di Nicola Tranfaglia
Riappaiono per un momento sulla scena personaggi politici che molti avevano dimenticato, o che stavano per entrare nel passato, ma che avevano ricoperto ruoli decisivi in quel rapido tramonto del sistema politico italiano che portò uomini come Amato e Ciampi a presiedere governi di transizione prima della clamorosa discesa in campo di Silvio Berlusconi.
ED ECCO il ministro della Giustizia Giovanni Conso, un austero professore di Procedura penale dell’Università di Torino, chiamato a fare il Guardasigilli da Amato e poi da Ciampi per poco più di un anno, dal febbraio del ’93 all’aprile 1994, ricordare a distanza di diciassette anni che era stato proprio lui a decidere di non rinnovare l’articolo 41-bis per il carcere duro ai mafiosi informando l’ex direttore degli Affari penali Liliana Ferraro, succeduta in quell’incarico a Giovanni Falcone, ucciso da Cosa Nostra
il 23 maggio 1992. E subito dopo l’ex ministro della Giustizia del governo Amato, Claudio Martelli (costretto di colpo a dimettersi il 10 febbraio 1993 perché indagato in relazione al conto Protezione), smentisce e ricorda che l’ex direttore del Servizio Penitenziario Nicolò Amato, che rivendica ancora oggi di aver fatto con Giovanni Falcone il decreto sul 41-bis, era stato sempre contrario a quella misura detentiva e, dunque, non poteva essere d’accordo con il giudice palermitano su quel decreto.
IN QUESTO alternarsi di ammissioni e di smentite l’ex vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura e a lungo presidente dei deputati democristiani alla Camera, Nicola Mancino, ha dichiarato di recente alla commissione Antimafia presieduta da Pisanu che nel 1992 si parlava delle due ali contrapposte di Cosa Nostra, l’ala militarista di Totò Riina (che sarebbe stato arrestato nel gennaio 1993 per volontà di una parte della mafia, a quanto pare) e l’ala dialogante di Bernardo Provenzano.
Ma, come ha notato il senatore Li Gotti della commissione Giustizia, nel 1992 nessuno poteva parlare, come fanno oggi Mancino e Amato, di una divisione dei mafiosi tra oltranzisti e dialoganti sicché appare chiaro che un primo accordo era stato raggiunto dopo la morte di Falcone e di Borsellino, tra settori determinanti dello Stato e del governo in carica e Cosa Nostra, cedendo alla richiesta pressante dei mafiosi di allentare il carcere duro deciso in un primo momento dal governo Amato.
È da qui che bisogna partire ora nell’inchiesta che i giudici di Caltanissetta stanno conducendo ancora su quelle trattative che hanno caratterizzato non la fine delle trattative tra Stato e mafia, che non è mai avvenuta dopo il 1943, ma il tentativo a quanto pare riuscito, di giungere a una nuova coabitazione tra
Obiettivo importante per interrompere l’offensiva stragista di Cosa Nostra, i nuovi progetti di attacco allo Stato e trovare un accomodamento fruttuoso in grado di far vincere la nuova tattica di Provenzano e il perpetuarsi degli affari legati alla politica che abbiamo visto negli ultimi vent’anni, con una particolare accentuazione da quando Silvio Berlusconi ha conquistato il potere e ha garantito per molto tempo il silenzio o quasi, dei mezzi di comunicazione, a cominciare dai canali televisivi, per non disturbare i manovratori.
È ORMAI chiaro, grazie alle testimonianze, pur reticenti e imbarazzate dei politici di quegli anni, che la trattativa in piedi dagli inizi della Repubblica con le associazioni mafiose, di cui Cosa Nostra era in quegli anni la capofila (oggi, di sicuro, è
E questa consapevolezza, che trasforma a poco a poco la cronaca di quegli anni in episodi storici, pesa sulla politica di oggi malgrado il tentativo di molti di non tenerne conto.
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