mercoledì 24 novembre 2010

Quei giochi pericolosi


Non si può continuare ad affrontare la crisi che da quasi un anno attraversa i Paesi dell’euro «a spizzichi e bocconi », sempre in ritardo, senza mai risolvere i problemi fino in fondo. Per affrontare la crisi greca si impiegarono cinque mesi perché non si poteva decidere prima delle elezioni regionali tedesche. Il negoziato fra l’Europa e Dublino è durato molte settimane e la sua conclusione ha tanto convinto i mercati che la speculazione si è spostata a Lisbona senza peraltro ridurre la pressione sui titoli irlandesi. Fra qualche settimana, dopo un po’ di fibrillazione, Europa e Fondo monetario salveranno anche il Portogallo.

Sarà poi la volta della Spagna? Dopo gli interventi a favore di Grecia, Irlanda e Portogallo le risorse del nuovo Fondo europeo per la stabilità finanziaria saranno esaurite: sarà necessario rifinanziarlo ed è facile prevedere che quel negoziato richiederà una lunga trattativa. Tempi compatibili con la pressione che i mercati potrebbero esercitare su Madrid? A quel punto l’Italia potrebbe trovarsi nel mezzo di una difficile transizione politica: che accadrà alle aste dei nostri titoli pubblici? Se l’accordo non ci fosse, i problemi della solvibilità dei governi verrebbero trasferiti sulla Banca centrale europea posta di fronte alla scelta se evitare una crisi finanziaria o difendere la stabilità dei prezzi. Non tranquillizzerebbe i mercati sapere che la Bce potrebbe diventare la nuova autorità fiscale federale dell’Europa.

Mi pare un gioco al massacro dal quale l’euro (e l’Europa) rischiano di uscire a pezzi. Eppure Irlanda, Portogallo, Spagna, e a maggior ragione l’Italia, non hanno difficoltà maggiori di Gran Bretagna o Stati Uniti. Sono l’incertezza e i ritardi della politica che preoccupano i mercati e alimentano la speculazione: perché non si può essere certi che ogni crisi verrà risolta. C’è il rischio che prima o poi un ritardo, un’impuntatura facciano saltare un accordo e portino un Paese alla bancarotta. Se si vuole salvare l’euro occorre che i governi europei cambino strategia, diano una risposta politica alla crisi e la smettano di rincorrere i mercati. Ormai è chiaro che nessun Paese è disposto a rischiare la fine della moneta unica. In primis la Germania, che dall’euro sta traendo i benefici maggiori.

Ma fino a che punto sono pronti a pagarne il prezzo? Dieci anni fa, quando si decise di adottare una moneta unica, il patto che i Paesi europei sottoscrissero era molto chiaro: nessuno avrebbe lasciato crescere il debito pubblico oltre il 60%. Chi, come l’Italia, si trovava al di sopra di quella soglia, si impegnava a raggiungerla «ad una velocità adeguata». Un debito pari al 60% del reddito nazionale era quindi il livello considerato «normale ». Bene, si mantenga quel patto e ci si impegni a garantire il debito di tutti i Paesi dell’euro entro quella soglia. Gli effetti sui mercati sarebbero immediati. La Spagna, ad esempio, finirà l’anno con un debito pari al 65% del reddito, 5 punti solo sopra la soglia. Ciò significa che praticamente l’intero debito spagnolo sarebbe automaticamente garantito dall’Unione.

Il Portogallo ha un debito maggiore, l’85%, ma se il 60% fosse garantito, gli investitori non si preoccuperebbero certo della solvibilità di Lisbona. E l’Italia, che ha un debito doppio rispetto alla soglia, dovrebbe far leva sulla stabilità del suo sistema finanziario. Il nuovo Fondo europeo diverrebbe l’embrione del federalismo fiscale dell’Unione: non senza vincoli, come di fatto sta avvenendo oggi, ma con una soglia di interventi ben chiara. Limitare la garanzia al livello pattuito nel Trattato avrebbe anche l’effetto di ridurre l’azzardo morale. Oggi, se scoppia una crisi, non c’è altra scelta che garantire tutti i titoli di un Paese. Gli incentivi, sia dei mercati che dei Paesi, sarebbero molto diversi se fosse chiaro che oltre il 60% ciascuno deve risolvere i propri problemi da solo.

Francesco Giavazzi
24 novembre 2010

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