Luigi Morsello
La collega Armida Misere è stata il primo direttore della Casa Circondariale di Lodi dopo la riforma dell'ordinamento giudiziario, per cui non era più consentito al Procuratore della Repbblica di esercitare anche le funzioni di direttore del Carcere Giudiziario (oggi Casa Circondariale) annesso al Tribunale.
Armida Miserere il 13 aprile 2003 a Sulmona, nell'alloggio di servizio della casa Circondariale di cui era direttore, si uccideva con un colpo di pistola alla tempia.
Evento terribile che si imprimeva nella mia mente in modo indelebile, la conoscevo, l'avevo conosciuta a Torino ad una riunione di direttori presso la Casa Circondariale "Le Nuove", di cui ero reggente in missione.
Era una donna determinata, dura, inflessibile, sbrigativa, che non indulgeva in chiacchiere inutili.
L'ho poi rivista numerose altre volte e mi soprendeva sempre la (quasi) totale assenza di trucco: non si truccava quasi mai.
L'ultima volta l'ho vista a Roma, era in missione all'Ucciardone, il vecchio carcere di Palermo, era scortata da due agenti giganteschi, due angeli custodi che lei sembrava quasi non vedere al proprio fianco e fra i quali quasi scompariva, la mente persa dietro alla sua personale tragedia, l'uccisione del suo compagno, avvenuta mentre lei era ancora a Lodi, il suo compagno era un educatore del carcere di Opera, dove si recava ogni mattina, l'ultima avvenne l'attentato mortale.
Era molto diversa dall'immagine che pubblico.
Mi avvicinai (i due agenti di scorta si interposero, eravamo all'interno del Dipartimento, ma non si sa mai !), mi riconobbe e scambiammo alcune parole.
Recava sul volto le stimmate del dolore, della sofferenza, della depressione grave che non l'aveva mai abbandonata dopo quel tragico evento, una strana forma depressiva con una nocciolo duro di tipo maniacale.
Dopo un anno lessi qualcosa circa il carcere di Sulmona, che mi richiamò alla memoria la collega e scrissi un ricordo, che il dr. Roberto Ormanni, all'epoca direttore del quotidiano online Diritto & Giusti@, che aveva anche una versione settimanale cartacea di pregevolissima fattura, edito dalla casa editrice Giuffrè, pubblicò, con mia grande sorpresa.
Lo ripropongo.
"Confesso che sentire il medico del carcere di Sulmona riferire, candidamente, le dichiarazioni di un detenuto salvato dal tentativo di suicidio (“suicidarsi a Sulmona ha un senso, fuori no”) mi ha fatto aggricciare la pelle.
Dare una chiave di lettura alla catena di suicidi in quel carcere non è facile. L’analisi deve partire dal suicidio della direttrice dr.ssa Armida Miserere nel 2003, se è vero che la sequenza ebbe inizio con quel gesto estremo. Conoscevo la dr.ssa Miserere e so che il suo gesto aveva una matrice esclusivamente privata, l’omicidio dell’uomo che stava per sposare, un educatore del carcere di Opera, che solo dopo la morte della Miserere trovava una soluzione investigativa e giudiziaria.
La dr.ssa Miserere guidava con ‘pugno di ferro’ il carcere di Sulmona. La sua era dunque una presenza certamente dominante, probabilmente invasiva, che venne improvvisamente a mancare in modo tragico e clamoroso. Quella scomparsa era legata e collegata nell’immaginario collettivo con le sue sofferenze private (a dire il vero la collega scomparsa aveva di suo rigidezze di carattere mutuate nell’ambito familiare e precedenti la sua tragica vicenda sentimentale). Quel modo di chiudere le sofferenze della depressione grave veniva, probabilmente, associato a quel carcere, inserito com’è in una cornice naturale molto bella ma lontano dalla città, che strideva con la sensazione mentale della costrizione materiale (caratteristica questa comune a tutti i nuovi carceri). Accadeva – è accaduto – che un detenuto tentasse lì di porre fine alla propria vita e non altrove (‘fuori no’ vuol significare in un altro carcere).
È dunque un problema di probabile attuale insufficienza trattamentale in una situazione ambientale in cui il ‘dominus’ del trattamento era una direttrice dal polso molto fermo, venuta a mancare. Con lei veniva a mancare anche il trattamento, incentrato come verosimilmente era su quella figura di direttore ben oltre i confini del ruolo istituzionale del direttore penitenziario.
