martedì 16 novembre 2010

A PROPOSITO DI FELTRI E D’AVANZO


di Antonio Padellaro

Considero le beghe tra giornalisti un genere deteriore e di scarso interesse per i lettori, ma l’essere stato trascinato “nell’Italietta del quieto vivere”, che “assolve Feltri e la sua ‘macchina del fango’” (Giuseppe D’Avanzo su Repubblica di domenica 14 novembre) mi costringe a una qualche replica.

Conosco Vittorio Feltri da una vita, da quando, cioè, entrambi giovani redattori del Corriere della Sera ci trovammo schierati su fronti opposti ai tempi della direzione di Alberto Cavallari.

Assieme a colleghi come Ferruccio de Bortoli, Antonio Ferrari, Marzio Breda, Maurizio Chierici, Roberto Martinelli, Alfonso Madeo, per citarne solo alcuni, ci trovammo a difendere la direzione di un grande giornalista e di un grande galantuomo che aveva risollevato il Corriere dal fango della P2 su esplicita richiesta del capo dello Stato Sandro Pertini, ma trovandosi contro l’allora potentissimo Bettino Craxi.

Pur di cacciare Cavallari, Feltri e i manipoli craxiani non esitarono a scatenare la guerra civile nella stanze di via Solferino, fino a quando, nell’84, dopo tre anni di calvario Cavallari fu costretto ad andarsene sostituito da Piero Ostellino in un tripudio di garofani.

Fu una pagina drammatica e cruciale per il giornalismo italiano che prefigurò quella sottomissione dell’informazione ai potentati di ogni risma e colore, oggi sotto gli occhi di tutti. Ma a quei tempi, forse, D’Avanzo, ignaro, muoveva i primi passi nei commissariati di polizia.

Da allora tutto mi ha diviso da Feltri e non poteva essere diversamente avendo egli deciso di mettersi al servizio degli interessi di Silvio Berlusconi tutto sacrificando sull’altare del padrone: anche quel talentaccio che è difficile non riconoscergli.

MI RIPUGNA tuttavia, che per qualsiasi ragione al mondo a qualcuno venga impedito di esprimere le proprie pur malsane idee. Questo ho detto quando sono stato interpellato sulla sospensione inflitta al direttore del Giornale dall’Ordine dei giornalisti per aver calunniato Dino Boffo sulla base di un’informativa spacciata per vera e poi rivelatasi falsa.

Come ha scritto su queste pagine Pino Corrias “che si possa lontanamente risarcire quella porcata con l’imposizione del silenzio può venire in mente solo a un tribunale di blanda inquisizione”.

Trovo che se scriviamo delle mascalzonate il discredito presso i lettori e i rigori della legge, niente affatto tenera con i calunniatori, bastino e avanzino. Avrei potuto blandire l’Ordine dei giornalisti davanti al quale sarò condotto lunedì prossimo con l’accusa di avere “danneggiato” nientedimeno, “la reputazione e la dignità” di Augusto Minzolini a proposito dell’indagine avviata nei confronti del direttore del Tg1 dalla Procura di Trani. Reati spaventosi (l’aver scritto che era indagato per concussione mentre lo era per rivelazione di segreto, notizia subito corretta) da cui mi difenderò rispettando un obbligo che non condivido.

Per D’Avanzo che per così poco mi ha insultato inserendomi in una “policroma assemblea di Tartufi” (non il tubero ma persone che nascondono sentimenti immorali sotto un’apparenza di onestà), un paio di osservazioni.

La prima. Feltri si mostra per quello che è. Scrive spesso cose orrende ma almeno non pontifica in continuazione e non si ritiene depositario del Verbo. Non attacca il direttore di un altro giornale solo perché quel giornale toglie copie a quello che gli paga lo stipendio. Ciò secondo lo stile scarsamente elegante di una casa, il cui solo dotato di un pizzico di autoironia è il padrone Carlo De Benedetti (il cui libro-intervista con Paolo Guzzanti per qualche irriverenza sui Soloni di Repubblica non a caso si è meritato su quel quotidiano una recensione di sei righe sei). Infine, il pessimo Feltri non propina ai lettori articolesse di vasta metratura spesso non distinguibili l’una dall’altra (abitudine che richiederebbe, questa sì, un deciso intervento dell’Ordine).

SECONDA considerazione. D’Avanzo tuona e fa bene, contro la “macchina del fango” attivata da Feltri e dai suoi epigoni ma dimentica una circostanza altrettanto fangosa che lo riguarda. Quando nel maggio 2008 Marco Travaglio osò ricordare in tv a Che tempo che fa che Renato Schifani, appena eletto presidente del Senato, con la benevola astensione del Pd “aveva avuto amicizie e rapporti con signori che poi sono stati condannati per mafia”, D’Avanzo lo attaccò con tre articoli su Repubblica accusandolo di seminare l’“antipolitica” e di fare del “cattivo giornalismo” che “indebolisce le istituzioni”. Poi buttò là - citando un avvocato - che Travaglio, in vacanza in Sicilia, si era fatto pagare l’albergo dal costruttore Aiello, nel frattempo condannato per reati di mafia. Travaglio dimostrò poi di non aver mai conosciuto Aiello e, ricevute alla mano, di essersi sempre pagato le vacanze fino all’ultimo euro. Ma D’Avanzo non gli chiese mai scusa per quelle gravissime insinuazioni. Né si scusò con i suoi lettori quando il Tribunale di Torino stabilì che Travaglio, denunciato per danni da Schifani, aveva detto la pura verità sui suoi rapporti con uomini di mafia.

Insomma: chi è il Tartufo? Chi è che fabbrica fango?

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

GRANDE GIORNALISTA PADELLARO. MODESTO S SCHIVO MA QUANDO VUOLE ...