martedì 16 novembre 2010

CENNI AUTOBIOGRAFICI


dal Blog di Roby Bulgaro

Nella sperduta provincia di Ferrara, nella val padana che lambisce il mare sulle coste tra le Valli di Comacchio con i suoi sette lidi, Roby nasce a Lagosanto il 31 dicembre 1966, in un inverno freddissimo, con tanta neve.

Da queste parti la neve, non voglio dire che sia rara, ma in quarant’anni è venuta solo un paio di volte così abbondante e copiosa; sarà la vicinanza del mare, o la latitudine o che so io. Fatto sta che la neve non la si vede se non in forma di una leggera spruzzata, e neppure ogni anno. La peculiarità della zona, qua nel basso ferrarese, è l’umidità; ma soprattutto, d’inverno, la nebbia.

Il bisnonno, Alessandro, già novantenne, lo chiamava “l’omino della luna”, come a denotare una sua particolarità, che non era di questo mondo. Il nonno disperso in Russia durante la seconda guerra mondiale e le vicissitudini di quegli anni, che tracciavano la prima repubblica con solchi indelebili di sangue, non potevano segnare l’infanzia del bimbo che, ancora, non sapeva nulla del mondo; le sue giornate estive passavano a rincorrere tra campi di mais e di grano a perdita d’occhio, e giochi a rimpiattino (“muffa” per noi Laghesi) tra amici ed amichette, in cantieri edili piccoli, che ancora non denotavano alcuna espansione urbana. L’autunno e l’inverno invece passavano nella scuola con poco interesse, tanto era l’impegno delle maestre nell’insegnamento; dal canto suo, Roby, non mostrava un vero interesse per le cose della cultura, che pure c’era e c’è, ma che senza un reale entusiasmo da parte di chi doveva insegnare a stento uscivano. Come dire: una noia mortale. In quegli anni di scuola avrei voluto fare il disegnatore, preso com’ero, assieme a tanti altri bambini, dall’avvento dei cartoni animati giapponesi, primo fra tutti Goldrake, che spinse me e tanti miei compagni a disegnarne le gesta ed a inventare nuovi robot-guerrieri per combattere il male che proveniva dallo spazio. Inventai un robot e lo chiamai Cyclops, per via del casco con visiera a “V”che faceva sembrare un solo grande occhio al centro della faccia, dal quale sprigionava il solito devastante raggio che non lasciava scampo ai malvagi. Il mio cuginetto, che invece, come lui stesso dichiarava, non aveva uno straccio di immaginazione, rimaneva sempre in disparte al momento di chinarsi sul quaderno e disegnare, allora cercai il modo e una maniera per coinvolgerlo; dopo vari e comunque numerosi tentativi riuscii a convincerlo, e finalmente, facendomi promettere che non avrei riso di lui, mi presentò la sua creatura robotica: “Cleciups”. Quando pronunciò il nome ad alta voce, entrambi prorompemmo in una fragorosa risata. Fu così che la sua carriera da disegnatore durò lievemente meno della mia.

Ricordo nitidamente una primavera, quella del 1978. Quando fu rapito Aldo Moro. Stavo andando a scuola e, una volta giunto, mi rispedirono a casa, perché, dissero, avevano rapito lo statista, e quindi era un periodo di disgrazia. Abitavo a poche centinaia di metri dalla scuola elementare, e quindi, sempre a piedi come vi ero arrivato, ne feci ritorno, mormorando fra me e me che era una cosa inconcepibile: rapire un uomo a fini “politici”; un termine che ancora non comprendevo. Curioso che i ricordi si fermino a quella riflessione, mentre facevo ritorno da scuola, sotto un bellissimo sole primaverile; forse un po’ troppo caldo per il periodo; col grembiule nero ed il fiocco azzurro al collo.

Per la musica rock e le droghe leggere, ancora non era maturo il tempo, e le giornate passavano al rito di scorribande nei campi e le prime sbirciate sotto le gonne delle ragazzine. Senza che questo precludesse la mia verginità, protrattasi all’età post adolescenziale con mia gran sofferenza, dovuta ad una timidezza indomita, impossibile da dissimulare.

L’insuccesso della scuola superiore, dalla quale mi ritirai dopo pochi mesi, non contribuì ad accrescere la stima in me stesso; lo stress addirittura mi procurò un eczema sulle braccia che mi durò due anni ancora dopo quell’esperienza; collezionai poi un’altra delusione, quando seguii un corso di disegno pubblicitario presso una scuola privata, che mi dotò, quello si, di una mano più sicura nel tratto, ma che non mi conferì alcun titolo accademico col quale far leva nel mondo del lavoro.

