Roberto Ormanni
Direttore del settimanale on line
Il Parlamentare
Il capo della Polizia, Antonio Manganelli, nel corso della sua audizione alle commissione Giustizia e Affari costituzionali del Senato, ha richiamato l’attenzione sulla situazione da “indulto quotidiano” che vive l’Italia. In particolare riferendosi al problema dell’immigrazione clandestina, e dei reati commessi dai clandestini, il prefetto Manganelli ha dichiarato che “non esiste alcuna certezza della pena”.
Queste dichiarazioni hanno naturalmente polarizzato l’attenzione di tutti i mezzi d’informazione. Ma nessuno ha speso qualche minuto del suo tempo e qualche neurone del proprio cervello per una riflessione.
Il punto è, ancora una volta, cosa si intende per certezza della pena: certezza della sanzione (ossia del fatto che ad un comportamento in violazione di una norma faccia seguito l'irrogazione di una sanzione), o certezza dell'esecuzione - o dell'esecutività - di quella sanzione. Nel diritto questi sono due momenti diversi. Sotto il profilo della previsione sanzionatoria ci possono essere sanzioni adeguate e inadeguate (nel senso della loro capacità deterrente). Ma la forza deterrente di una sanzione non è soltanto il prodotto della sua gravità astratta: dipende anche dalla sua cogenza, cioè dalla possibilità, statisticamente valida e attendibile, che venga eseguita. Così, da Beccaria in poi, si è accettato il principio per il quale, ferma restando una base di proporzionalità tra fatto illecito e sanzione prevista, ciò che più conta - ai fini della deterrenza - è la consapevolezza che la sanzione venga eseguita.
Questo discorso (che pare fosse quello che il capo della polizia avrebbe voluto fare), in realtà, con il fenomeno dell'immigrazione c'entra poco. Nel senso che il problema dell'immigrazione clandestina, anzitutto, è tale indipendentemente dai comportamenti eventualmente illeciti e contra legem che i clandestini, una volta immigrati, adottano. Bisognerebbe contrastare adeguatamente il fenomeno dell'immigrazione clandestina (poco importa se realizzata attraverso sbarchi di massa o violazioni dei visti turistici) anche se, per ipotesi, nessun clandestino si fosse mai reso responsabile di qualsivoglia reato.
Se tale contrasto fosse realizzato adeguatamente (attraverso una migliore organizzazione dei corpi di polizia già disponibili, o anche attraverso un rafforzamento di uomini e attività: entrambi questi aspetti ricadono sotto la responsabilità dei capi delle polizie e dunque è demagogica la protesta di un capo della polizia in ordine al cattivo funzionamento della polizia) è evidente che una parte del problema sarebbe risolto, come si dice, "a monte" (che è poi il luogo dove preferibilmente andrebbe risolto qualunque problema). L'efficacia deterrente del controllo delle frontiere, infatti, risolve alla radice anche l'eventuale convinzione del potenziale clandestino che si appresta ad entrare in Italia sol perché immagina, a torto o a ragione, che qui ci si possa dedicare impunemente al crimine: che sia vero oppure no, sarebbe scoraggiato dal fatto che le difficoltà per entrare sono tante e tali che anche se il nostro Paese fosse quello dei Balocchi, è preferibile dirigersi altrove.
Diverso è il problema dell'esecutività della pena, una volta irrogata. In effetti, per quanto riguarda i clandestini, si potrebbe discutere - non senza qualche fondamento - della adeguatezza, nel senso della proporzionalità, della sanzione prevista a carico di coloro che vengono individuati come clandestini. E' vero che, come dimostrò Beccaria, è inutile condannare a morte l'assassino perché già la pena dell'ergastolo, o di trent'anni di galera, sarebbe un efficace deterrente (a patto però che oltre ad essere irrogata venga non solo eseguita, ma anche eseguita in tempi ragionevoli in modo da mantenere vivo il nesso causa-effetto), ma forse se l'unico rischio per un clandestino è vedersi notificare un invito a lasciare il Paese, questo è un po' poco. Ci si trova nella stessa situazione in cui si venne a trovare l'antica Roma quando, a causa di un rapido evolversi della società, la legislazione penale rimase ancorata a parametri ormai inadeguati cosicché i Quiriti che si fossero resi responsabili di percosse non giustificate nei confronti dei normali cittadini, erano condannati a pagare, come pena massima, una multa di 30 assi. Che però, in epoca imperiale, era davvero poca cosa. Perciò un senatore, provocatoriamente, se ne andava in giro per le strade di Roma a schiaffeggiare chiunque gli capitasse a tiro (è probabile che in questo modo si togliesse anche qualche "pietra dalla scarpa") e poi, prontamente, consegnava al malcapitato i 30 assi necessari ad estinguere la sua colpa. Dopo alcuni mesi il Senato approvò una nuova legge con nuove e più adeguate sanzioni e il senatore tornò nei ranghi.
