiarimento reciproco, del processo e, se l’operazione riesce, della concordia discorde cui l’uomo aspira da millenni. L’uso del ragionamento agonistico, per Gilles Deleuze, fonda la duplice esperienza greca della filosofia e della tragedia: quel che avviene nel dialogo socratico e nella tragedia - l’incontro con la peripezia che inaspettatamente colpisce l’eroe, conducendolo dall’incoscienza alla catarsi - è innanzitutto una lotta fra pretendenti (pretendenti al vero, pretendenti a Penelope, pretendenti al comando): dunque è lotta tra diverse interpretazioni del vero, del bello, del giusto, non per ultimo del buon governo. È il primo esercizio di selezione democratica.


L’alterità del Creatore, che Giobbe infine apprende e che nessuno degli amici-consiglieri ha voluto riconoscere pur di salvare le proprie ideologiche teodicee (tutte condannate nella finale epifania divina, l’unico risparmiato è il giovane Eliu) significa che Dio è assolutamente e liberamente sovrano; è vicinissimo, ma non al punto di fondersi con la propria creatura. Nel Deuteronomio è scritto che «le cose occulte sono per il Signore Dio nostro; ma le rivelate sono per noi e per i nostri figlioli, in perpetuo; affinché mettiamo in opera le parole di questa Legge».
Questo vuol dire che la giustizia è per intero nelle mani dell’uomo: che in terra, ora, s’esercita la peculiare libera sovranità umana. Che non esiste una giustizia «in natura», perché quel che è equo o iniquo in natura fa parte delle cose che Dio cela, avvolge in nebbia contraddittoria, e all’uomo spetta applicare una giustizia che non sia nascosta, che esca allo scoperto, che ripari i torti sulla base di norme fabbricate dai mortali per i mortali. Le leggi sono pensate dagli uomini per dirimere contese, per semplificare quel che altrimenti resterebbe nebbia. Nei Proverbi biblici la proposizione del Deuteronomio si condensa in una sentenza: «È gloria di Dio nascondere le parole; è gloria dei Re investigarle». Nell’investigare le parole divine, i Re scoprono che non è mai una, l’indicazione celeste. «Dio ha detto una cosa; due ne ho ascoltate»: il salmo 62, saggio, indica ai re che dovranno decidere da soli, senza edificare certezze su un’univoca giustizia in natura.


L’esperienza della democrazia è forse la più vicina al postulato biblico secondo cui Dio cela la Cosa, e all’umanità spetta investigare e darsi leggi costruite su una realtà che non ha un’unica interpretazione. Quel che è arcano è di Dio, ma il governo della città è tutto di Cesare: è uno dei grandi insegnamenti di Gesù. Il dilemma di Giobbe si scioglie e le conseguenze per Cesare sono due: il suo potere è al tempo stesso potere pieno e mortale: un potere impastato di dubbi sulla parola di Dio, e che si può perdere ogni istante. Che si deve perdere, se la passione di tenerlo prevale sulla coscienza di averlo, per tutte queste ragioni, solo in prestito.


Esattamente questo s’impara in democrazia. Esercitare il potere sapendolo mortale è il modo di governarsi che più diffida dell’umana volontà di potenza, che più si adopera perché le istituzioni e le leggi durino più dei fugaci sovrani. Andando all’essenza: è il regime più attento a evitare i due peccati capitali nell’uomo, che Kafka individua in prima battuta nell’impazienza e nell’ignavia, poi in un’unica colpa da cui ogni altra deriva: l’impazienza. Per impazienza l’uomo che aspira a dirigere la società fissa leggi che proteggono solo il potere, immagina blocchi inalterabili di verità per rendersi più facile la vita, impone valori supremi piuttosto che adattarli alle circostanze e intrecciarli sapientemente con altri valori. Chi impone valori in questa maniera considera che il Paradiso è cosa facile da ridisegnare in terra, dimentica la cacciata, e sempre secondo Kafka vive in una fede falsa.


Il liberalismo democratico si guarda da questi pericoli, per convinzione e per come è congegnato: investiga la trappola dell’impazienza, pone ostacoli al solidificarsi d’un vizio che preferisce le scorciatoie al paziente costruire, predilige i tempi lunghi delle istituzioni e delle politiche, conoscendo la breve durata d’un potente. Ha memoria della cacciata dal Paradiso e del suo perché. Sa che il Paradiso non è solo memoria di un primordio ma è memoria del presente: che da questo luogo-non luogo di perfezione bisogna sempre di nuovo ricominciare e numerare.


In Kafka il Paradiso è perenne iniziazione, è un’attesa che non scema pur essendo sempre delusa, è un ripetuto conoscere se stessi («Per impazienza gli uomini sono stati scacciati dal Paradiso, per impazienza non vi tornano»). È l’Uno impossibile, è una storia di scacco e di inattesa riuscita. Scacco di Dio, secondo cui sarebbe bastato il solo assaggiare dall’albero della conoscenza per morire all’istante: non è accaduto, l’uomo è divenuto mortale ma non è morto fulminato. E scacco del serpente, secondo cui mangiando dall’albero l’uomo sarebbe divenuto Dio. Neppure questo è avvenuto. Ma è anche paradossale riuscita, di Dio come del serpente: «Non morì l’uomo, ma l’uomo paradisiaco. Gli uomini non diventarono Dio, ma diventarono conoscenza divina.

1 commento:

versoinfame ha detto...

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