Certo erano bei tempi quelli in cui l’unico problema era quello di trovare un passatempo divertente col quale passare le giornate. Un padre poco propenso a tramandare il lavoro ai figli rendeva la cosa ancora più semplice, ma costruiva un futuro incerto alla progenie che, in seguito, si dovette arrangiare.

Mio fratello fu il primo: dopo qualche anno dovette fuggire dall’intolleranza di un padre che non sapeva (o non voleva) insegnare con pazienza il lavoro; e poi toccò a me. Di qualche anno più giovane, ma con uno spirito ancora più indomito, non potei tollerare che per qualche mese il modo brusco di porsi di un uomo che a stento riconoscevo da quello che mi era sempre apparso tra le mura domestiche, e, quando anche a causa di una malattia ossea che mi costrinse ad una gravosa operazione, mi dissociai definitivamente dal suo lavoro, nonostante tutto, fu un sollievo.

Dall’età di 14 anni fino a poco più dei 17 frequentai la scuola di karate stile shotokan che si teneva nella vicina Comacchio, a 16 anni cominciai a diventare vegetariano, eliminando per prima cosa le carni di animali terrestri e volatili, per arrivare, ma molto più in là, nel ’94, ad eliminare anche quella degli animali acquatici. Durante la mia frequentazione alla scuola di karate, riuscii a raggiungere la cintura blu, ma già dal gennaio ’86 la malattia cominciava a farsi sentire, e ben presto dovetti rinunciare alla via delle arti marziali per intraprendere, ad operazione riuscita, quella della musica, che meglio si addiceva alla mia mansuetudine. L’operazione chirurgica fu eseguita presso l’ospedale Policlinico di Modena, nel reparto di Chirurgia della Mano, dall’equipe del dottor Cristiani, al quale va ancora oggi la mia gratitudine per avermi salvato l’arto, che versava in condizioni, ma me lo dissero solo poi, molto gravi.

Non trascorsero che sei mesi dall’intervento, ancora ero convalescente dal trapianto osseo e dovevo scrupolosamente seguire una terapia idonea al consolidamento dei tessuti, che venni chiamato alle armi.

Avevo da 3 mesi compiuto vent’anni.

Qui urge una spiegazione: come mai così in ritardo per la leva, quando solitamente a quei tempi si veniva chiamati a 18? Nessun mistero.

Successe, 2 anni e mezzo prima, che nella mia superficialità protratta dall’adolescenza, feci la domanda per entrare nell’arma dei carabinieri. Due mesi dopo l’operazione, soprattutto a scopo terapico avevo iniziato lo studio della batteria, proprio quell’anno (siamo nel 1987). E solo da qualche mese mi dilettavo a percuoter bidoni; nel mentre che una mattina facevo confusione, mi entrarono in camera i carabinieri: “Perdinci! Faccio così chiasso?!?”, invece no, dopo oltre due anni avevano valutato la mia domanda di ammissione e l’avevano accettata, aspettavano solo la mia conferma. Io confermai che no, non volevo fare il carabiniere, e dopo circa un mese, il 27 aprile, dovetti partire alla volta di Albenga per affrontare la dura vita militare. Il C.A.R. fu una merda! Dopo tre giorni che ero in caserma mi spedirono a Savona, all’ospedale militare, e vista l’enorme cicatrice del trapianto, ancora rossa, la mobilità limitata dell’arto, invece di rispedirmi a casa per ricevere le cure del caso, mi declassarono solamente, in maniera che non potessi fare cose troppo pesanti, ma che, comunque, dovessi fare la Naja. Passarono i mesi tra imboscamenti al centralino della caserma di Aviano, alla quale ero stato assegnato dopo il C.A.R., in provincia di Pordenone, tra uscite al paese e fumate in camerata. Al decimo mese, durante una licenza, marcai visita e mi recai all’ospedale di Bologna: cose da matti! Dopo aver visionato la cartella clinica dell’intervento, ed avermi sottoposto ad un’attenta visita ortopedica, decisero che dovevo essere esonerato dal servizio militare! Dopo dieci mesi!!! Oltre al danno la beffa: nonostante abbia fatto dieci mesi di militare, è come se non lo avessi fatto per inidoneità. Mi recai alla caserma di Aviano un’ultima volta, quell’anno e per sempre, per portare a casa alcuni effetti personali che erano rimasti là, così ne approfittai per salutare alcuni miei amici commilitoni, coi quali fumavamo pacchetti di MS a partire già dalle 7 del mattino, per finire alla sera con le canne che ci conciliavano un sonno tranquillo, a dispetto dello squallore del luogo dove ci trovavamo. Ricordo con enorme soddisfazione, le bevute fatte nella storica enoteca di Pordenone, bellissimo locale su tre piani: vino e grappe di un’eccellenza unica.