Forse, invece di parlare di certezza della pena, più specificamente il capo della polizia avrebbe fatto bene a sottolineare la necessità di prevedere sanzioni più proporzionate.
Tuttavia ciò non risolve la questione: resta, per l'appunto, il nodo dell'esecutività di quelle sanzioni. Qui il discorso è molto più complesso e non è il caso di affidarlo al capo della polizia: male ha fatto la commissione a non fermarlo, invitandolo a restare sui temi che gli sono propri.In Italia, infatti, il sistema giuridico è antico e complesso. Costruito, ab origine, più per difendere il cittadino dal "Principe" che per difendere lo Stato dai delinquenti (nel senso di coloro che delinquono). Ci sono stati poi, come è ovvio, innesti numerosi e diversi, ma la filosofia di fondo resta quella del sistema di garanzie offerte al cittadino, più che del sistema di sanzioni da infliggere. E allora ecco che, inserite in questo contesto, le norme di contrasto all'immigrazione clandestina (fenomeno assolutamente inesistente e incomprensibile ai padri del nostro sistema giuridico) finiscono per svuotarsi di efficacia deterrente. Qui non si tratta di verificare se l'imputato ha realmente commesso la rapina o se è invece vittima di una macchinazione dei "birri" incaricati dal Bargello o da Sua Signoria il Granduca. Eppure, come ci insegna la Corte costituzionale, date queste condizioni sistematiche, non si può sottrarre - ad esempio - alla ricorribilità il decreto di espulsione del Prefetto. Quel decreto è un atto amministrativo a tutti gli effetti e dunque segue, deve seguire, la strada e le garanzie apprestate per gli atti amministrativi.
Il problema, allora, come si vede, è assai più complessivo e tratta dell'adeguamento di un sistema legislativo all'evoluzione della società. Un problema vecchio come l'Uomo, che in questi tempi si fa sentire tanto più forte quanto più l'evoluzione della società è frutto non solo della crescita di un microcosmo nazionale, ma anche - e soprattutto - delle influenze e degli intrecci internazionali.
E' altrettanto evidente che un discorso del genere non può essere alla portata - con tutto il rispetto e la stima - di un capo della polizia. Purtroppo non pare essere alla portata neppure del nostro legislatore degli ultimi quindici anni.
Queste dichiarazioni hanno naturalmente polarizzato l’attenzione di tutti i mezzi d’informazione. Ma nessuno ha speso qualche minuto del suo tempo e qualche neurone del proprio cervello per una riflessione.
Il punto è, ancora una volta, cosa si intende per certezza della pena: certezza della sanzione (ossia del fatto che ad un comportamento in violazione di una norma faccia seguito l'irrogazione di una sanzione), o certezza dell'esecuzione - o dell'esecutività - di quella sanzione. Nel diritto questi sono due momenti diversi. Sotto il profilo della previsione sanzionatoria ci possono essere sanzioni adeguate e inadeguate (nel senso della loro capacità deterrente). Ma la forza deterrente di una sanzione non è soltanto il prodotto della sua gravità astratta: dipende anche dalla sua cogenza, cioè dalla possibilità, statisticamente valida e attendibile, che venga eseguita. Così, da Beccaria in poi, si è accettato il principio per il quale, ferma restando una base di proporzionalità tra fatto illecito e sanzione prevista, ciò che più conta - ai fini della deterrenza - è la consapevolezza che la sanzione venga eseguita.
Questo discorso (che pare fosse quello che il capo della polizia avrebbe voluto fare), in realtà, con il fenomeno dell'immigrazione c'entra poco. Nel senso che il problema dell'immigrazione clandestina, anzitutto, è tale indipendentemente dai comportamenti eventualmente illeciti e contra legem che i clandestini, una volta immigrati, adottano. Bisognerebbe contrastare adeguatamente il fenomeno dell'immigrazione clandestina (poco importa se realizzata attraverso sbarchi di massa o violazioni dei visti turistici) anche se, per ipotesi, nessun clandestino si fosse mai reso responsabile di qualsivoglia reato.
