giovedì 16 giugno 2011

Una guerra diventata grottesca

LUCIA ANNUNZIATA

L’altroieri la Camera dei rappresentanti Usa ha bocciato la richiesta del presidente Obama di nuovi fondi per continuare l’offensiva in Libia. «Chi metterà ora i soldi?», si chiede il ministro Maroni.

Nelle stesse ore in cui in Italia si ascoltano questi dubbi, negli Stati Uniti proprio lo speaker repubblicano di quella Camera dei rappresentanti evocata da Maroni dà un altro avvertimento a Obama: domenica, fa sapere John Boehner, scadono i 90 giorni concessi dal War Power Act del 1973 ai Presidenti Usa per decidere azioni di guerra senza permesso del Congresso. L’ultimatum di Boehner è chiaro: in questa settimana Obama deve o chiedere al Congresso il consenso a prolungare la missione contro Gheddafi o ritirarsi dalla missione.

Il dialogo fra Maroni e Boehner, di natura puramente virtuale (anche se non casuale), illumina uno dei principi cardine dei conflitti: la guerra è una scelta che non riguarda mai i principi, ma solo le opportunità. Il dibattito in corso sulla Libia ha così raggiunto un punto surreale. La Lega utilizza l’intervento in Libia contro il proprio alleato Berlusconi come leva di una potenziale crisi di governo. E a Washington i repubblicani, fino a ieri propugnatori della Guerra Preventiva, brandiscono oggi la bandiera del non intervento contro il fino a ieri anti-guerra Barack Obama. Quando la prossima volta dovremo discutere di qualche altro conflitto sarà utile ricordare il cinismo che permette con una giravolta, e così spesso, lo scambio di panni fra guerrafondai e pacifisti.

Questa inversione di ruoli porta tuttavia oggi anche a una non irrilevante presa d’atto. Il cambio di posizioni è maturata, e può esprimersi, perché la guerra in Libia si è sicuramente insabbiata. In questo caso non sono le sabbie mobili evocate, a suo tempo, per le paludi del Vietnam, ma le sabbie vere e proprie di un conflitto dispiegato in un deserto, geografico e geopolitico. Del deserto geografico non è necessario parlare. Quello geopolitico si è invece materializzato a poco a poco fino allo stallo della iniziativa politica, che è superiore solo alla paralisi militare.

Quello della Libia è - possiamo finalmente dirlo? - un conflitto da barzelletta. Una di quelle alla Totò, dove l’uso paradossale delle parole svela quanto grottesca sia la realtà. L’intervento in Libia è nato come una costruzione virtuale, con personaggi deformati per creare una narrativa credibile: la ferocia di Gheddafi, la rivolta del popolo oppresso, i colpi e contraccolpi di battaglie all’ultimo sangue, le persecuzioni, gli appelli alla solidarietà, la fuga della famiglia del dittatore, le incursioni televisive di leader e ribelli. Tutti questi eventi e immagini a novanta giorni dal suo inizio si sono rivelati per quello che sono sempre stati: chiacchiere. Oggi sappiamo - grazie anche al lavoro certosino di tanti corrispondenti - che la vicenda libica, pur non essendo priva di tensioni, aspirazioni e sangue, è però molto più prosaica. Il dittatore è il solito leader sulla strada del declino, è grasso, stanco, frustrato, e corrotto; la sua famiglia è spaventata, i suoi affiliati indecisi fra tradimento e rassegnazione; i ribelli sono gruppi disorganizzati, senza preparazione militare, senza armi, senza coordinamento, e, soprattutto, senza nessun collante ideale.

Del resto, per capire le dimensioni e la natura della guerra in Libia basta confrontarla con l’altra guerra civile in corso nel mondo arabo, la rivolta siriana in cui da mesi migliaia di uomini e donne accettano consapevolmente di farsi uccidere offrendo i loro petti, ogni venerdì, ai carri armati inviati da un’altra famiglia di dittatori nascosti dietro occhiali scuri e silenzio internazionale. È sgradevole fare paragoni di questo tipo, ma non è un caso che il numero dei morti in Siria in poche settimane abbia ampiamente battuto quello delle vittime (per altro ampiamente non verificate) libiche.

Qualcuno potrebbe offendersi per l’uso di un linguaggio così duro, ma è necessario confrontarsi con la realtà delle cose per capire dove vanno e a cosa ci portano. La guerra in Libia va male perché è una guerra mediatica, nata e gestita confusamente perché non si poteva dichiarare il suo unico e vero intento: trovare un nuovo assetto intorno al petrolio in Nord Africa.

La stessa inanità colpisce infatti questo conflitto sul suo versante Nato. La guerra in Libia ha rivelato, per converso, la perfetta debolezza militare della Alleanza Atlantica, come molto rudemente ha detto nel suo ultimo discorso prima della conclusione del suo incarico il ministro della Difesa Usa Robert Gates, che a Bruxelles ha criticato «le insufficienze militari e di altro tipo svelate dalla operazione in Libia». A lui si è unito, pochi giorni dopo, l’ammiraglio Sir Mark Stanhope, capo della Marina britannica, avvertendo che l’Inghilterra ha solo altri tre mesi di autonomia operativa. Non ha detto che la Marina britannica in Libia ha solo quattro navi anche ora che è pienamente operativa.

Siamo, dunque, al dunque: la guerra in Libia può dichiararsi ufficialmente incagliata.

Cosa succederà ora? È probabile che la de-scalation militare non verrà ufficializzata, tanto è nelle cose. Si accelererà invece la ricerca di una soluzione politica. E quale può essere, visto che non c’è la caduta del dittatore? Potrebbe essere quella che si è intravista fin dall’inizio: una partizione della Libia. Come del resto già quietamente si sta preparando con il riconoscimento del governo dei ribelli a Washington e in Europa.

Ma non è una scelta facile, come abbiamo già sperimentato nei decenni scorsi nei Balcani, e in Medioriente. I confini sono, come ben sappiamo, entità politiche e dunque fittizie, ma ogni loro violazione (ricordiamo l’invasione del Kuwait nel 1990 da parte dell’Iraq di Saddam) porta spesso a reazioni a catena, riaprendo tutti i malesseri delle rivendicazioni territoriali. In Nord Africa ci sono i popoli del deserto, artificialmente inseriti nei vari Stati della fascia araba del Mediterraneo. Ma il dossier delle rivendicazioni territoriali è molto ampio anche in Medioriente - basti pensare alla convivenza difficile fra sunniti e sciiti, come in Iraq, e alla questione curda che attraversa Iraq, Iran e Turchia.

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