Venne il tempo del primo lavoro e del primo amore serio: il 1988.

Il primo lavoro consisteva nel gestire la cucina di una piccola enoteca, situata in una viuzza della vicina Codigoro; ero assunto come aiuto cuoco, col contratto di “formazione lavoro”, ma di fatto ero il cuoco, senza aiuti, ma con l’insegnamento del proprietario che conosceva l’arte culinaria, e che ebbe molta pazienza ad insegnarmela. Il primo amore serio, nel senso che si smise di ridere quando dovetti presentarmi ai genitori di lei, lo ebbi con una ragazza mia coetanea, di Comacchio, conosciuta sulle spiagge dei lidi ferraresi. Il lavoro, benché mi piacesse molto, anche se dovevo preparare pietanze a base di carne, durò pochi mesi, a natale di quello stesso anno ebbi un diverbio col titolare e venni licenziato. Il primo amore serio durò un po’ di più, circa 3 anni e mezzo; a gennaio del 1991 ci lasciammo per incompatibilità nel’intendere le priorità della vita. Il lavoro: l’anno seguente, l’89, lo passai, d’estate, a raccogliere angurie nelle campagne; le meravigliose e buonissime angurie che solo dalle mie parti sono così speciali. Poi, dall’autunno, iniziai un’avventura lavorativa che, benché fosse solo un lavoro stagionale, si protrasse per oltre 10 anni, inframmezzata con due piccole esperienze in fabbrica, nel settore chimico; durata una anno e mezzo la prima, che mi costò la perdita totale dell’olfatto ad opera dei solventi devastanti che usavamo senza nessuna protezione, che mi bruciarono le mucose nasali; mi ci vollero quasi dieci anni per recuperare in parte l’olfatto, e tuttora non ho una percezione normale degli odori, anche se ritengo di averlo recuperato del tutto; durata sei mesi la seconda esperienza lavorativa, presi servizio in una fabbrica dove si lavorava la gomma, a Fusignano, nel Ravennate; si chiamava “Evergomma”, ora non esiste più, dove ero carrellista di reparto; dovetti cessare la mia collaborazione per un rapporto squilibrato tra stipendio e spese sostenute per andare fin là e soggiornarvi. L’avventura lavorativa decennale è stata quella dell’essiccatoio. Si essiccavano i raccolti di riso provenienti da tutto il basso ferrarese, ma arrivavano camionate provenienti anche dal vercellese e da altre parti d’Italia piuttosto lontane, era infatti un impianto di essicazione tra i più rinomati del nord Italia, gestito da una cooperativa locale, ora fallita per inettitudine dei nuovi dirigenti. Dieci anni di lavoro duro, pericoloso, ma assolutamente originale e responsabilizzante, al fianco di persone affidabili e professionali che mi trasmisero queste qualità; l’unico vero lavoro, ripeto, durissimo, ma bello, che abbia mai fatto. Ci arrampicavamo su tralicci senza nessuna cautela o protezione, ci inerpicavamo all’interno degli essiccatoi, che sono enormi silos con delle camere interne dove passa aria calda, con l’unica arma per non farsi male la nostra esperienza e accortezza. Non erano rari gli incidenti, ma mai gravi ve ne furono durante il mio servizio; l’unico che ricordo fu la perdita di tre falangi delle dita della mano, dovuto al malfunzionamento di una centralina che mise in moto un rotore nel momento meno indicato: mentre qualcuno lo stava pulendo.