Se tale contrasto fosse realizzato adeguatamente (attraverso una migliore organizzazione dei corpi di polizia già disponibili, o anche attraverso un rafforzamento di uomini e attività: entrambi questi aspetti ricadono sotto la responsabilità dei capi delle polizie e dunque è demagogica la protesta di un capo della polizia in ordine al cattivo funzionamento della polizia) è evidente che una parte del problema sarebbe risolto, come si dice, "a monte" (che è poi il luogo dove preferibilmente andrebbe risolto qualunque problema). L'efficacia deterrente del controllo delle frontiere, infatti, risolve alla radice anche l'eventuale convinzione del potenziale clandestino che si appresta ad entrare in Italia sol perché immagina, a torto o a ragione, che qui ci si possa dedicare impunemente al crimine: che sia vero oppure no, sarebbe scoraggiato dal fatto che le difficoltà per entrare sono tante e tali che anche se il nostro Paese fosse quello dei Balocchi, è preferibile dirigersi altrove.
Diverso è il problema dell'esecutività della pena, una volta irrogata. In effetti, per quanto riguarda i clandestini, si potrebbe discutere - non senza qualche fondamento - della adeguatezza, nel senso della proporzionalità, della sanzione prevista a carico di coloro che vengono individuati come clandestini. E' vero che, come dimostrò Beccaria, è inutile condannare a morte l'assassino perché già la pena dell'ergastolo, o di trent'anni di galera, sarebbe un efficace deterrente (a patto però che oltre ad essere irrogata venga non solo eseguita, ma anche eseguita in tempi ragionevoli in modo da mantenere vivo il nesso causa-effetto), ma forse se l'unico rischio per un clandestino è vedersi notificare un invito a lasciare il Paese, questo è un po' poco. Ci si trova nella stessa situazione in cui si venne a trovare l'antica Roma quando, a causa di un rapido evolversi della società, la legislazione penale rimase ancorata a parametri ormai inadeguati cosicché i Quiriti che si fossero resi responsabili di percosse non giustificate nei confronti dei normali cittadini, erano condannati a pagare, come pena massima, una multa di 30 assi. Che però, in epoca imperiale, era davvero poca cosa. Perciò un senatore, provocatoriamente, se ne andava in giro per le strade di Roma a schiaffeggiare chiunque gli capitasse a tiro (è probabile che in questo modo si togliesse anche qualche "pietra dalla scarpa") e poi, prontamente, consegnava al malcapitato i 30 assi necessari ad estinguere la sua colpa. Dopo alcuni mesi il Senato approvò una nuova legge con nuove e più adeguate sanzioni e il senatore tornò nei ranghi.
Forse, invece di parlare di certezza della pena, più specificamente il capo della polizia avrebbe fatto bene a sottolineare la necessità di prevedere sanzioni più proporzionate.
Tuttavia ciò non risolve la questione: resta, per l'appunto, il nodo dell'esecutività di quelle sanzioni. Qui il discorso è molto più complesso e non è il caso di affidarlo al capo della polizia: male ha fatto la commissione a non fermarlo, invitandolo a restare sui temi che gli sono propri.In Italia, infatti, il sistema giuridico è antico e complesso. Costruito, ab origine, più per difendere il cittadino dal "Principe" che per difendere lo Stato dai delinquenti (nel senso di coloro che delinquono). Ci sono stati poi, come è ovvio, innesti numerosi e diversi, ma la filosofia di fondo resta quella del sistema di garanzie offerte al cittadino, più che del sistema di sanzioni da infliggere. E allora ecco che, inserite in questo contesto, le norme di contrasto all'immigrazione clandestina (fenomeno assolutamente inesistente e incomprensibile ai padri del nostro sistema giuridico) finiscono per svuotarsi di efficacia deterrente. Qui non si tratta di verificare se l'imputato ha realmente commesso la rapina o se è invece vittima di una macchinazione dei "birri" incaricati dal Bargello o da Sua Signoria il Granduca. Eppure, come ci insegna la Corte costituzionale, date queste condizioni sistematiche, non si può sottrarre - ad esempio - alla ricorribilità il decreto di espulsione del Prefetto. Quel decreto è un atto amministrativo a tutti gli effetti e dunque segue, deve seguire, la strada e le garanzie apprestate per gli atti amministrativi.
Il problema, allora, come si vede, è assai più complessivo e tratta dell'adeguamento di un sistema legislativo all'evoluzione della società. Un problema vecchio come l'Uomo, che in questi tempi si fa sentire tanto più forte quanto più l'evoluzione della società è frutto non solo della crescita di un microcosmo nazionale, ma anche - e soprattutto - delle influenze e degli intrecci internazionali.
E' altrettanto evidente che un discorso del genere non può essere alla portata - con tutto il rispetto e la stima - di un capo della polizia. Purtroppo non pare essere alla portata neppure del nostro legislatore degli ultimi quindici anni.
1 commento:
Complimenti al Direttore Ormanni!
Stile inimitabile e grande competenza.
Ormanni sa informare in modo completo e lucido, regalando un'immediata comprensione di un fatto/fenomeno
anche al lettore meno 'impegnato'!
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