di Bruno Tinti
Lungo viaggio in macchina. Alla radio si susseguono trasmissioni sul referendum. Telefonate e sms di cittadini. Molti dicono che non andranno a votare, che non ci capiscono niente. Alcuni spiegano di voler impedire il raggiungimento del quorum e se la prendono con il presidente della Repubblica che non avrebbe dovuto, secondo loro, annunciare la sua intenzione di recarsi al seggio (“io sono un elettore che fa sempre il proprio dovere”): in questo modo influenza gli elettori, dicono con toni alterati, non è al di sopra delle parti, non è imparziale.
Io penso tristemente all’infimo livello di cultura politica raggiunto dal nostro Paese; e mi chiedo se l’istituto del suffragio universale per caso non debba essere rivisto.
Cominciamo dal “dovere” di votare. Ovviamente le elezioni non sono una competizione sportiva, non servono per far godere il tifoso della squadra vincitrice e deprimere quello della sconfitta. Le elezioni servono per stabilire quale deve essere il modello di gestione del Paese. Un cittadino che utilizza le risorse nazionali non può sottrarsi al dovere di concorrere a stabilire come dovranno essere predisposte. E nemmeno può dichiararsi estraneo al confronto tra sistemi politici: la responsabilità di garantire libertà, cultura, prosperità gli appartiene per il solo fatto di essere cittadino.
Tutto questo è, se possibile, ancora più vero nel caso di referendum. Scelte come energia nucleare, acqua pubblica, immunità dei vertici della classe dirigente, contengono in sé le radici di cambiamenti profondi per la nazione. E tanto più la decisione su questi cambiamenti è diretta e non mediata attraverso la delega alla classe politica, tanto più la responsabilità a determinarli in un senso o nell’altro è irrinunciabile.
Ma, dicono, far mancare il quorum è una modalità di partecipazione: non voglio che questa o quella legge sia abrogata; non sono sicuro di raggiungere la necessaria maggioranza; utilizzo quindi un modo diverso per far prevalere la mia volontà politica.
Solo che questa non è democrazia, è trucco da baro, sabotaggio, spregiudicatezza civica. E c’è di più.
Non è un caso che la classe politica veda i referendum come il fumo negli occhi: ne percepisce, giustamente, la carica di delegittimazione nei suoi confronti, il contenuto di controllo diretto della gestione pubblica, l’inequivoca bocciatura se l’abrogazione ha successo.
Adoperarsi per far mancare il quorum significa, al di là della questione contingente, rinunciare al corretto rapporto governanti-governati; significa perdere l’occasione di ribadire che i governanti sono al servizio dei governati e non il contrario.
Alla fine questa storia del quorum mi ha fatto capire che votare non significa andare al seggio e mettere una croce su un pezzo di carta. Votare significa scelta consapevole. Ed è qui, ho pensato, che mi piacerebbe una rivoluzione.
Mi piacerebbe che la concreta possibilità dell’elettore di adottare scelte consapevoli venisse verificata.
Cosa è
Educazione civica di base.
Se non c’è, ha senso consentire a un cittadino indifferente, disinformato ed egoista, di partecipare alla vita politica di un paese di cui, sostanzialmente, non gli importa nulla?
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