Luigi Morsello
Guido Giovanni, detto Gianni, evase dalla Casa di Reclusione di S. Gimignano (Si) il 21 gennaio 1981.
La dinamica dell’evasione si dispiegò con tale facilità, da sembrare subito sospetta agli investigatori.
Il Guido fu assegnato al carcere di S. Gimignano nell’anno 1977, proveniente dalla Casa Circondariale di Civitavecchia dov’era rinchiuso per le aggressioni subite dagli altri detenuti.
Il Guido, 19 anni, studente di architettura, assieme ad Andrea Ghira e Angelo Izzo, è stato uno dei tre massacratori del Circeo.
Il 30 settembre del 1975 Andrea Ghira insieme con Gianni Guido e Angelo Izzo, tre giovani della borghesia nera romana, invitarono Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, due ragazze di borgata. Ma la festa si trasformava in un incubo. Le due ragazze furono drogate, picchiate e violentate per due giorni.
Rosaria Lopez, 16 anni, fu portata in bagno, picchiata e annegata nella vasca. Dopo, i tre raggiungono la Colasanti, tentarono di strangolarla con una cintura e la colpirono selvaggiamente. Donatella riuscì a salvarsi perché si finse morta. Le due ragazze furono ritrovate nel bagagliaio di una Fiat 127 bianca intestata al padre di Guido Giovanni. La Colasanti fu ricoverata con gravi ferite.
Donatella Colasanti è morta il 30 dicembre 2005 a Roma per un tumore al seno, ancora duramente sconvolta per la violenza subita 30 anni prima. Le sue ultime parole: «Battiamoci per la verità».
Andrea Ghira e Angelo Izzo avevano un precedente per violenza a due ragazzine, furono condannati a soli due anni di carcere, con la sospensione condizionale della pena.
Andrea Ghira sfuggì a tute le ricerche degli organi di polizia.
Gli altri due furono processati e condannati.
Il Guido fu condannato all’ergastolo, come anche gli altri due, Ghira in contumacia.
Quando il Guido fu assegnato a S. Gimignano era in attesa del processo d’appello.
Il suo fascicolo personale era privo della copia della sentenza di primo grado. L’osservazione e trattamento, previste dalla legge penitenziaria del 1975 stavano muovendo i primi passi. Inoltre, questo obbligo giuridico è previsto solo per i condannati con sentenza passata in giudicato in esecuzione di pena detentiva definitiva.
Va ricordato che era il c.d. “decennio degli anni di piombo”, definizione postuma per indicare il sanguinoso periodo del terrorismo.
Va anche detto che la riforma penitenziaria del 1975 nacque monca, perché l’istituto del permesso premiale, pur previsto nel testo di legge, fu cancellato da un legislatore spaventato per quanto stava succedendo in Italia e per quanti servitori dello Stato (magistrati, poliziotti, carabinieri, agenti di custodia, sindacalisti, giornalisti, operatori penitenziari) furono barbaramente uccisi.
L’avere limitato la concessione del permesso solo per gravi motivi rinfocolò il clima di tensione all’interno delle carceri, che tornarono essere funestate da episodi di violenza di ogni genere.
Si viveva in un clima di terrore e, paradossalmente, ci si sentiva al sicuro nel mondo penitenziario solo quando si stava in carcere, per servizio e gli operatori che ci viveva (direttore, maresciallo comandante, agenti di custodia) ci viveva, sensazione che perdurò anche dopo il 1975.
Nel 1977 si decise di porre fine, fra l’altro, allo stillicidio di evasioni che funestavano le vecchie e decrepite carceri italiane, di realizzare un circuito di carceri di sicurezza, furono individuati gli istituti più idonei, la funzione di Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena fu affidata al gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, che era un uomo d’azione, non solo di riflessioni.
In meno di un mese individuò i detenuti più pericolosi da trasferire nelle carceri c.d. di “ massima Sicurezza”, definizione che prese piede ed è usata, a sproposito, ancora oggi (non esistono più carceri di massima sicurezza, esistono carceri particolarmente sicure, la norma che li prevedeva, l’art. 90, fu soppressa dalla c.d. “legge Gozzini” del 1986).
Nella ‘scremata’ operata dal gen. Dalla Chiesa incappò anche il Guido, che fu trasferito altrove, ma dopo circa un anno lo stesso fu riassegnato a S. Gimignano, in quanto “declassificato”, il che significava che non era giudicato più un detenuto pericoloso, provvedimento che fu adottato dall’Amministrazione penitenziaria centrale.
Vi restò fino al giorno dell’evasione, che avvenne alle ore 19,15 di domenica 21 gennaio 1981, una serata particolarmente fredda.
Le ricerche, immediate, delle forze di polizia non dettero esito alcuno, il Guido si era dileguato nel nulla, sparito, volatilizzato.
La dinamica dell’evasione fu di una semplicità estrema.
Il Guido si conquistò la fiducia del personale di custodia, uno dei quali poi fu accusato anche di corruzione, venne arrestato e trattenuto nel carcere di Montepulciano, oggi soppresso, per 40 giorni, venendo poi scarcerato per concessione della libertà provvisoria.
Il padre, Guido Raffale, era banchiere centrale del banca Nazionale del Lavoro, veniva frequentemente a trovare il figlio in carcere ed ogni volta si raccomandava al personale perché non accadessero altri episodi di violenza da parte degli altri detenuti e a danno del figlio.
Il Guido non subì mai in carcere a S. Gimignano violenza alcuna da nessuno.
La madre, di origine napoletana e di famiglia ricca, veniva più raramente, ogni volta con un comportamento freddo e distaccato, a differenza del marito, che era invece molto estroverso.
Abitavano a Roma, ai Parioli, noto quartiere dell’alta borghesia romana.
