Su 530 mila licenziati
in tre anni solo 1500 tornano in azienda grazie alla norma ora a rischio
di Salvatore Cannavò
Dopo la fase dello scontro frontale i rapporti tra governo e
sindacati e, segnatamente, tra il ministro Elsa
Fornero e Cgil e Cisl, provano a
spostare il terreno di confronto. È il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, a “sfidare” la
ministra del Welfare “a discutere come alzare il salario ai flessibili” per
andare davvero “incontro ai giovani”. Una modifica dell’agenda accolta da Elsa
Fornero, che si dice d’accordo “in linea di massima” ad aumentare i salari
“perché sono bassi, non è una cosa che ci sfugge”. Ma la Fornero non intende
mollare: “Non ci sono terreni inesplorati” anche se precisa che lei di articolo
18 non ha mai parlato esplicitamente. Il silenzio della Cgil va interpretato
come attesa per le sue prossime mosse mentre per Bonanni la riforma
dell’articolo 18 “mina la coesione sociale”.
Il clima preoccupa anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “Si discuta senza
rigide pregiudiziali, battute sprezzanti e contrapposizioni semplicistiche”. Ma
poi ha aggiunto: “È necessario dare seriamente la priorità alle condizioni dei non
rappresentati, dei giovani senza lavoro”.
A GIUDICARE dal dibattito in corso sembra che
l’articolo 18 sia il provvedimento a cui i lavoratori facciano più spesso
riferimento. Così come sembra sia un baluardo insormontabile per poter
licenziare “più facilmente” e agevolare quindi i giovani precari.
I
dati smentiscono questa tesi. La libertà di licenziare esiste ed è praticata largamente.
Secondo i dati Istat, tra il 2008 e il 2010 sono andati perduti 532 mila posti
di lavoro e ben tre quarti (404 mila unità) nel settore industriale. Il numero
è solo una piccola porzione del fenomeno. Se si guardano i dati, appena
resi noti dall’Inps, sui beneficiari di trattamenti di disoccupazione, mobilità
e cassa integrazione nel 2010 si scoprono circa 4 milioni di persone (3,925
milioni per l’esattezza), messi fuori dal ciclo produttivo, un terzo dei
lavoratori dipendenti assicurati dall’istituto di previdenza.
A
FRONTE di tali dati spiccano invece i ricorsi giudiziari che riguardano
l’articolo 18.
Non esistono statistiche ufficiali, ma secondo fonti sindacali si può stimare
in circa 500-600 unità i reintegri sul posto di lavoro in seguito a poche
migliaia di vertenze. Anche se la struttura industriale italiana è composta
prevalentemente da imprese sotto i 15 dipendenti (l’83,9 per cento non arriva a
10 addetti) va considerato che nelle imprese sopra i 50 dipendenti è impiegato
circa il 40 per cento della manodopera industriale. Come spiega Carlo
Guglielmi, giurista del Forum diritti-lavoro, “l’articolo 18 serve perché c’è e
non perché si utilizza in aula giudiziaria”. Funziona da deterrente e
costituisce un “potere contrattuale dei lavoratori che, contrariamente a quanto
si crede o viene detto, giova di più ai precari”. Il lavoratore precario,
infatti, nel far valere un suo diritto nei confronti di un’impresa con più di
15 dipendenti, può solo provare la regolarità della propria prestazione e
quindi essere equiparato a un contratto a tempo indeterminato beneficiario
dell’articolo 18. In
quel caso la sua vertenza giudiziaria è molto forte. “Se non ci fosse più l’articolo 18, far valere un contratto a tempo
indeterminato non rappresenterebbe più niente, perché il datore di lavoro
risolverebbe comunque il rapporto di lavoro”.
La tesi è confermata anche dal Nidil-Cgil, la
categoria che si occupa del lavoro atipico e precario. In prossimità della
scadenza del “Collegato lavoro”, la legge che ha ristretto in soli 60 giorni il
margine per poter impugnare i contratti considerati irregolari, solo alle sedi
della Cgil, sono affluite circa 10 mila denunce. Altrettanto agli altri
sindacati.
E CHE il problema sia proprio quello di
sterilizzare i margini di iniziativa dei lavoratori più deboli, riducendone
drasticamente il potere contrattuale, era chiaro già in quella legge
voluta dal ministro Sacconi. Se la normativa precedente garantiva qualche anno
di tempo a chi voleva far causa al proprio datore di lavoro, il Collegato lavoro
ha ridotto questo intervallo a soli 60 giorni (a fine mese, tra l’altro,
scadono i termini per i contratti in essere al novembre 2010).
Il Collegato ha poi introdotto due nuove norme che limitano i “poteri” dei lavoratori precari: la prima prevede che i contratti
di lavoro vengano “certificati” da un’apposita commissione al momento
della loro stipula impedendo così un eventuale ricorso al giudice. La seconda, l’arbitrato, dà
invece la possibilità al datore di lavoro di inserire nel contratto una clausola
che dice che in caso di problemi il dipendente si rivolgerà a una commissione
arbitrale invece che ai giudici. Se si toglie l’articolo 18 non resta
davvero più nulla.
1 commento:
Miseriaccia, ma allora dov'è il problema? Perché tanto accanimento?
Invece di ridurre drasticamente i tempi del processo del lavoro si vuole cancellare la 'giusta causa'?
Ma andate a fare in culo!
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