La scena è da film western con Ben Bernanke, il capo della Federal Reserve, nei panni del generale Custer. Accerchiato dai nemici e abbandonato dagli alleati, il banchiere centrale si è trovato con un solo colpo in canna, che ha sparato la settimana scorsa: stampare 600 miliardi di dollari per comprare obbligazioni del Tesoro americano. A differenza di Custer, la cui fine era certa sin dall’inizio dello scontro con gli indiani a Little Big Horn, non sappiamo ancora se Bernanke - un signore all’antica che la giubba blu della cavalleria americana non la porterebbe male - uscirà vittorioso da quest’ultima battaglia. Ci vorranno parecchi mesi per capire se quest’iniezione di capitale riuscirà ad abbassare ancora i tassi di interesse e debellare una volta per tutte i due grandi mali che affliggono l’economia Usa: la disoccupazione e la crisi delle case. Per ora due cose sono certe. La mossa della Fed ha galvanizzato i mercati, che sono saliti nella speranza che la nuova ondata di liquidità convincerà gli investitori a comprare azioni. Ma ha anche depresso il dollaro, creando tensioni enormi tra gli Stati Uniti da una parte e l’Europa, la Cina e il Giappone dall’altra alla vigilia di un summit importante del G20. Questa seconda conseguenza è forse la più preoccupante per le sorti dell’economia mondiale e potrebbe portare a una rivoluzione nelle regole del commercio internazionale. In teoria, l’acquisto da parte della Fed di beni del Tesoro sarebbe una decisione di natura prettamente interna. Come mi ha detto un alto funzionario della Fed, «gli unici lavoratori americani a non essere disoccupati sono quelli delle zecche di Stato». Il problema per gli Stati Uniti e il resto del mondo è l’effetto che la creazione improvvisa di 600 miliardi di dollari ha avuto sul valore del dollaro. L’emissione a raffica di nuove banconote ha indebolito la divisa americana, soprattutto se paragonata all’euro, alla sterlina e allo yen (e persino al dollaro australiano). La svalutazione del dollaro ha reso i prodotti made in Usa molto più competitivi sui mercati mondiali, spiazzando Paesi come la Germania, il Brasile e il Giappone che contano sulle esportazioni per risollevarsi dalla crisi. Vista la fragilità dell’economia mondiale, l’annuncio di Bernanke ha scatenato uno stillicidio di accuse contro gli Stati Uniti. Dilma Rousseff, la nuova presidentessa brasiliana, è stata la più pesante quando ha tuonato che «l’ultima volta che c’è stata una svalutazione delle monete, questa ha portato alla Seconda guerra mondiale». (La memoria della signora non è granché. Si è dimenticata che Paesi come l’Italia e la Spagna hanno tranquillamente svalutato in più occasioni negli Anni 70 e 80 senza creare conflitti armati...). I cinesi, naturalmente, hanno colto la palla al balzo, anche se il cambio fisso tra lo yuan e il dollaro li protegge dal calo della divisa Usa. Pechino ha rimproverato alla Casa Bianca il forcing sulla svalutazione della valuta cinese, accusando gli americani di predicare bene e razzolare male. La risposta di Barack Obama fino ad ora è stata un’eco della famosa frase di John Connally, il segretario del Tesoro nel governo Nixon: «La moneta è nostra, il problema è vostro». Il presidente Usa ha respinto le accuse, ricordando che «la crescita dell’economia americana fa bene al mondo intero». Come spesso in politica, le polemiche celano una questione seria. A trent’anni dalla riforma degli accordi di Bretton Woods, che mise fine ai tassi di cambio fissi tra monete e lasciò ai mercati il compito di decidere il valore dei soldi, il mondo è alla ricerca di un nuovo sistema per dirigere il commercio internazionale. Il paradosso è il seguente: l’economia americana è in declino sia in termini assoluti che in relazione a Paesi quali la Cina, l’India e il Brasile, ma il dollaro rimane la divisa guida per lo scambio di merci e beni tra Paesi. Questa discrepanza fa sì che il resto del mondo sia molto suscettibile ai movimenti nella politica economica americana. La reazione dei governi stranieri ai 600 miliardi di dollari della Fed hanno confermato il vecchio adagio: «Quando l’America starnutisce, il mondo si prende la febbre». Le difficoltà sono esacerbate dal fatto che gli Usa hanno contratto debiti altissimi nei confronti del resto del mondo per sovvenzionare un deficit di bilancio interno ormai gigantesco. Nonostante quanto sostenga Obama, l’America del 2010 non è in una posizione ideale per guidare la ripresa dell’economia mondiale. Ha ragione Wolfgang Schaeuble, il ministro delle Finanze tedesco, quando dice che il «modello di crescita all’americana è nel mezzo di una crisi profonda». Il problema è che né la Germania né il Brasile né gli altri critici della locomotiva America sono in grado di soppiantarla. Nemmeno la Cina rampante e aggressiva degli ultimi anni ha la voglia o le risorse per diventare una strapotenza commerciale a breve termine - non con un’economia e una moneta controllate con il pugno di ferro dal partito comunista. L’accordo probabile al G20 sarà vago e sembra aver fatto poco e nulla per rassicurare gli investitori spaventati dallo spettro del protezionismo, almeno a giudicare dalla performance delle Borse questa settimana. È per questo che gli esperti parlano di soluzioni multilaterali: dalla Pax Economica Americana a una Yalta del commercio estero. Robert Zoellick, un vecchio marpione della finanza che ora è a capo della Banca Mondiale, ha sorpreso tutti quando ha proposto, sulle pagine del «Financial Times» la settimana scorsa, un «nuovo Bretton Woods». Secondo lui il ritorno di tassi di scambio fissi tra monete legati al prezzo dell’oro aumenterebbe la stabilità di un’economia internazionale che è sin troppo imprevedibile, ridurrebbe la dipendenza di altri Paesi dal dollaro e darebbe tempo ad altre divise di diventare monete guida in futuro. Io non sarei così sicuro. Zoellick sembra dimenticare che la rigidità del «gold standard» - il sistema economico legato all’oro in vigore nella prima parte del ventesimo secolo - contribuì all’avvento della Grande Depressione in America. La crisi delle monete è solo un sintomo di un malessere più vasto. La divergenza tra Paesi emergenti che hanno costruito i loro miracoli economici sulle esportazioni e hanno usato i guadagni per finanziare il debito di nazioni più mature e con meno crescita, non è sostenibile. La svalutazione del dollaro è un tentativo un po’ maldestro e rischioso di ribilanciare un’asimmetria che ha minato la crescita mondiale. Ma se i rinforzi non sono pronti, le sorti dell’economia internazionale saranno legate alla cavalleria americana, anche se indebolita, accerchiata e con poche munizioni. *caporedattore finanziario del Financial Times a New York francesco.guerrera@ft.com |
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