Non è mia intenzione disquisire della figura istituzionale della “Consigliera alle pari opportunità” (la lezione locale è abbreviata: “Consigliera provinciale di parità”), e cioè tracciarne un profilo in diritto.
È mio desiderio analizzare che cos’è a Lodi tale figura e come viene interpretativa dalla Provincia.
Queste riflessioni, probabilmente di poco pregio, comunque destinate a restare inascoltate (me ne da prova tangibile la mancata risposta alle mie critiche sull’avere ingaggiato come Garante dei detenuti del carcere di Lodi un avvocato, per giunta del foro di Lodi – v. IL CITTADINO – 12.11.2007 – pag. 15), sono state innescate dalla lettera, pubblicata dal Cittadino, della prof.ssa Ornella Veglio, che esercita la funzione suddetta per conto della Provincia, credo dalla data della sua istituzione legislativa, in ogni caso al secondo ed ultimo incarico quadriennale.
Già in passato ebbi a rimarcare la circostanza che suddetta prof.ssa Veglio mostrava di non possedere sufficiente energia nella difesa delle donne, molestate sessualmente soprattutto sui luoghi di lavoro, che provocò una replica (blanda) della stessa.
Non riuscivo a capacitarmi per l’assenza di una autentica indignazione, che si traduceva nella mancanza di incoraggiamento alle donne molestate di reagire denunciando alle forze di polizia le molestie da loro subite, fin dal loro primo insorgere.
La Veglio parla di “soffitto di cristallo” (una definizione a me fino ad oggi sconosciuta), cioè di una barriera per la progressione in carriera posta a limitare l’ascesa del lavoro femminile, specie in ambiti di elevata qualificazione professionale, destinata a limitare tale ascesa in modo indolore.
Per questo motivo, ogni volta che una donna sale un gradino della scala gerarchica, tale c.d. ”soffitto di cristallo” si alza, viene alzato di un po’, in modo da evitare l’impatto con lo stesso e da non consentire di formulare l’accusa di discriminazione sessuale.
Premetto che ciò a me sembra un paradosso (un barriera funziona solo in quanto resta statica, se la barriera viene innalzata che barriera è ?), porto nella discussione la conoscenza che io ho dell’ingresso delle donne nella carriera direttiva e dirigenziale della direzione delle carceri.
È così plateale l’assenza di qualsiasi barriera, di qualsiasi filtro di premiazione delle competenze e capacità professionali (solo in questa chiave di lettura ha senso parlare di “barriera di cristallo”) che sono poste alla direzione delle carceri italiane molte donne che dirigono carceri ed altre strutture penitenziarie (gli uffici locali per l’esecuzione penale esterna).
Per mia diretta conoscenza, tante direttrici sono brave nel loro lavoro, ma altrettanto se non di più dovrebbero cambiare mestiere, per i motivi che seguono.
Nella concorrenza fra i sessi, una donna in carriera, almeno nel settore dal quale io provengo, sembra più preoccupata di mostrare di possedere i c.d. “attributi”, che di dare invece una lettura al femminile della figura del direttore del carcere, che è una lettura univoca e valida per qualunque operatore, a prescindere dl sesso.
Dirò di più. Una presenza femminile in un modo ruvidamente maschilista, qual’è quello dell’ambiente del carcere, dovrebbe conferire a tale ruolo il ‘valore aggiunto’ di una percezione più raffinata dei compiti che incombono spietatamente su chi ha scelto come lavoro di fare il direttore del carcere.
Invece, così non è, questa voglia di possedere attributi si traduce in una ruvidezza di comportamenti che finiscono con lo sfociare nell’autoritarismo, se non peggio, a nulla rilevando ogni sollecitazione e stimolo ad interpretare tale ruolo solo sotto il profilo della competenza professionale.
Ovvia dovrebbe essere, ma così non appare, la consapevolezza che il direttore del carcere deve essere rispettato per la sua competenza, non per la sua possibilità di avvalersi, talvolta in modo inappropriato, della forza dello Stato per imporsi, insomma il direttore del carcere non deve essere autoritario ma autorevole e tale autorevolezza gli deriva esclusivamente dalla tangibile consapevolezza della sua competenza e preparazione professionale.
Il mondo delle carceri è quello in cui la violenza perpetrata nei confronti delle regole della convivenza civile trova (o dovrebbe trovare) la sua espiazione non solo in termini secchi di ‘scontare la pena detentiva’ (i proclami della campagna elettorale, da qualunque parte politica provengano, circa la c.d. “certezza della pena” non sono altro che un vellicare la parte primordiale dell’animo umano, le paure primordiali degli elettori medi. Basterebbe considerare che un detenuto che esce incattivito, perché, come accadeva in passato, lo Stato non si faceva carico della necessità di tentarne un recupero, ha sicuramente più probabilità di tornare a delinquere. Altro discorso è l’efficienza della gestione delle opportunità che oggi sono messe a disposizione dei detenuti in espiazione di pena).
