di ANDREA MANZELLA
Sarebbe facile cogliere ed eliminare il punto più debole del progetto di legge sulle intercettazioni, in poco onorevole transito tra Senato e Camera. È nella stramba idea di creare fra segreto istruttorio e pubblicità del processo una terza via: il pubblico-non-pubblicabile. Una marmellata: in cui giudici, imputati, parti civili, pubblici ministeri, cancellieri, poliziotti (insomma i soggetti delle indagini e del processo penale) vengono mescolati con giornalisti, direttori, editori (tutta gente che con il processo non ha nulla a che fare: salvo il diritto-dovere di informare).
Insomma, nella Costituzione e nel codice di procedura penale c'è una distinzione assai netta. C'è il tempo della segretezza: che copre le indagini preliminari e lo stesso avviso di garanzia. E c'è il tempo della trasparenza: esso arriva con la "discovery", cioè quando gli atti dell'indagine e, in particolare il testo delle intercettazioni, devono essere messi a disposizione dell'indagato per l'esercizio del suo diritto di difesa. E' pensabile che in questi due momenti, quando si devono mettere tutte le carte sul tavolo e tutte le parti del processo ne vengono a conoscenza (e ne possono avere copia), solo i media siano costretti ad un innaturale silenzio?
Certo c'è un problema: le intercettazioni indirette, cioè quelle che riguardano persone e fatti all'apparenza del tutto inutili ed estranei alle necessità dell'indagine, ma pur contenute negli atti che il pubblico ministero ha comunque l'obbligo di scoprire interamente per consentirne la valutazione da parte del giudice e, soprattutto, della difesa. Come tutelare l'inviolabilità costituzionale del segreto di queste comunicazioni casualmente intercettate?
Vi è una lacuna nelle leggi attuali. Ed è a questo punto che si inserisce la ragionevole proposta di una udienza, sempre in regime segreto, prima della pubblicazione degli atti. In essa il giudice del processo, sentita l'accusa e la difesa, dovrebbe ordinare lo "stralcio" e la distruzione di tutto quello che non c'entra con i fatti per cui si procede (con ovvie sanzioni penali per chiunque le divulghi). Un rimedio assai semplice e molto più sicuro della incredibile zona grigia del pubblico-non-pubblicabile e dello stesso improbabile obbligo-di-riassunto per i media.
Ma c'è una sconsiderata resistenza ad accettare questo percorso di garanzia, che è quello di rimettere alla responsabilità del giudice il rigido confine tra la fase del silenzio e quella della pubblicità. E si vuole a viva forza coinvolgere la responsabilità di giornalisti, direttori, editori, nella gelatina del pubblico-non-pubblicabile: la responsabilità di farsi censori di se stessi, amputandosi il diritto di cronaca giudiziaria.
Ma se così è, allora, come nelle valigie dei malfattori, il progetto ha un doppio fondo. Quello visibile è dato dalla privacy, dal diritto di non essere spiati, dal rispetto della "vita degli altri". Tutti beni costituzionali che devono essere tutelati (e, come si è visto, possono esserlo, procedendo nella logica del "giusto processo"). Ma qui servono come coperchio a quello che c'è nell'altro fondo. C'è una resa dei conti con i media: sconvolgendone le linee interne di responsabilità e di garanzia; negandogli il diritto di mettere in comunicazione quello che è pubblico nella sfera del processo con la sfera pubblica della cittadinanza. E c'è alla fine di una storia che comprende tutti gli altri buchi neri del progetto (e gli aggravamenti al Senato li hanno resi ancora più visibili e civicamente scandalosi) anche il tentativo di "devitalizzare" le intercettazioni come strumento di indagine giudiziaria.
Il messaggio complessivo che passa è che la lotta al crimine in Italia, terra di molte mafie e di molte corruzioni, sarà indebolita. Perché non potrà contare sull'appoggio di una opinione pubblica informata (e allarmata).
E questa è una questione non negoziabile. I ribassi di pene per non-reati, cioè per la libertà giornalistica di informare su atti non più segreti, non servono a cancellare il non senso strutturale dell'intero progetto
L'ha capito benissimo quel signor Lanny Breuer, capo degli affari penali del Dipartimento americano della giustizia, venuto da noi a commemorare i giudici Falcone e Borsellino. Ha fatto peccato (diplomatico) a pensar male della legge-bavaglio: ma ci ha indovinato. Ha capito, cioè, che la questione non era di diritto interno italiano, ma di diritto costituzionale internazionale. Quello che ancora si basa sulle quattro libertà proclamate dal Presidente Roosevelt il 7 gennaio 1941, contro il "nuovo ordine della tirannia": libertà di espressione, libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura. E la Freedom of Speech, veniva prima delle altre. Perfino quando era stampata sul retro delle AM-lire, l'Allied Military Currency, la moneta di guerra messa in circolazione nei territori liberati. Quando il Duce era dall'altra parte.
(30 maggio 2010)
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