Indescrivibili sono le operazioni che facevamo per svuotare le celle - o silos - del riso a base quadrata 10x10 metri, 13 metri di altezza. Vi rimaneva, sul fondo piatto, una quantità di riso che poteva variare tra i 700 e gli 800 quintali: una montagna alta anche 6 metri, interamente da svuotare a mano, con l’ausilio, ma fino ad un certo punto, di un verricello con attaccato al cavetto una specie di pala artigianale di metallo, con la quale ci arrampicavamo sopra al mucchio, la piantavamo, e, salendoci sopra, ci facevamo trainare giù in una specie di surf su riso, avendo l’accortezza di saltare giù un attimo prima di cozzare contro la parete del silos. Posso assicurare che la descrizione non potrà mai rendere la situazione: ci fu qualcuno che scappò via in lacrime per la disperazione. Ma io la prendevo con filosofia: una volta iniziato mi ci divertivo pure, nonostante le tonnellate di polvere respirata.

Nel 1994 conobbi il mio secondo amore importante, che divenne mia moglie dopo circa 4 anni, ma non avemmo la benedizione di un figlio, a tutt’oggi. Nel ’98 entrai per sei mesi in una fabbrica metal meccanica (fu durante la mia permanenza lì che mi sposai, in luglio), e fu l’assaggio di un periodo nel settore, che iniziò con l’entrata in un’altra fabbrica, alla fine dell’anno seguente, e che era il reparto di sbavatura dei getti in ghisa di una fonderia modenese, distaccata a Codigoro. Dal settembre ’98 a quasi tutto luglio ’99 lavorai per l’ultima volta, quasi ininterrottamente, all’essiccatoio, che aveva anche un capannone dedicato alla pulitura e raffinazione del riso, dove facevamo anche confezionamento per un noto marchio oltre che per la nostra ditta. Poi, la crisi dirigenziale cominciò a farsi sentire, dopo la morte per incidente stradale del presidente della cooperativa. I successori non erano all’altezza del loro compito, e ben presto si cominciò a risentirne. Quando ebbi la possibilità di avere un lavoro fisso presso le fonderie distaccate a Codigoro, presi la palla al balzo e vi entrai; ma fu una sciagura morale. Mai lavoro che feci fu così deprimente, le mie difese immunitarie in tre anni si abbassarono tanto che frequentemente ero preda di influenza ed altri malanni che interessano le vie respiratorie; era pesante anche come fatica ed il mal di schiena non tardò a punirmi per movimenti inconsulti, dovuti a un modo di lavorare che non prevedeva aiuti meccanici per sollevare pesi dall’interno di cassoni troppo alti per potercisi chinare con prudenza. Per non crepare del tutto dovetti ancora una volta cambiare. Fu così che approdai all’ipermercato dove sono sfruttato tutt’ora, dove passo le mie giornate in un ambiente che ti vuole rispettoso di tutto e tutti ma privato del rispetto verso te stesso; con uno stipendio ridicolo che ti permette a stento di pagar le bollette e che per farsi una vacanza piccola piccola necessita di enormi sacrifici, e magari anche qualche aiuto.

Una menzione speciale va al mio viaggio in India.

Dopo essermi licenziato nel 1991, dalla fabbrichetta che mi costò le mucose nasali, avendo conosciuto un gruppo che si preparava a partire per l’India, mi aggregai. Me lo potei permettere perché vivevo ancora con i miei, anche se erano già in procinto di separazione. Soggiornai in India per quattro mesi, quasi tutto il periodo ospite in un monastero assieme ad altri connazionali amici. Ebbi modo di condividere con quel popolo il loro modo di vivere, il cibo, il lavoro e la povertà che spesso lambiva anche noi occidentali nella scarsità di mezzi, ai quali siamo abituati nella nostra opulenta società. È così. Alla fine, anche se a noi può sembrare di andare indietro - ed in effetti ci si sta andando - le condizioni di molti popoli sono, per chi non li ha constatati, inimmaginabili. Ma i motivi di questa disuguaglianza sono invece uguali per tutti; si riassumono nella fame di potere e di ricchezza di una piccola parte di persone, che ha perso di vista la causa comune e si illude di inseguire un futuro luminoso che possa essere solo suo, nel totale disinteresse della sofferenza altrui.

A mia Mamma Loretta.

Nel giugno 2009, il 21, mia madre è venuta a mancare, ed è a lei che voglio dedicare questa lunga lettera autobiografica. Lei che sempre mi ha appoggiato ed aiutato nelle scelte, che mi ha salvato dalle disgrazie, che mi ha sempre amato, non senza attriti, ma con incondizionato amore di mamma. Amore eterno che io ricambio. In eterno.

ROBY BULGARO

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