Da parecchi anni, oramai, insisto sulla distinzione tra
democrazia protettiva o difensiva, che protegge la libertà dei cittadini e che
è irrinunciabile, e democrazia distributiva, che dovrebbe distribuire ai
cittadini i benefici della democrazia, e che invece funziona sempre meno e
sempre peggio. Non mi è ancora capitato di sentirmi citare oppure contestare da
qualcuno su questa distinzione. Eppure senza la democrazia protettiva noi
ridiventiamo sudditi, non più cittadini. Il cittadino è quasi sparito dopo la
fine del mondo greco-romano, salvo qualche eccezione. Era tanto sparito che del
termine civis, cittadino e polites si era
pressoché perduta la memoria. Riappare solo con le rivoluzioni settecentesche.
Con fatica. Ricordo che in Germania il vocabolo polites ricompare
a casaccio per denotare più che altro la polizia.
Ci sono poi i partiti. Nel 1921 James
Bryce asseriva che i «partiti sono inevitabili... Nessuno ha dimostrato
come il governo rappresentativo possa operare senza». Per più di un secolo
questa è stata la comune dottrina. L'idea era che i partiti dovessero aggregare
le opinioni dell'elettorato per poi trasmetterle al governo, che a sua volta le
avrebbe recepite e, nella misura del possibile, ne avrebbe soddisfatte le
richieste.
Ma non è andata così. Tanto per cominciare, l'elezione doveva anche essere una
selezione, una selezione dei migliori. Anche a lume di buonsenso, che senso
avrebbe una selezione dei peggiori? Tanto vero che per tutto il Medioevo il
principio di scelta è stato espresso dalla formula della melior et
sanior pars. Fin quando la sciaguratissima rivoluzione studentesca degli
anni Sessanta inalberò la bandiera dell'anti-elitismo: abbasso le élites,
evviva chi le abbatte.
Confesso di non avere mai capito se gli anti-elitisti erano in verità
degli scalatori con la voglia di far presto. Certo è che gli anti-elitisti di
allora sono oggi ben sistemati in posti di potere e di comando. Erano, negli
anni Sessanta, soltanto dei furbacchioni in mala fede? Resta il fatto che
svalutando la meritocrazia otteniamo soltanto la immeritocrazia, che svalutando
la selezione otteniamo soltanto la disselezione, e che attaccando il merito
otteniamo soltanto il demerito e con esso il governo dei peggiori.
Che l'Italia sia un Paese profondamente corrotto è noto. Ma scoprire che si trova
nella graduatoria di Transparency
International al sessantanovesimo posto (per
corruzione) lascia
allibito anche me. Certo, non abbiamo un passato glorioso. La mafia, l'onorata
società, sboccia in Sicilia, per poi risalire per tutta la penisola e
diffondersi al tempo stesso negli Stati Uniti. Abbiamo anche un passato assai
più lungo. In un bellissimo libro, L'Italia
e i suoi invasori, Girolamo
Arnaldi racconta che nessun popolo è mai stato invaso quanto il nostro. A
quei tempi i barbari ammazzavano. Noi l'abbiamo quasi sempre scampata, come se
fossimo dotati del genio della sopravvivenza. O Spagna o Francia, purché se
magna. Siamo, allora, di vecchissimo mestiere. Se vogliamo capire come è nato e
nasce tanto odierno marciume forse conviene ripartire da qui. Quanto all'oggi,
il governo tecnico di Monti è l'unica chance di salvezza che ci resta.
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