Dopo la conferenza dell’Onu a Ginevra sul razzismo, si continua a discutere se l’esito sia stato migliore di quanto alcuni temessero, se abbiano avuto ragione i presenti o gli assenti, e così via. Ma sarebbe meglio sperare che non ci siano altre conferenze di questo tipo, e che l’Onu trovi altri modi di combattere il razzismo. Il vertice ginevrino è stato definito Durban II, pensando all’analoga conferenza che si tenne in Sud Africa otto anni fa. In realtà, questa riunione planetaria (o quasi) era la quarta nel suo genere. Le prime due si svolsero nel 1978 e nel 1983 e già allora gli Stati Uniti non parteciparono, per la manifesta tendenza della maggioranza (Paesi arabi e Terzo mondo) a farne l’occasione d’una messa sotto accusa dell’Occidente e in particolare di Israele.
A Durban nel 2001 le cose non andarono meglio. La vigilia fu dominata dalla richiesta arabo-palestinese di paragonare il sionismo al razzismo (benché un’infausta dichiarazione in tal senso dell’Assemblea generale dell’Onu fosse stata sepolta da una marea di proteste e revocata) e dalla domanda di «compensazione» di diversi Paesi africani, in particolare agli Stati Uniti, per la tratta degli schiavi di alcuni secoli fa. La seconda (volendo prescindere dal contesto storico e dai decisivi progressi della condizione degli «schiavi», in un’America che aveva combattuto una sanguinosa guerra civile per la loro liberazione, e che stava per avere, come oggi ha, un Presidente di origine africana) poteva anche apparire in qualche misura plausibile, mentre la prima, per quante critiche politiche si potessero e si possano fare ai governi israeliani, consisteva nel riproporre una provocazione assoluta. E tuttavia, sia pure in termini in parte diversi dalla famigerata risoluzione dell’Assemblea generale, rimase nel documento finale un’esplicita e dura condanna dello Stato ebraico.
È nel ricordo di Durban I che gli Stati Uniti e altri Paesi, tra i quali Italia e Germania, oltre naturalmente a Israele, non hanno accettato di partecipare alla Durban II. Ma ci si continua a chiedere se questa volta non sia stato diverso, se non abbiano avuto ragione i presenti a contrastare un altro esito infausto, e se il documento finale non sia poi migliore del previsto. Può darsi. La specifica condanna di Israele questa volta non c’è, anche se la si ritrova implicita nel richiamo ai risultati della Durban I. E ci sono apprezzabili impegni sul piano generale, per la parità e la dignità delle persone. Ma ciò non basta per benedire questo tipo di riunioni. Intanto è da vedere, con giustificato scetticismo, quale esito pratico avranno gli impegni presi o le promesse fatte da Stati non certo famosi per la tutela dei diritti umani e civili, mentre resta la possibilità che si offre ai leader più esagitati ed estremisti di farsi la loro propaganda, magari a uso interno. E, più generalmente, c’è un clima di confronto, che porta a divisioni (anche all’interno di gruppi omogenei come l’Unione europea) più che alla concorde ricerca della soluzione migliore.
Insomma, anche se la Durban II è stata meglio, o meno peggio, della Durban I, speriamo che non ci sia una Durban III. Nel senso, certo, che non ce ne sia più bisogno. Ma, se il bisogno ci sarà, perché il razzismo, un po’ ovunque, non cesserà di colpo, esistono altri rimedi. Sul piano dei principi da rispettare, non c’è già la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Onu nel 1948 e ribadita e aggiornata cinquant’anni dopo? E, se uno o più Paesi non ne tengono conto, non è meglio che l’Onu stessa intervenga sui casi specifici, con le opportune sanzioni? Invece di celebrare alla pari, di fatto, buone e cattive intenzioni, in megaconferenze, nel migliore dei casi, compromissorie.
È nel ricordo di Durban I che gli Stati Uniti e altri Paesi, tra i quali Italia e Germania, oltre naturalmente a Israele, non hanno accettato di partecipare alla Durban II. Ma ci si continua a chiedere se questa volta non sia stato diverso, se non abbiano avuto ragione i presenti a contrastare un altro esito infausto, e se il documento finale non sia poi migliore del previsto. Può darsi. La specifica condanna di Israele questa volta non c’è, anche se la si ritrova implicita nel richiamo ai risultati della Durban I. E ci sono apprezzabili impegni sul piano generale, per la parità e la dignità delle persone. Ma ciò non basta per benedire questo tipo di riunioni. Intanto è da vedere, con giustificato scetticismo, quale esito pratico avranno gli impegni presi o le promesse fatte da Stati non certo famosi per la tutela dei diritti umani e civili, mentre resta la possibilità che si offre ai leader più esagitati ed estremisti di farsi la loro propaganda, magari a uso interno. E, più generalmente, c’è un clima di confronto, che porta a divisioni (anche all’interno di gruppi omogenei come l’Unione europea) più che alla concorde ricerca della soluzione migliore.
Insomma, anche se la Durban II è stata meglio, o meno peggio, della Durban I, speriamo che non ci sia una Durban III. Nel senso, certo, che non ce ne sia più bisogno. Ma, se il bisogno ci sarà, perché il razzismo, un po’ ovunque, non cesserà di colpo, esistono altri rimedi. Sul piano dei principi da rispettare, non c’è già la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Onu nel 1948 e ribadita e aggiornata cinquant’anni dopo? E, se uno o più Paesi non ne tengono conto, non è meglio che l’Onu stessa intervenga sui casi specifici, con le opportune sanzioni? Invece di celebrare alla pari, di fatto, buone e cattive intenzioni, in megaconferenze, nel migliore dei casi, compromissorie.
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