MARIO DEAGLIO
Non abbiamo scelta, il nostro stile di vita dovrà cambiare - dice il nuovo primo ministro inglese -, le conseguenze delle decisioni che prenderemo toccheranno tutti e si faranno sentire per anni, forse per decenni».
Le parole di David Cameron sono durissime, quasi apocalittiche e segnalano un brusco e imprevisto cambiamento di fondo nella crisi che stiamo attraversando e nel modo di valutarla. Gli fa eco, in maniera apparentemente più moderata ma forse ancora più allarmante nella sostanza, il governatore della banca centrale degli Stati Uniti, Ben Bernanke, il quale annuncia che la ripresa, sulla cui rapidità gli americani hanno pesantemente scommesso, non sta andando troppo bene e che la disoccupazione rimarrà a livelli elevati «per un po’ di tempo».
Pur nella diversità dei toni, le parole di Cameron e Bernanke conducono a un’unica conclusione: l’ottimismo ufficiale sulla crisi, di moda fino a non molte settimane fa, risulta sconfitto dai fatti. Il che significa che i responsabili mondiali della politica economica hanno sbagliato diagnosi, sottovalutato la gravità della situazione e adottato terapie senza effetto. Le stesse persone che avevano annunciato con fiducia l’uscita dalla crisi ora parlano di «seconda caduta» (double-dip). Tutti si muovono al buio e non sanno bene che pesci pigliare e sottolineano che la crisi non passerà tanto presto mentre prima, con uguale disinvoltura, sostenevano che era già passata, o addirittura - è il caso dell’Italia - che non c’era mai stata. Purtroppo, però, nessuno sembra avere alternative valide alle loro politiche, sin qui chiaramente ben poco efficaci.
I motivi di questo brusco aggravamento si possono illustrare abbastanza bene con una metafora medica: nonostante il drenaggio di titoli infetti, effettuato dalle banche centrali negli ultimi diciotto mesi, in quell’enorme organismo che è la finanza mondiale era rimasta in circolo una grande quantità di veleni. Anche per il comportamento scarsamente responsabile di alcune grandi banche e altre organizzazioni finanziarie che operano a livello mondiale - e per la mancanza di controlli severi sulle loro attività - questi veleni hanno intossicato la parte più sensibile del sistema e cioè il comparto del debito pubblico: l’infezione ha cominciato a colpire Paesi piccoli e in pessime condizioni come la Grecia ma sta risalendo in maniera rapidissima fino ai Paesi più grandi e considerati più soli, non esclusi gli stessi Stati Uniti. Deficit pubblici, come quello inglese, quello francese e, forse, quello americano che venivano considerati tollerabili ancora qualche settimana fa ora non lo sono più.
Nei prossimi decenni la finanza pubblica è destinata a peggiorare in tutti i Paesi ricchi. Un maggior controllo dei mercati avrebbe consentito di affrontare queste difficoltà in maniera graduale; sono invece emerse tutte assieme provocando le attuali convulsioni delle Borse. Per conseguenza tutti invocano l’arma dei tagli, condizione forse necessaria al punto in cui siamo arrivati ma certamente non sufficiente, al rilancio della crescita e dello sviluppo, anzi controproducente nel breve periodo. Con i tagli i governi potranno (forse) rimettere in sesto i bilanci pubblici per qualche tempo ma al prezzo di un rinvio indeterminato della data della ripresa.
In altre parole, è difficile, probabilmente impossibile, risanare e rilanciare l’economia senza modifiche importanti del sistema economico-finanziario e queste modifiche al sistema dovranno coinvolgere la Cina. Appena scalfita dalla grande tempesta mondiale, dotata di enormi riserve valutarie, la Cina potrebbe venire in soccorso garantendo il debito pubblico dei Paesi suoi creditori e rivalutando la propria moneta in modo da dare un po’ di fiato alle industrie di mezzo mondo alle corde per la concorrenza cinese. Il Partito Comunista Cinese, però, non salverà gratuitamente il capitalismo di mercato e già si parla, tra le possibili contropartite, di un cinese alla guida del Fondo Monetario Internazionale. In ogni caso, Pechino è il convitato di pietra al tavolo affannato dei Paesi ricchi e tiene in mano una possibile chiave di questa intricata e pericolosa vicenda.
L’altra chiave l’hanno in mano i cittadini-elettori dei Paesi ricchi che, nella grande maggioranza dei casi, mostrano una forte opposizione ai tagli e richiedono protezione per risparmi e posti di lavoro. Questa protezione si può forse accordare - magari mandando a casa chi è al governo come è avvenuto in Gran Bretagna e potrebbe avvenire in questi giorni in Olanda - ma solo al prezzo di chiudere, in maniera più o meno parziale, le frontiere economiche e finanziarie. Il che porterebbe con sé un abbassamento permanente della crescita economica che in alcuni Paesi potrebbe tradursi in stagnazione.
In questa gran tempesta l’Italia si trova in una nicchia relativamente riparata, forse perché è abituata a gestire con un certo successo un debito pubblico enorme (il terzo del mondo per dimensioni) e perché, al fine di far quadrare i conti senza fare alcuna riforma, ha di fatto rinunciato alla crescita economica negli ultimi dieci anni. In Italia c’è relativamente poca occupazione ma relativamente molto risparmio famigliare, in buona parte investito nei titoli del debito pubblico italiano il che conferisce una certa stabilità a questo barcone con popolazione vecchia, destinata a invecchiare ancora. Il vecchio barcone, in altre parole, può riuscire a galleggiare; ma solo al prezzo di diventare sempre più vecchio e sempre più pesante.
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