Elena da Roma
Chi l’avrebbe mai detto: “Noi siamo figli delle stelle, figli della notte che ci gira intorno”, non era una canzonetta! Ieri ho avuto conferma che Alan Sorrenti con uno dei suoi successi, “Figli delle stelle” appunto, già nel 1977 era sorprendentemente in linea con le più moderne teorie cosmologiche... Secondo queste teorie, l’origine dell’universo consta di due momenti fondamentali: il Big-Bang, e la nascita delle stelle.
Prima del Big Bang il meraviglioso universo in espansione che conosciamo aveva le dimensioni di una pallina da tennis, forse meno.
Questo universo non era materia, né luce, nessun atomo per intenderci, ma un’entità di pura energia, comparsa dal “nulla”, meglio definito scientificamente come “vuoto” o “vuoto quantistico”.
In base alle leggi della meccanica quantistica comunque pare che il vuoto quantistico non sia affatto realmente vuoto, ma una specie di incessante brulicare di particelle e antiparticelle che si distruggono a vicenda in un tempo troppo breve per essere osservate: sono rilevabili soltanto dalle modificazione che generano a livello di energia; perché ogni particella nasce sempre insieme alla sua antiparticella, che è ad essa identica se non per alcune particolarità, vedi elettrone-positone o protone-antiprotone, che differiscono solo per la carica elettrica positiva o negativa.
Il Big Bang è l’esplosione di questa massa di energia, in seguito alla quale ebbe origine la materia, e, in quantità assai minore, l’antimateria, ed è solo grazie a questo squilibrio nel rapporto tra le due entità che la materia ha avuto la meglio ed esiste, e ci dà modo di esistere. Per materia in questa fase immediatamente successiva al Big Bang si intendono gli elementi leggeri, idrogeno, deuterio, elio.
Un universo denso, rovente, tanto impenetrabile che la luce non aveva modo di passare, un universo opaco.
Per centinaia di migliaia di anni l’universo continuò ad espandersi e a raffreddarsi, finché la minore temperatura ebbe l’effetto di rallentare il movimento frenetico degli elettroni, che potendosi legare ai nuclei di carica positiva crearono i primi atomi neutri.
Questo fu un momento cruciale, perché l’universo divenne improvvisamente trasparente, la luce prese a filtrare: potendo ammirare il fenomeno si sarebbe vista un’abbagliante immensa esplosione di luce. E il bello è che poiché le particelle di luce, i fotoni, hanno la proprietà di legarsi poco con la materia, hanno potuto viaggiare libere e indisturbate per 13 miliardi e mezzo di anni fino ad essere rilevate dai nostri telescopi.
Non solo. Nel frattempo l’universo ha continuato ad espandersi, trasformando i fotoni in flebili microonde. E così i radiotelescopi di due radioastronomi americani, Penzias e Wilson, nel 1964 rilevarono un rumore, una specie di strano ronzio: dopo aver escluso tutti i rumori “terrestri” potenzialmente presenti, arrivando a cacciare via i piccioni, che avevano nidificato sui radiotelescopi ricoprendoli di guano, perché non inquinassero le rilevazioni, arrivarono alla conclusione che non solo quel ronzio arrivava indiscutibilmente dal cielo, ma che si trattava esattamente del rumore prodotto da quell’esplosione primordiale di luce sotto forma di microonde.
Questo suono, la musica dell’alba dell’universo, è un lieve rumore che si mimetizza nel ronzio dei normali sintonizzatori radio quando girando la rotella si passa da una stazione all’altra: lì dentro, che si sappia, c’è quella musica.
La musica della luce.
Ho sempre pensato che dietro certi aspetti della scienza si nascondono neanche troppo bene palpitanti aneliti di ardenti sognatori.
Un matematico cos’altro è se non un filosofo in incognito, intrappolato nella magia e nell’insita armonia dei numeri; un astrofisico è un visionario e ardito ricercatore di verità al pari e forse più di certi poeti, molto più di quanto non lo debba necessariamente essere un antropologo o un archeologo che sono normalmente considerati avventurieri un po’ sbandati e poco pratici, e che non hanno un gran che da fare, se decidono di dedicarsi con tanto ardore all’uomo, al suo sviluppo, alle sue domande, alla sua storia terrena.
Ma pensate un po’, ho visto un astrofisico emozionarsi pensando che bevendo un bicchiere d’acqua stava ingoiando molecole di idrogeno che avevano viaggiato fin qui per 13 miliardi di anni, e pensando a sua madre che quando era piccolo gli diceva “non toccare, quella cosa, chissà da dove viene”: l’avesse solo potuto immaginare.
