di EUGENIO SCALFARI
I MERCATI giocano al rimpiattino con i debiti sovrani, con l'euro e con le Borse; l'Europa e gli Stati dell'Unione rispondono come possono. Ma è un rimpiattino o un gioco a moscacieca? Romano Prodi, nel suo articolo di ieri sul "Messaggero" pone una domanda analoga e propende per la moscacieca per quanto riguarda l'Europa. Temo che abbia ragione. Fino a quando l'Unione, e soprattutto i Quindici dell'euro-zona, non si saranno dati un governo unitario dell'economia e della fiscalità, la moscacieca continuerà con effetti inefficaci. Le Borse e l'euro resteranno sotto il tiro dei mercati, i risparmiatori sposteranno i loro capitali verso i titoli sovrani degli Stati più forti, in particolare verso i "bund" della Bundesbank, che danno ormai rendimenti vicini allo zero, e verso i titoli del Tesoro americano. Le manovre dei singoli Stati europei per stabilizzare i rispettivi debiti erano necessarie ma il loro effetto complessivo non può che essere depressivo: i tagli alla spesa decurtano il potere d'acquisto, le aspettative tendono al ribasso, le obbligazioni emesse dalle imprese e dalle banche soffrono la concorrenza con le emissioni degli Stati più solidi, la modesta ripresa produttiva non produce nuova occupazione né nuovi investimenti. La crescita sarà lenta e contrastata. Obama stanzia altri cento miliardi di dollari per combattere il trend negativo ma in Europa non avviene niente di simile.
E in Italia meno che mai: l'ammontare del debito pubblico rende difficile se non impossibile una manovra equilibrata che stabilizzi il bilancio e stimoli la crescita. La realtà suggerisce una sola definizione: siamo imballati, costretti a galleggiare cercando di limitare i danni e sperando di riuscirci.
Tremonti ha fatto due giorni fa una sortita liberista: ha lanciato l'idea di abolire tutte le regole e gli adempimenti necessari a realizzare nuove iniziative imprenditoriali per quanto riguarda le imprese medio-piccole, per gli artigiani e per la ricerca. Basterà l'autocertificazione, salvo successivi controlli della pubblica amministrazione. Dunque libertà totale per tre anni, poi si vedrà. Ma la proposta si scontra con l'articolo 41 della Costituzione che prevede libertà d'impresa purché produca effetti socialmente positivi. È dunque necessario riscrivere l'articolo 41 e ci vuole una legge costituzionale. Il tempo occorrente è di un anno, ammesso che quella legge passi in Parlamento con la maggioranza qualificata prevista. Insomma se ne parlerà, se va bene, nell'autunno 2011. La proposta vale per le nuove iniziative. Quante saranno, in tempi di languore congiunturale? Quante di esse avranno successo?
Un grande effetto propulsivo ebbero una decina d'anni fa analoghi provvedimenti del governo irlandese in favore di iniziative provenienti dall'estero, incentivate anche con interventi creditizi e sgravi fiscali (che mancano nella proposta Tremonti). L'Irlanda fu citata come esempio da imitare in tutta l'area europea. Oggi tuttavia quella stessa Irlanda è uno degli Stati sotto tiro e il suo sistema bancario tra i più fragili dell'Unione.
Mi domando quanti saranno, in un paese come il nostro, gli imprenditori fasulli che, dopo aver autocertificato in proprio favore e avere ottenuto il necessario credito bancario, scompariranno dopo qualche mese lasciando un paio di capannoni abbandonati e portandosi via la polpa presa a credito. E mi domando anche quante saranno le nuove imprese che le mafie intesteranno ai loro amici. Se debbo dirla tutta, queste sono trovate destinate ad avere qualche titolo di annuncio per le prime quarantott'ore, come il piano casa che, ad un anno da quando fu varato, non ha ancora prodotto un solo mattone. Quanto al liberismo di Tremonti, la sua autenticità fa a pugni con il Tremonti-pensiero anti-mercatista. Lo conoscevamo come un seguace del colbertismo; scopriamo adesso che propugna un "laisser faire" pressoché totale. Tra questi due estremi un vero liberale propende per regole chiare, poche ma efficaci e severe, che tutelino la libertà d'accesso ai mercati e la lotta ai monopoli. Tutto il resto, come dicevano Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi è aria fritta a beneficio delle cricche di vario genere e serve soltanto per ottenere il consenso dei gonzi.
La cosa più curiosa di tutte è il profluvio di raccomandazioni, da parte delle stesse fonti che hanno chiesto le manovre di aggiustamento dei debiti sovrani, di accelerare la crescita. Ma come? Con quali mezzi?
