Due velocità contro notizie e malaffare
Impegnati a smentire l’impietosa statistica che al Senato dall’inizio dell’anno segnala 9 ore di lavoro alla settimana, da giorni i senatori della maggioranza in Commissione Giustizia si impegnano a lavare l’onta facendo le 3 di notte per mandare in Aula a giugno il disegno di legge governativo sulle intercettazioni. Neofiti dello stakanovismo. E pure incompresi da tutti, ma proprio tutti.
Il capo della polizia e i sindacati delle forze dell’ordine, i magistrati e gli avvocati, la federazione degli editori dei giornali accanto al sindacato dei cronisti, l’associazione degli editori di libri, per non parlare dell’opposizione e persino di liberi battitori nella maggioranza, i professori universitari, fino a chi fa sommessamente presente la giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo: tutti mettono in guardia dalle assurdità e incongruenze di una legge che, con la scusa di colpire l’abuso di intercettazioni, renderà i cittadini più insicuri di fronte alla delinquenza; meno uguali, a forza di eccezioni per parlamentari, preti e agenti segreti; e più disinformati. Proprio ieri, infatti, la Commissione ha approvato gli emendamenti che, come ripetutamente segnalato dal Corriere, impedirebbero fino all’inizio del processo (sotto il pugno di sanzioni agli editori fino a 465.000 euro per notizia) anche il semplice riassunto di qualunque atto d’indagine non più coperto da segreto: come le deposizioni delle due sorelle che vendettero casa a Scajola o l’esistenza di 80 assegni, dati giudiziari a partire dai quali i quotidiani hanno condotto le inchieste giornalistiche sfociate nelle dimissioni del ministro neppure indagato.
Sarà interessante verificare se il Parlamento si farà animare da analoga verve notturna per rimpolpare di contenuti l’anemico disegno di legge governativo contro la corruzione che, annunciato a dicembre 2009 e presentato in marzo, deve ancora iniziare il proprio iter.
La notte, oltre che consiglio, potrebbe ad esempio portare memoria di quando non un passante, ma il ministro più influente del governo, Giulio Tremonti, nel 2008 nella relazione annuale del Ministero dell’Economia al Parlamento sollecitava l’introduzione del reato di autoriciclaggio, cioè la punibilità di chi reimpiega i soldi frutto di un reato che ha commesso: modifica già reclamata nel 2005 dal Fondo monetario internazionale, richiesta dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nell’audizione in Senato il 15 luglio 2008, invocata dal Procuratore nazionale antimafia (sia Piero Grasso sia Pierluigi Vigna), e già esistente non solo negli Usa ma ad esempio anche in Francia e persino nella bistrattata Svizzera.
Bene: sono trascorsi due anni, ma in Italia l’autoriciclaggio dei soldi delle tangenti o dell’evasione fiscale continua a non essere reato, e nel ddl Alfano contro la corruzione non si trova traccia di questo intervento, benché proposto nel 2009 anche da un disegno di legge di iniziativa governativa (il ddl 733-bis).
Lo stesso vale per la «corruzione tra privati» e il «traffico di influenza»: traduzioni giuridiche di quel «sistema gelatinoso» nel quale le inchieste sulla «cricca» stanno sorprendendo imprenditori, politici, funzionari e magistrati non sempre in un classico scambio corruttivo (tangente in cambio di appalto), quanto piuttosto in una ragnatela di reciproche opacità che, quand’anche non sconfini nella bustarella, deruba comunque i contribuenti, fa lievitare costi e tare degli appalti, falsa la concorrenza tra imprese e sovverte i criteri di merito tra le persone. Eppure neanche il ddl Alfano introduce la «corruzione tra privati» e il «traffico di influenza», nonostante li raccomandi quella Convenzione del Consiglio d’Europa contro la corruzione che, firmata nel 1999, l’Italia continua a non ratificare.
Del resto, per chi voglia legiferare sulla corruzione, senza limitarsi a qualche aumento di pena massima (pura grida manzoniana se non si cambia la prescrizione accorciata nel 2005 dalla legge ex Cirielli) o all’annuncio di un nuovo «Piano nazionale anticorruzione» affidato all’ennesimo «Osservatorio», c’è poco da inventare. Basterebbe ripescare i 22 suggerimenti stilati dal «Comitato di saggi» presieduto da Sabino Cassese nel 1996 su nomina del presidente della Camera; i rimedi individuati dalla «Commissione di studio» istituita sempre nel 1996 dal ministero della Funzione pubblica e presieduta da Gustavo Minervini; o le 8 proposte di sintesi della «Commissione parlamentare » del 1998, compreso il testo sul quale confluirono persone molto diverse come Veltri (allora ulivista), Tremaglia (An) e Frattini (Fi, oggi ministro degli Esteri).
Invece ecco un Parlamento messo alla frusta di notte per approvare norme sulla stampa che non soltanto avrebbero fatto conoscere le intercettazioni 2005 della scalata Unipol-Bnl appena un anno fa, a fine udienza preliminare; ma ad esempio avrebbero reso molto più difficile, nel caso dell’asilo di Rignano Flaminio, la sterzata delle cronache rispetto all’errata prospettazione delle accuse, all’inizio costate l’arresto al poi scagionato benzinaio cingalese.
Non solo: la Commissione giustizia prima chiede a poliziotti e magistrati cosa pensino delle nuove regole sulle intercettazioni, poi ne ignora completamente gli allarmi, e a tappe forzate corre ugualmente a strozzare la durata delle intercettazioni; limitare le microspie in ambienti diversi da quelli nei quali si stia commettendo un reato; assoggettare anche la semplice acquisizione di tabulati agli stessi rigidi requisiti delle intercettazioni; paralizzare molti uffici giudiziari in un insostenibile andirivieni logistico di atti riservati verso il tribunale collegiale del capoluogo, che ora si vorrebbe competente sulle intercettazioni di un intero distretto.
Poi magari domani, al prossimo boss catturato o patrimonio confiscato, fioccheranno dalla maggioranza gli apprezzamenti per gli investigatori. Deve essere colpa di un sortilegio: perché nei convegni sì, e poi nei luoghi della decisione pubblica no?
Luigi Ferrarella
20 maggio 2010
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