domenica 2 maggio 2010

Gianfranco fa scuola a Leonardo


MICHELE BRAMBILLA

L’unica differenza è che Leonardo troverà presto e facilmente, nel mondo del calcio, un altro posto di lavoro, mentre non s’è ancora capito che cosa ci può essere nel futuro di Gianfranco Fini.

Per il resto, tra l’allenatore del Milan e il presidente della Camera da ieri c’è una profonda analogia: sono gli unici due «dipendenti» (Fini ci perdoni la semplificazione) di Berlusconi che hanno avuto il coraggio di contraddirlo in pubblico, anzi di cantargliele in faccia.

Fini l’ha fatto alla direzione del Pdl, prima con le parole e poi con il ditino alzato; Leonardo ieri in conferenza stampa ha reagito alle critiche del padrone - che lo aveva definito «testardo» e che gli aveva rimproverato di far giocare male il Milan - dicendo che lui e il Cavaliere sono «incompatibili a livello di modo di essere e di stile»; che «tutto si può dire tranne che questa squadra abbia giocato male, non lo accetto»; che «sì, sono testardo perché credo ai miei principi». Mai nessun allenatore del Milan aveva osato tanto. Sacchi cominciava le conferenze stampa con un rituale «premesso che il Dottore è una persona meravigliosa e che se siamo qui è merito suo»; Zaccheroni abbozzò quando, a scudetto vinto, Berlusconi disse in pubblico che era stato lui a imporgli di far giocare Boban dietro le punte; Ancelotti ingoiò il rospo quando il suo presidente mostrò un foglio di carta con gli schemi per dire che in realtà la formazione la faceva lui; perfino il duro Capello non arrivò mai a mostrare le unghie quanto le ha mostrate Leonardo.

Quelli di «Mai dire gol» hanno votato come «record del mondo di servilismo» un’intervista a Berlusconi in cui il giornalista Carlo Pellegatti di Mediaset si limita alla domanda iniziale e poi lascia parlare Berlusconi e annuisce per trentaquattro volte. Su Emilio Fede le battute e gli aneddoti si sprecano. Ma sarebbe ingeneroso e vigliacchetto continuare nell’elenco dei celebri baci alla pantofola, specialità in cui siamo fenomeni tutti noi, soprattutto tutti noi italiani.

Per questo, al di là di ogni idea calcistica o politica, da ieri Leonardo è un nostro eroe. Ci ha dimostrato che c’è sempre un momento in cui si può raddrizzare la schiena. Come Vittorio Gassman che nel film «La Grande Guerra» riscatta un’esistenza da imboscato non rivelando all’ufficiale austriaco che lo interroga dove sono le truppe italiane, e urlandogli in faccia un «mi te disi un bel nient, facia de merda» che gli costa la fuciliazione. O come Fantozzi che alla partita di biliardo contro il feroce cavalier Catellani, Gran Maestro dell’Ufficio Raccomandazioni e Promozioni, mentre sta perdendo 49 a 2 e si sente sbeffeggiare davanti a sua moglie, pesca il momento eroico della sua vita. Al trentottesimo «coglionazzo» gridatogli dal cavalier Catellani, Fantozzi tira fuori gli attributi: rinterzo ad effetto con birillo centrale, calcio a 5 sponde e 11 punti, colpo partita con triplo filotto reale ritornato con pallino.

«Giù il cappello di fronte a questa squadra», ha detto ieri Leonardo rispondendo al presidente. Noi intanto ce lo tiriamo giù davanti a lui, che ci ha insegnato che non tutto è in vendita. Per la verità, adesso che ci pensiamo, tanti anni fa c’era già stato un altro dipendente di Berlusconi che aveva avuto il coraggio di dimettersi - anzi, di lasciare una sua creatura - per non fare una cosa che non voleva fare. Si chiamava Indro Montanelli.

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