LUCA TELESE
Le sconfitte dei candidati democratici travolti dall'effetto Vendola. Scelgono per esigenze d'apparato ed equilibri interni. Nessun orecchio per l'opinione pubblica
“Effetto-Vendola”, scrivono tutti i giornali, a partire dal Corriere della Sera. E l’effetto Vendola ci deve sicuramente essere, se è vero che ancora una volta il leader di Sinistra e libertà è riuscito a partecipare a una vittoria considerata impossibile, quella di Giuliano Pisapia (“Effetto Pisapia”) alle primarie di Milano. Ma questo ennesimo tracollo ripropone anche un altro problema: quello del Pd come un Re Mida al contrario, che tutto quello che tocca trasforma in metallo povero e trascina alla sconfitta. Dopo la disfatta del suo ultimo candidato, il professor Stefano Boeri, battuto di ben cinque punti nel capoluogo meneghino, il Partito democratico si interroga sullo strano paradosso che lo vuole spesso promotore delle primarie, ma quasi sempre incapace di vincerle.
E dire che i segnali – a Milano come a Bari ieri, a Bologna come a Torino domani – ci sono sempre. Quasi sempre il Pd sceglie i suoi uomini “a prescindere”: li sceglie per esigenze di apparato, per contrappesi di equilibrio interni, egemonici, correntizi, o burocratici. Che garanzie di discontinuità poteva dare “l’archistar” Boeri, l’uomo degli appalti al G8 e il grande mattatore dell’Expò? Poche, almeno sul piano simbolico. Eppure fino a ieri, nessuno nel Pd sembrava ascoltare queste argomentazioni. “Abbiamo sbagliato a sottovalutare questo aspetto – dice oggi il segretario regionale Pierfrancesco Majorino – ma da stasera siamo già ventre a terra per Pisapia”. Altro paradosso: ieri Claudio Fava numero due di Sel e lo stesso Pisapia erano impegnati a ripetere “Senza il Pd non si vince”, per rassicurare il gruppo dirigente. E così, per ricostruire le ragioni di questa crisi bisogna partire da quello che accadde a Roma.
Walter Veltroni e il gruppo di comando del Pd nel 2008 scelsero Francesco Rutelli come possibile primo cittadino della Capitale, per risolvere una grana interna, sanare il vuoto di potere lasciato dalla candidatura di Veltroni, garantire l’establishment economico della città. Quella volta il partito riuscì a negare le primarie, ma gli elettori le celebrarono nelle urne, con due dati clamorosi: nello stesso giorno l’ex diessino Nicola Zingaretti prendeva più voti vincendo la provincia, e al ballottaggio Alemanno prendeva più voti di Rutelli, soprattutto nei quartieri popolari.
A Bari le cose andarono ancora peggio: per due mesi – con l’eccezione di Arturo Parisi – la linea del partito fu: “Niente primarie”, per impedire a Vendola di vincerle. Il principale sostenitore del “niet”, come è noto, era Massimo D’Alema, che in quella campagna mise eroicamente la faccia (e altrettanto eroicamente la perse). A imporre la consultazione non furono gli iscritti di Sinistra e libertà ma quelli dello stesso Pd. Come andò a finire è noto: Vendola sbaragliò il candidato paracadutato da Roma, Francesco Boccia con percentuali bulgare, arrivando a toccare il 73% e a vincere persino senza i soldi raccolti con le consultazioni che il Pd per ripicca non mise a sua disposizione. A Firenze accadde ancora di peggio. Matteo Renzi racconta sempre che la spinta decisiva gliela diede Massimo D’Alema, con un invito sarcastico: “Se uno vuole essere eletto si candida e cerca i voti”. Detto fatto, Renzi prese la palla al balzo: e si trovò a correre contro tre candidati che erano altrettanto marziani. Una era l’espressione dell’assessore Cioni (bloccato da una inchiesta), l’altro era l’uomo di D’Alema (Michele Ventura), e l’ultimo (il candidato ufficiale della segreteria) Lapo Pistelli, un simpaticissimo figlio d’arte, che però era espressione della corrente (allora esisteva ancora) Veltroni-Franceschini.
Anche a Taranto, il medico Ippazio Stefàno, già amatissimo parlamentare del Pci (altro pupillo di Vendola) aveva sbaragliato il concorrente designato dalla segreteria: Giovanni Florido. In tutti questi casi il paradosso più grottesco era stato che gli sconfitti avevano vaticinato una immancabile sconfitta dei vincitori, sostenendo che si trattava di leader troppo radicali.
Se scomponete e ricomponete queste storie, scoprite che ci sono delle costanti che si ripetono con allarmante regolarità. La prima è l’illusione di quel gruppo dirigente che gli elettori, se insistono, alla fine si arrenderanno alla forza degli apparati (accade regolarmente il contrario). La seconda è la sovrastima del peso degli apparati sugli elettori. La terza è la drastica distanza di questi apparati dagli umori reali dell’opinione pubblica.
A Bologna, se possibile, la situazione è ancora più complicata, e un sondaggio pubblicato la settimana scorsa dall’agenzia Dire ha avuto l’effetto di un detonatore. L’apparato del Pd aveva già opposto una resistenza strenua al suo uomo più popolare (che pure ha la tessera) Maurizio Cevenini. E poi, quando i suoi improvvisi guai cardiaci hanno ridestato il desidero dei notabili, si è prodotto il patatrac. Ancora la settimana scorsa, per esempio, c’era un candidato, di area, molto popolare e stimato, il professor Andrea Segrè, preside di agraria, indicato in testa dalle rilevazioni. Ma Segrè era un esponente della società civile, non controllabile da nessuno e gli apparati del Pd lo hanno accolto con tale freddezza che l’interessato ha gettato la spugna: “Non corro più”. Così, l‘unica alternativa ai tre uomini di area Pd, (fra cui il vero capo del partito, Andrea De Maria) resta la cattolica progressista Amelia Frascaroli, seconda nei sondaggi, sitmatissima. E chi viene a sostenere, il 25 novembre Vendola, non appena tornato dall’America? Proprio lei. Il bello è che la strategia delle primarie Vendola l’aveva nella testa fin dal congresso delle fabbriche in Puglia, quando le sue sembravano fantasie ottimistiche: “A Milano vincerà Pisapia, a Roma vincerò io”. Intanto, lo stesso sondaggio della Dire, cita un dato sconvolgente: Sel sarebbe al 13.5% all’ombra delle due torri. Fino a ieri incredibile. Oggi, dopo Milano, possibile.
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