È certo che le donne sono più brave, nella media, degli uomini. Per esprimere questa bravura le donne che hanno una famiglia faticano il doppio degli uomini. Non credo che ciò faccia piacere agli uomini (anche quelli acculturati possono comportarsi in modo molto cattivo), ma a quelli che si possono definire degli imbecilli (il che non significa privi di intelligenza).
Credo che ciò sia dovuto al fatto che qui da noi (altrove non so) la “meritocrazia” è una pura astrazione (basti guardare al nostro Parlamento).
Non condivido che il maschio cattivo sia uno stereotipo (ad ogni uomo piace avere una campagna che lavori, si, ma la propria, non quella di un altro uomo).
Quanto alle accuse allo stato sociale che dire: ogni popolo ha quello che si merita. Se si manda al Parlamento chi lo osteggia o lo propugna solo a chiacchiere, salvo a farsi i propri affaracci e i propri porci comodi “chi semina vento, raccoglie tempesta”.
Vero è che ha maggior difesa quella donna che è capace di difendersi (ma non estremizziamo questa capacità) e che quindi rappresenta una minaccia reale per il maschio prevaricatore, mentre le fasce deboli ed indifese sono nel livello economico medio-basso.
Qui casca l’asino. Quello che Ornella Veglio non dice è che la figura istituzionale non è dotata di poteri reali in generale, e che a Lodi le risorse finanziarie messe a sua dispostone sono un insulto intollerabile.
Si trattasse di amministrazioni di centro-destra, peggio ancora di marca leghista, ma sono amministrazioni di centro-sinistra.
Allora è chiaro che chiunque rivesta quell’incarico rappresenta la foglia di fico che serve a nascondere la vergogna di un maschilismo rampante, inesausto ed inesauribile.
Allora c’è chi si accontenta di fare il possibile.
È questo che io non condivido, l’acquiescenza, l’accettare passivamente una realtà, da parte di donne che dovrebbero difendere altre donne.
Ciò comporta anche la riluttanza, quando non la vera resistenza, ad assumere nette prese di posizioni di denuncia.
Ci sono donne premi nobel incarcerate, donne in ostaggio del terrorismo che rischiano di morire, donne che si accontentano del minimo sindacale.Credo si capisca verso quale di esse va la mia simpatia ed ammirazione.
È mio desiderio analizzare che cos’è a Lodi tale figura e come viene interpretativa dalla Provincia.
Queste riflessioni, probabilmente di poco pregio, comunque destinate a restare inascoltate (me ne da prova tangibile la mancata risposta alle mie critiche sull’avere ingaggiato come Garante dei detenuti del carcere di Lodi un avvocato, per giunta del foro di Lodi – v. IL CITTADINO – 12.11.2007 – pag. 15), sono state innescate dalla lettera, pubblicata dal Cittadino, della prof.ssa Ornella Veglio, che esercita la funzione suddetta per conto della Provincia, credo dalla data della sua istituzione legislativa, in ogni caso al secondo ed ultimo incarico quadriennale.
Già in passato ebbi a rimarcare la circostanza che suddetta prof.ssa Veglio mostrava di non possedere sufficiente energia nella difesa delle donne, molestate sessualmente soprattutto sui luoghi di lavoro, che provocò una replica (blanda) della stessa.
Non riuscivo a capacitarmi per l’assenza di una autentica indignazione, che si traduceva nella mancanza di incoraggiamento alle donne molestate di reagire denunciando alle forze di polizia le molestie da loro subite, fin dal loro primo insorgere.
La Veglio parla di “soffitto di cristallo” (una definizione a me fino ad oggi sconosciuta), cioè di una barriera per la progressione in carriera posta a limitare l’ascesa del lavoro femminile, specie in ambiti di elevata qualificazione professionale, destinata a limitare tale ascesa in modo indolore.
Per questo motivo, ogni volta che una donna sale un gradino della scala gerarchica, tale c.d. ”soffitto di cristallo” si alza, viene alzato di un po’, in modo da evitare l’impatto con lo stesso e da non consentire di formulare l’accusa di discriminazione sessuale.
Premetto che ciò a me sembra un paradosso (un barriera funziona solo in quanto resta statica, se la barriera viene innalzata che barriera è ?), porto nella discussione la conoscenza che io ho dell’ingresso delle donne nella carriera direttiva e dirigenziale della direzione delle carceri.
È così plateale l’assenza di qualsiasi barriera, di qualsiasi filtro di premiazione delle competenze e capacità professionali (solo in questa chiave di lettura ha senso parlare di “barriera di cristallo”) che sono poste alla direzione delle carceri italiane molte donne che dirigono carceri ed altre strutture penitenziarie (gli uffici locali per l’esecuzione penale esterna).