In Italia di mezzi ce ne sarebbero almeno tre: la lotta all'evasione, la redistribuzione dei pesi fiscali, l'allungamento dell'età pensionabile. Sull'ultimo punto il governo commissariato da Tremonti qualche cosa ha fatto. Le finestre pensionistiche sono strutturalmente importanti; così pure i parametri che agganciano la pensione alle prospettive demografiche di durata della vita, che diventeranno operativi nel 2015.
Sugli altri punti è silenzio. L'allungamento dell'età pensionistica presuppone un patto con le parti sociali. La Confindustria ha proposto una sorta di accordo tra produttori: tutte le parti sociali, nessuna esclusa. Il ministro del Lavoro è scettico. È riuscito a dividere i sindacati e non gradisce che la Cgil torni in gioco. Tremonti tace e aspetta. E cosa aspetti non si sa. Dalla lotta all'evasione prevede un recupero di otto miliardi. Forse è realistico a legislazione vigente, ma è poco rispetto a un'evasione di 120 miliardi, destinata a crescere e non a diminuire. Otto miliardi su 120 non è un risultato, ma un flop.
Resta, del tutto ignorata, la redistribuzione. Il silenzio su questo tema, assolutamente centrale per la crescita, deriva da un assioma diventato un "mantra" elettoralistico: non bisogna mettere le mani nelle tasche degli italiani. Mantra berlusconiano, mantra leghista. E quindi anche tremontiano. Tutti sono d'accordo (e lo siamo anche noi) che bisogna diminuire le tasse per favorire la crescita. Per ottenere questo risultato ci sono due sole strade: tagliare le spese superflue oppure tagliare le tasse che gravano sul lavoro e sulle imprese e compensarne le minori entrate con altre tasse che gravino su altre spalle. Le spese superflue sono poche. Nella manovra in corso la loro ricerca è stata demandata alle Regioni e ai Comuni. Il taglio sulla carta politica darà qualche ridicola decina di migliaia di euro. Le Regioni e gli Enti locali, le Università e la ricerca, taglieranno licenziando e così anche i Ministeri. Ma ai fini della crescita i licenziamenti significano un'ulteriore perdita di potere d'acquisto; rientrano cioè nella parte depressiva del risanamento. Il recupero dell'evasione va bene, ma rappresenta soltanto un terzo del totale: otto miliardi su 24. La redistribuzione è dunque indispensabile e se deve equilibrare la spinta depressiva dovrebbe ammontare a circa 16 miliardi nel biennio. Uno sgravio sul lavoro dipendente e sulle imprese di questa entità susciterebbe aspettative favorevoli con effetti rapidi. Sosterrebbe investimenti e consumi. Diminuirebbe ineguaglianze ormai intollerabili e vergognose. Aumenterebbe la coesione sociale. La copertura va trovata sul lato delle "cose": le rendite, le case non censite, le case non utilizzate, la revisione dei valori catastali: valori attualmente irrisori, che potrebbero essere aumentati con un primo scaglione che resti ancora al di sotto della realtà, salvo prova del contrario e del principio tributario di pagare salvo rimborso. Un patto tra produttori, un patto generazionale, un patto fiscale. Oppure continueremo a giocare a moscacieca, lanciando annunci di fumo che si sciolgono nell'aria come il cerone sulle guance del Capo dei capi.
P. S. Cadeva ieri l'anniversario di trent'anni dalla morte di Giorgio Amendola. Ricordo ancora quella mattina di cordoglio all'ospedale che ne ospitava il corpo. Pochi mesi prima, nel marzo del '79, se n'era andato Ugo La Malfa. Furono, in diversissimi modi, due grandi figure della nostra storia repubblicana, che soltanto dopo la morte riscossero un consenso che in vita gli era stato negato o lesinato. Voglio qui trascrivere, nella sua efficace sobrietà, quanto ha scritto ieri sul "Messaggero" Gianni Bisiach nella sua rubrica "Dieci righe di storia". "Il 5 giugno 1980 muore a Roma di cancro Giorgio Amendola, seguito dopo poche ore dalla moglie Germaine, conosciuta a Parigi durante un ballo per la festa della Bastiglia, che sarà sepolta con lui. Figlio di Giovanni Amendola, liberale, morto per le percosse delle squadre fasciste. Nel 1929 Giorgio si iscrive al Partito comunista. Carcerato, confinato, esule in Francia. Dal 1943 sarà uno dei capi delle Brigate Garibaldi a Roma, Firenze, Milano, Torino". Quando fui eletto deputato nel 1968, nella prima seduta della Camera lo incontrai nel transatlantico di Montecitorio. Mi salutò con affetto, poi mi disse: "Per te sarà un lavoro molto diverso da quello giornalistico. Noi qui costruiamo castelli con la sabbia asciutta." Un male antico e sempre più attuale.
(06 giugno 2010)
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