E passi per i tanti militanti che affollano il pratone di Pontida vestiti da Alberto da Giussano, con mantello, spadone e tutto il resto, nonostante i trenta gradi all’ombra. E passi anche per quelli che sfoggiano elmi da unni o da vichinghi, con belle corna lunghe e arcuate.
Ma quando in attesa dell’arrivo di Bossi il segretario della forte Lega di Bergamo chiama sul palco «i templari del bel fiume Serio» - e loro sul palco ci salgono davvero - allora il dubbio svanisce, e si può dire con certezza che da queste parti qualcosa non va: o almeno non va più. E non va più perché il folklore va bene quando adorna e rappresenta - come è stato fino a ieri - una linea corsara, furba e spesso fin troppo aspra; ma quando quella linea non c’è più, quando l’affanno è evidente e il Capo non ha una rotta da indicare alla sua gente, allora non resta che il folklore: e di folklore anche una forza come la Lega, ben radicata nelle valli di quassù, lentamente può morire.
Forse è questo, al di là degli ultimatum veri o presunti spediti all’indirizzo di Silvio Berlusconi, il messaggio che arriva da Pontida: il vecchio Carroccio è nei guai, fermo e incerto sulla via da imboccare perché scosso e stupito - forse perfino più del Pdl - dal doppio capitombolo elezioni-referendum. La battuta d’arresto ha lasciato cicatrici profonde in un partito non abituato alla sconfitta: e la reazione, a cominciare dal gran raduno di ieri, non sembra affatto all’altezza dei problemi che ha di fronte. E’ come se, gira e rigira, la Lega avesse esaurito la propria spinta propulsiva, fosse d’improvviso a corto d’argomenti e a nulla servisse - anzi - riproporre gli stessi con più enfasi e più durezza.
E’ un problema non da poco perché - al di là delle tattiche su quando e come votare - riguarda il futuro stesso del movimento. Ed è un problema - alla luce di quel che si è visto e sentito ieri a Pontida, tra bandieroni e facce dipinte di verde - che la Lega farebbe bene ad affrontare. Dovrà chiedersi, per esempio, quale ulteriore forza espansiva può avere un movimento che chiede la fine dei bombardamenti in Libia non perché lì continuino a morire donne e bambini, ma perché costano troppo e poi finisce che arrivano nuovi immigrati a Ponte di Legno o a Gallarate. O che ha individuato l’approdo della Grande Guerra a Roma ladrona nella richiesta che almeno qualche ministero, anche di serie B, venga trasferito al Nord. Si può crescere ancora con slogan e obiettivi così? Forse nelle valli. O lungo le sponde di fiumi custoditi dai templari... Ma già se si guarda a Milano, moderna capitale del Nord, occorrerebbe interrogarsi sul perché alle ultime elezioni solo un cittadino su 10 ha deciso di votare Lega. Quella della modernità - modernità di linea, di organizzazione e di idee e proposte per il Paese - è un’altra questione che ieri a Pontida è saltata agli occhi in maniera ineludibile. Sembra paradossale dirlo della Lega che al suo irrompere sulla scena modernizzò non poco in quanto a temi (quello della sicurezza nelle città, per dirne uno) e perfino in quanto a proposte istituzionali (il federalismo): ma ieri il folklore e il richiamo all’identità, utilizzati per supplire all’assenza di linea, sono apparsi d’improvviso vecchi, inattuali e quasi figli di un’altra epoca. Tra un supermercato e un nuovo grande parcheggio, la modernità sta letteralmente (e simbolicamente) mangiandosi il pratone di Pontida: e a fronte dei tanti cambiamenti, la Lega risponde riscoprendo la secessione (tema degli esordi), l’identità padana e inasprendo la lotta ai clandestini (triplicato il tempo di internamento nei Cie). Difficile andar lontano, così. E difficile anche - se non in virtù dei meri numeri - mettere davvero spalle al muro l’amico-nemico Berlusconi.
Se serviva una controprova di quanto fosse ormai logorato il rapporto tra la Lega e il premier, ieri la folla di Pontida - una gran folla, come solo nei momenti di grandi vittorie o di grandi difficoltà - l’ha fornita. Fischi ogni volta che veniva citato il suo nome, grandi striscioni per invocare «Maroni premier». Bossi ha definito la leadership di Berlusconi alle prossime elezioni «non scontata»: ma si è dovuto fermare lì, avendo chiaro che una parola in più lo avrebbe spinto in un vicolo al momento del tutto cieco. Il punto è che la base leghista - antiberlusconiana per ragioni quasi antropologiche e caricata per anni a pallettoni fatti di slogan duri e modi spicci - digerisce sempre peggio certe prudenze (obbligate) del Gran Capo. E’ a Berlusconi, alle sue ossessioni giudiziarie e ai suoi bunga bunga che vengono infatti attribuite le sconfitte dolorose non solo di Milano ma di Comuni-simbolo nell’iconografia leghista, da Gallarate a Desio, fino a Novara. A fronte di questo, la prudenza dei capi è sempre meno accettata, e molti non nascondono di avercela anche con chi, nella Lega, si sarebbe «romanizzato»...
Un’immagine, ieri, ha colpito molti dei cronisti accorsi a Pontida. E’ accaduto quando, poco prima dell’arrivo di Bossi sul palco, volontari del servizio d’ordine leghista hanno sequestrato e poi minuziosamente sbrindellato un lungo striscione bianco con delle frasi vergate in nero: «Datevi un taglio. Abolite le Province e dimezzate il numero dei parlamentari. Ce lo avevate promesso». Una contestazione figlia dei furori del passato, certo; e frutto, magari, di quelle compatibilità politiche che nessun capo leghista, nelle valli, ha mai spiegato ai militanti della base e ai templari che vigilano sul fiume Serio... Un problema, anche questo. E a giudicare da certi umori, nemmeno semplicissimo da affrontare. |
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Come suole affermare Marco Travaglio: "Le chiacchiere stanno a zero!"
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