E avesse potuto immaginare che, perché esistessero i metalli pesanti e la materia così come la conosciamo oggi, e la vita, era necessario che si fondessero gli atomi dell’idrogeno e dell’elio: in pratica era necessario che nascessero le stelle.
Prima del Big Bang il meraviglioso universo in espansione che conosciamo aveva le dimensioni di una pallina da tennis, forse meno.
Questo universo non era materia, né luce, nessun atomo per intenderci, ma un’entità di pura energia, comparsa dal “nulla”, meglio definito scientificamente come “vuoto” o “vuoto quantistico”.
In base alle leggi della meccanica quantistica comunque pare che il vuoto quantistico non sia affatto realmente vuoto, ma una specie di incessante brulicare di particelle e antiparticelle che si distruggono a vicenda in un tempo troppo breve per essere osservate: sono rilevabili soltanto dalle modificazione che generano a livello di energia; perché ogni particella nasce sempre insieme alla sua antiparticella, che è ad essa identica se non per alcune particolarità, vedi elettrone-positone o protone-antiprotone, che differiscono solo per la carica elettrica positiva o negativa.
Il Big Bang è l’esplosione di questa massa di energia, in seguito alla quale ebbe origine la materia, e, in quantità assai minore, l’antimateria, ed è solo grazie a questo squilibrio nel rapporto tra le due entità che la materia ha avuto la meglio ed esiste, e ci dà modo di esistere. Per materia in questa fase immediatamente successiva al Big Bang si intendono gli elementi leggeri, idrogeno, deuterio, elio.
Un universo denso, rovente, tanto impenetrabile che la luce non aveva modo di passare, un universo opaco.
Per centinaia di migliaia di anni l’universo continuò ad espandersi e a raffreddarsi, finché la minore temperatura ebbe l’effetto di rallentare il movimento frenetico degli elettroni, che potendosi legare ai nuclei di carica positiva crearono i primi atomi neutri.
Questo fu un momento cruciale, perché l’universo divenne improvvisamente trasparente, la luce prese a filtrare: potendo ammirare il fenomeno si sarebbe vista un’abbagliante immensa esplosione di luce. E il bello è che poiché le particelle di luce, i fotoni, hanno la proprietà di legarsi poco con la materia, hanno potuto viaggiare libere e indisturbate per 13 miliardi e mezzo di anni fino ad essere rilevate dai nostri telescopi.
Non solo. Nel frattempo l’universo ha continuato ad espandersi, trasformando i fotoni in flebili microonde. E così i radiotelescopi di due radioastronomi americani, Penzias e Wilson, nel 1964 rilevarono un rumore, una specie di strano ronzio: dopo aver escluso tutti i rumori “terrestri” potenzialmente presenti, arrivando a cacciare via i piccioni, che avevano nidificato sui radiotelescopi ricoprendoli di guano, perché non inquinassero le rilevazioni, arrivarono alla conclusione che non solo quel ronzio arrivava indiscutibilmente dal cielo, ma che si trattava esattamente del rumore prodotto da quell’esplosione primordiale di luce sotto forma di microonde.
Questo suono, la musica dell’alba dell’universo, è un lieve rumore che si mimetizza nel ronzio dei normali sintonizzatori radio quando girando la rotella si passa da una stazione all’altra: lì dentro, che si sappia, c’è quella musica.
La musica della luce.
Ho sempre pensato che dietro certi aspetti della scienza si nascondono neanche troppo bene palpitanti aneliti di ardenti sognatori.
Un matematico cos’altro è se non un filosofo in incognito, intrappolato nella magia e nell’insita armonia dei numeri; un astrofisico è un visionario e ardito ricercatore di verità al pari e forse più di certi poeti, molto più di quanto non lo debba necessariamente essere un antropologo o un archeologo che sono normalmente considerati avventurieri un po’ sbandati e poco pratici, e che non hanno un gran che da fare, se decidono di dedicarsi con tanto ardore all’uomo, al suo sviluppo, alle sue domande, alla sua storia terrena.
Ma pensate un po’, ho visto un astrofisico emozionarsi pensando che bevendo un bicchiere d’acqua stava ingoiando molecole di idrogeno che avevano viaggiato fin qui per 13 miliardi di anni, e pensando a sua madre che quando era piccolo gli diceva “non toccare, quella cosa, chissà da dove viene”: l’avesse solo potuto immaginare.
E avesse potuto immaginare che, perché esistessero i metalli pesanti e la materia così come la conosciamo oggi, e la vita, era necessario che si fondessero gli atomi dell’idrogeno e dell’elio: in pratica era necessario che nascessero le stelle.
Nessun commento:
Posta un commento