L’unicità di quella figura di direttrice la rendeva non rimpiazzabile, quindi era d’obbligo, dopo la sua scomparsa, sviluppare al massimo grado l’attività di trattamento nella sua forma multiprofessionale del Gruppo di Osservazione e Trattamento, organismo collegiale a ciò deputato dal nuovo ordinamento penitenziario. Nei confini istituzionali del ruolo del direttore penitenziario, il nuovo direttore, pur potenziando, o ripristinando nella sua ortodossia, l’attività trattamentale tipica (che soffre, mentre per paradosso tuttavia se ne avvantaggia, la presenza di un direttore forte, vale a dire dal polso fermo) doveva garantire una presenza per così dire immanente nell’interno del carcere (segnatamente le sezioni detenuti) e nell’ambiente del carcere, orfano del polso di ferro precedente anche nella gestione del personale.
Credo che una seria ispezione debba andare verso questa direzione, per tentare di spezzare la spirale perversa di suicidi, che ha indotto un detenuto, sopravvissuto, a dichiarare che a Sulmona suicidarsi ha un senso, fuori no."
Dare una chiave di lettura alla catena di suicidi in quel carcere non è facile. L’analisi deve partire dal suicidio della direttrice dr.ssa Armida Miserere nel 2003, se è vero che la sequenza ebbe inizio con quel gesto estremo. Conoscevo la dr.ssa Miserere e so che il suo gesto aveva una matrice esclusivamente privata, l’omicidio dell’uomo che stava per sposare, un educatore del carcere di Opera, che solo dopo la morte della Miserere trovava una soluzione investigativa e giudiziaria.
La dr.ssa Miserere guidava con ‘pugno di ferro’ il carcere di Sulmona. La sua era dunque una presenza certamente dominante, probabilmente invasiva, che venne improvvisamente a mancare in modo tragico e clamoroso. Quella scomparsa era legata e collegata nell’immaginario collettivo con le sue sofferenze private (a dire il vero la collega scomparsa aveva di suo rigidezze di carattere mutuate nell’ambito familiare e precedenti la sua tragica vicenda sentimentale). Quel modo di chiudere le sofferenze della depressione grave veniva, probabilmente, associato a quel carcere, inserito com’è in una cornice naturale molto bella ma lontano dalla città, che strideva con la sensazione mentale della costrizione materiale (caratteristica questa comune a tutti i nuovi carceri). Accadeva – è accaduto – che un detenuto tentasse lì di porre fine alla propria vita e non altrove (‘fuori no’ vuol significare in un altro carcere).
È dunque un problema di probabile attuale insufficienza trattamentale in una situazione ambientale in cui il ‘dominus’ del trattamento era una direttrice dal polso molto fermo, venuta a mancare. Con lei veniva a mancare anche il trattamento, incentrato come verosimilmente era su quella figura di direttore ben oltre i confini del ruolo istituzionale del direttore penitenziario.
L’unicità di quella figura di direttrice la rendeva non rimpiazzabile, quindi era d’obbligo, dopo la sua scomparsa, sviluppare al massimo grado l’attività di trattamento nella sua forma multiprofessionale del Gruppo di Osservazione e Trattamento, organismo collegiale a ciò deputato dal nuovo ordinamento penitenziario. Nei confini istituzionali del ruolo del direttore penitenziario, il nuovo direttore, pur potenziando, o ripristinando nella sua ortodossia, l’attività trattamentale tipica (che soffre, mentre per paradosso tuttavia se ne avvantaggia, la presenza di un direttore forte, vale a dire dal polso fermo) doveva garantire una presenza per così dire immanente nell’interno del carcere (segnatamente le sezioni detenuti) e nell’ambiente del carcere, orfano del polso di ferro precedente anche nella gestione del personale.
Credo che una seria ispezione debba andare verso questa direzione, per tentare di spezzare la spirale perversa di suicidi, che ha indotto un detenuto, sopravvissuto, a dichiarare che a Sulmona suicidarsi ha un senso, fuori no."
1 commento:
Madda ha lasciato un commento, che per un mio errore non è stato accettato.
Lo allego qui.
"Una donna forte...
con un profondo 'male di vivere'.
Mi sono spesso chiesta come si fa a reggere a certe 'contaminazioni', in un lavoro così delicato e difficile, perchè presuppone non solo competenza nel settore specifico, ma anche doti umane notevoli.
Se si unisce il tipo di lavoro particolare al 'male di vivere' (che per la povera Armida M. è stato innescato dalla morte del suo uomo) la miscela diventa esplosiva...e può condurre a un punto di rottura definitivo, come in questo caso.
Per i detenuti suicidi in carcere, può valere lo stesso discorso.
Suppongo che qualsiasi essere umano tenuto forzatamente in cattività, possa sviluppare pensieri insani, se la struttura (Sulmona in questo caso) non è attrezzata per offrire realmente possibilità di rieducazione e riscatto, volti al successivo reinserimento nella società dei liberi.
Ma potrei sbagliarmi."
Non, Madda non sbaglia.
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