di Marco Travaglio
Ora basta, c’è un limite a tutto. Basta accanirsi sul corpicino di Claudio Scajola. Passi che qualcuno gli paghi la casa a sua insaputa. Passi che l’Alitalia gli organizzi un volo speciale Roma-Imperia a sua insaputa per aviotrasportarlo su e giù. Passi che qualche giornalista gli senta dare – a sua insaputa, si capisce – del rompicoglioni a Marco Biagi appena morto. Ma che la sua signora, allontanandosi da casa di soppiatto con la scusa della santa messa, rilasci un’intervista a Repubblica a sua insaputa, questo è troppo.
Poi dice che uno grida al complotto. Con tutto quel che ha da fare per smascherare il tipaccio che gli ha girato 900 mila euro in 80 assegni senza dirgli niente, il povero Sciaboletta ha dovuto prendere carta e penna per dissociarsi dall’“intervista asseritamente resa da mia moglie” e far sapere “di non condividerne il contenuto” perché “non è assolutamente vero che io abbia deciso di non presentarmi dai pm di Perugia per non ‘creare problemi ai veri colpevoli’ o a ‘persone molto più coinvolte di me’”.
Qualcuno potrebbe pensare che la signora abbia voluto lanciare un messaggio alle “persone molto più coinvolte di mio marito” perché stiano accorte. O interrogarsi sull’identità dei “molto più coinvolti” e su come lui, parlando coi pm, potrebbe “creare problemi”. O addirittura sospettare un gioco delle parti: lei lancia la pietra e lui nasconde la mano, tanto ormai il messaggio è giunto a destinazione.
Noi però ci dissociamo da questi malpensanti, anche perché abbiamo letto l’ordinanza-sentenza del giudice istruttore di Milano che nel 1989 lo prosciolse dall’accusa di tentata concussione per lo scandalo dei casinò, che l’aveva portato in carcere per 72 giorni nel dicembre 1983. Il 20 maggio Scajola, allora sindaco Dc di Imperia, aveva accompagnato a Bourg Saint Pierre in Svizzera il sindaco socialista di Sanremo, Osvaldo Vento, per incontrare Giorgio Borletti che con la società Flowers Paradise voleva aggiudicarsi la gestione del casinò. All’appalto ambiva un’altra ditta, la Sit di Michele Merlo, legata al clan Santapaola, ma era stata esclusa.
Problema: la Sit aveva già versato tangenti per 500 milioni di lire a vari politici e amministratori sanremesi, i quali provvidero così a restituirle. Tutti tranne uno, l’assessore Enzo Ligato, che non ne voleva sapere. Di qui, secondo l’accusa, la missione elvetica della coppia Vento-Scajola: “Incontravano il Borletti e gli richiedevano, per aggiudicare l’appalto alla sua società, il versamento di Lire 50 milioni, a loro dire destinati a rifondere Merlo del denaro sborsato per corrompere l’assessore Ligato… senza peraltro riuscire nel loro intento… per il fermo rifiuto opposto dal Borletti”.
Il povero Scajola sostenne di non aver mai chiesto né udito Vento chiedere mazzette: lui aveva accompagnato il collega solo perché la Dc l’aveva incaricato di seguire la querelle del casinò e pretendere garanzie da Borletti sulla “gestione imparziale” e sull’“organigramma” della casa da gioco, onde evitare che diventasse un feudo del Psi.
I giudici alla fine gli credettero: fu Vento, nel colloquio a tre, a parlare di mazzette a Borletti, anche se è “fondatamente ipotizzabile una certa reticenza dello Scajola nell’ammettere di aver udito discorsi di questo tipo”. Dunque fu prosciolto perché Vento se l’era portato appresso “come elemento indiretto di pressione su Borletti” e lui s’era trovato “inconsapevolmente coinvolto”, “inconsapevole delle intenzioni del suo accompagnatore”.
Ecco, Scajola è fatto così: non s’accorge mai di nulla, nemmeno di quel che accade sotto i suoi occhi (e orecchi) e nelle sue tasche. È come il palo della banda dell’Ortica cantato da Jannacci: “Lui era fisso che scrutava nella notte, l'ha vist na gota ma ‘n cumpens l’ha sentu nient, perché vederci non vedeva un’autobotte, però sentirci ghe sentiva ‘n acident… Ed è arrabbiato con la banda dell’Ortica, perché lui dice: ‘Non si fa così a rubar! Ma come, a me mi lascian qui di fuori e loro chissà quand’è che vengon su’…”.
Così Scajola: sono trent’anni che vive a sua insaputa.
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