Per mia diretta conoscenza, tante direttrici sono brave nel loro lavoro, ma altrettanto se non di più dovrebbero cambiare mestiere, per i motivi che seguono.
Nella concorrenza fra i sessi, una donna in carriera, almeno nel settore dal quale io provengo, sembra più preoccupata di mostrare di possedere i c.d. “attributi”, che di dare invece una lettura al femminile della figura del direttore del carcere, che è una lettura univoca e valida per qualunque operatore, a prescindere dl sesso.
Dirò di più. Una presenza femminile in un modo ruvidamente maschilista, qual’è quello dell’ambiente del carcere, dovrebbe conferire a tale ruolo il ‘valore aggiunto’ di una percezione più raffinata dei compiti che incombono spietatamente su chi ha scelto come lavoro di fare il direttore del carcere.
Invece, così non è, questa voglia di possedere attributi si traduce in una ruvidezza di comportamenti che finiscono con lo sfociare nell’autoritarismo, se non peggio, a nulla rilevando ogni sollecitazione e stimolo ad interpretare tale ruolo solo sotto il profilo della competenza professionale.
Ovvia dovrebbe essere, ma così non appare, la consapevolezza che il direttore del carcere deve essere rispettato per la sua competenza, non per la sua possibilità di avvalersi, talvolta in modo inappropriato, della forza dello Stato per imporsi, insomma il direttore del carcere non deve essere autoritario ma autorevole e tale autorevolezza gli deriva esclusivamente dalla tangibile consapevolezza della sua competenza e preparazione professionale.
Il mondo delle carceri è quello in cui la violenza perpetrata nei confronti delle regole della convivenza civile trova (o dovrebbe trovare) la sua espiazione non solo in termini secchi di ‘scontare la pena detentiva’ (i proclami della campagna elettorale, da qualunque parte politica provengano, circa la c.d. “certezza della pena” non sono altro che un vellicare la parte primordiale dell’animo umano, le paure primordiali degli elettori medi. Basterebbe considerare che un detenuto che esce incattivito, perché, come accadeva in passato, lo Stato non si faceva carico della necessità di tentarne un recupero, ha sicuramente più probabilità di tornare a delinquere. Altro discorso è l’efficienza della gestione delle opportunità che oggi sono messe a disposizione dei detenuti in espiazione di pena).
È certo che le donne sono più brave, nella media, degli uomini. Per esprimere questa bravura le donne che hanno una famiglia faticano il doppio degli uomini. Non credo che ciò faccia piacere agli uomini (anche quelli acculturati possono comportarsi in modo molto cattivo), ma a quelli che si possono definire degli imbecilli (il che non significa privi di intelligenza).
Credo che ciò sia dovuto al fatto che qui da noi (altrove non so) la “meritocrazia” è una pura astrazione (basti guardare al nostro Parlamento).
Non condivido che il maschio cattivo sia uno stereotipo (ad ogni uomo piace avere una campagna che lavori, si, ma la propria, non quella di un altro uomo).
Quanto alle accuse allo stato sociale che dire: ogni popolo ha quello che si merita. Se si manda al Parlamento chi lo osteggia o lo propugna solo a chiacchiere, salvo a farsi i propri affaracci e i propri porci comodi “chi semina vento, raccoglie tempesta”.
Vero è che ha maggior difesa quella donna che è capace di difendersi (ma non estremizziamo questa capacità) e che quindi rappresenta una minaccia reale per il maschio prevaricatore, mentre le fasce deboli ed indifese sono nel livello economico medio-basso.
Qui casca l’asino. Quello che Ornella Veglio non dice è che la figura istituzionale non è dotata di poteri reali in generale, e che a Lodi le risorse finanziarie messe a sua dispostone sono un insulto intollerabile.
Si trattasse di amministrazioni di centro-destra, peggio ancora di marca leghista, ma sono amministrazioni di centro-sinistra.
Allora è chiaro che chiunque rivesta quell’incarico rappresenta la foglia di fico che serve a nascondere la vergogna di un maschilismo rampante, inesausto ed inesauribile.
Allora c’è chi si accontenta di fare il possibile.
È questo che io non condivido, l’acquiescenza, l’accettare passivamente una realtà, da parte di donne che dovrebbero difendere altre donne.
Ciò comporta anche la riluttanza, quando non la vera resistenza, ad assumere nette prese di posizioni di denuncia.
Ci sono donne premi nobel incarcerate, donne in ostaggio del terrorismo che rischiano di morire, donne che si accontentano del minimo sindacale.Credo si capisca verso quale di esse va la mia simpatia ed ammirazione.
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