LORENZO MONDO
L’arresto del boss Michele Zagaria a Casapesenna, nel Casertano, ripropone uno schema abituale nella cattura di uomini del suo rango, appartengano essi alla mafia o alla camorra. C’è innanzitutto la lunga latitanza, che per lui valeva tre lustri, accompagnata dalla fama dell’imprendibilità. C’è il fatto che trovasse una tana accogliente non alla macchia ma a casa sua, facendo una vita da recluso che lascia pensare, restrizioni a parte, a un carcere di massima sicurezza: tant’è che Michele Capastorta veniva anche chiamato Il Monaco (una vita così sacrificata che prende il senso di una orgogliosa, luciferina sfida alla convivenza civile). E c’è l’utilizzo di misure protettive che si avvalevano, in particolare, di sofisticate risorse tecnologiche.
Ma a poco sarebbero serviti il bunker infossato come nocciolo duro in una villa, i muri scorrevoli, la rete delle telecamere, senza la protezione garantita dal contesto sociale. Lo si è visto nell’atteggiamento della gente presente al suo arresto. Una scena allucinante e, ahimè, non inedita. Sembrava che assistessero a un funerale o alla tappa di una dolorosa via crucis. Parole di compassione e rammarico, invocazioni alla Madonna, preoccupazione per il pane e il lavoro elargiti dal boss. Tanti benefici che venivano rinfacciati, con le consuete lamentazioni, allo Stato assente.
Ma non c’è analisi sociologica, non privazione di elementari diritti, non sedimentati rancori che possano giustificare una così abnorme solidarietà per un delinquente abbietto. Sembravano tutti trascurare che su Zagaria pendeva una condanna a tre ergastoli, che quel pane e quel lavoro, non ben definito, comportavano il prezzo del sangue. Stupiva l’assenza di vergogna, l’incapacità di ribellarsi, almeno nell’intimo, a imposizioni o umilianti concessioni, rendendosi di fatto complici di atti criminosi. È questa complicità che lascia sbigottiti, ben più radicata che la paura: perché in tanti anni, non c’è stata nemmeno una lettera anonima che mettesse gli investigatori sulla pista buona.
Il parroco di Casapesenna ha definito Zagaria «un parrocchiano come gli altri ai quali portare il Vangelo». D’accordo, uno il coraggio, se non ce l’ha, non se lo può dare, e in date circostanze sarebbe anche ingeneroso pretenderlo. Ma poiché non risulta che sia riuscito a catechizzare il boss avrebbe fatto bene a operare qualche distinzione, a non assimilarlo agli altri suoi parrocchiani. Se lo prendessimo alla lettera, ci sarebbe da rabbrividire, da disperare che qualcosa, da quelle parti, possa cambiare.
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