Durante la detenzione nel carcere sangimignanese lavorò come scrivano e spesino del sopravvitto detenuti, fu messo in cella assieme ad un detenuto molto più anziano col quale legò molto.
In seguito fu adibito al lavoro di scrivano dello spaccio agenti. Per svolgere quel lavoro si doveva attraversare la portineria: si aprivano e si chiudevano alle sue spalle due porte blindate, le disposizioni erano di essere accompagnato e controllato sempre da un agente, oltre il piantone di portineria.
Il Guido si presentava un soggetto chiuso, silenzioso, l’espressione del viso indecifrabile; celava con cura un certo disprezzo per l’istituzione in cui stava scontando un anticipo di pena, ancorché non definitivamente accertata, all’ergastolo.
Si era a conoscenza delle sollecitazioni del padre, di tentare di ricostruirsi un futuro, tentativo però che appariva velleitario, specie ad un giovane viziato, violento e crudele, che era per giunta esponente dell’estrema destra parlamentare, ma questo dato non era conosciuto in loco.
È evidente che il Guido non ci pensava proprio a restare in carcere 20-21 anni, considerata le diminuzioni di pena per buona condotta, né aveva nessuna intenzione di aggrapparsi all’altra speranza, ben più significativa, di una liberazione condizionale.
L’unico suo scopo (poi si seppe che era una vera e propria ossessione) era quello di studiare in piano di fuga, che appariva impossibile: il carcere di S. Gimignano, funestato nel 1968 dall’evasione di quattro detenuti dai tetti, da allora non ne aveva più subite.
Non solo. Nel decennio successivo, per l’infaticabile iniziativa del suo direttore, era stato gradualmente rafforzato in ogni settore.
Si era provveduto a sostituire le porte in legno con sistemi monoblocco in lamiera presso-piegata con cancello incorporato, il primo in Italia.
Le sbarre alle finestre erano state raddoppiate con infissi in metallo ferroso resistente al taglio, a maglia incrociata, realizzata con tondini di ferro perforati a caldo e dopo temperati.
Nelle finestre d’angolo delle celle le inferriate erano state triplicate, il muro di cinta parzialmente rifatto, innalzato e protetto a ridosso e su entrambi i lati delle garitte di sorveglianza da barriere di protezione con telaio in ferro e vetri antiproiettili.
Era una come una fortezza (ma era in realtà un vecchio convento), godeva della fama di carcere sicuro e ben controllato.
Il carcere di S. Gimignano fu l’ultimo ad aprire le porte delle celle dei detenuti nella regione Toscana, nel 1974, dopo due rivolte nel febbraio e luglio 1974, fu il primo a chiuderle dopo la scrematura fatta dal gen. Dalla Chiesa nel 1977.
Godeva della fiducia dei P.M di Firenze. Il dr. Pierluigi Vigna, futuro procuratore nazionale antimafia, quando arrestò Roberto Gemignani, capo del gruppo terroristico di sinistra “Azione Rivoluzionaria”, volle che fosse portato a S. Gimignano con la raccomandazione che nessuno all’interno del carcere sapessero chi era.
Per oltre 40 giorni, tenuto in reparto isolamento, nessuno seppe chi fosse, ad eccezione del direttore, del maresciallo comandante e di quell’esponente degli agenti di custodia, che restò invischiato nell’evasione del Guido.
Gemignani ebbe il nome in codice “Ciccio bello”, col quale fu registrato anche nella matricola detenuti, il solo nome scritto a matita.
Era importante che non si sapesse del suo arresto perché l’operazione antiterrorismo era in corso.
La ‘copertura’ saltò, quando la notizia trapelò dagli uffici giudiziari di Firenze e finì sulla stampa.
Questo era il carcere di S. Gimignano, un vecchio convento all’interno della cerchia muraria del centro storico, carcere oggi abbandonato.
Per concludere, i detenuti che mal sopportavano il rigoroso regime detentivo, facevano di tutto per essere trasferiti altrove [atti di autolesionismo, sciopero della fame, isolamento volontario, sequestri di persona (di altri detenuti ma per tre volte anche di personale di custodia: la prima dell’agosto 1975 – entrarono in carcere tre pistole in un pacco per uno dei due detenuti sequestratori che presero in ostaggio praticamente tutto il carcere, ivi compreso il maresciallo comandante – sequestro che finì con l’uccisione di uno dei due detenuti e la resa dell’altro; una seconda ed una terza volta nel 1976, a distanza di quarantotto ore dalla fine del precedente, durati due giorni ciascuno e conclusi con il trasferimento del detenuto che per ogni sequestro aveva preso in ostaggio la prima volta un agente e la seconda volta due].
Tanta sicurezza all’interno del carcere non c’era, la sicurezza esisteva, nel periodo 1974-1977, per chi pensava di uscire dal carcere evadendo, ma non più al suo interno.
Nel sistema difensivo c’era una sola smagliatura, di natura strutturale, la portineria, che era si blindata, ma solo parzialmente: per aprire i due portoni verso e dall’esterno e verso e dall’interno, il piantone doveva uscire per aprirli manualmente. Era in progettazione l’applicazione di comandi a distanza, che allora erano appena entrati nell’uso e che saranno adottati in tutte le carceri di nuova costruzione.
Torniamo all’evasione.
Non si sarebbe verificata se non vi fosse stata la concomitanza di tre circostanze avverse.
La prima, del tutto arbitraria, l’utilizzo di ‘quel detenuto’ per i lavori di pulizia in portineria, in sostituzione dello scopino ‘titolare’.
La seconda, l’averlo utilizzato ‘quel detenuto’ anche per le pulizie della domenica e festivi.
La terza, l’avere messo in servizio di piantone nell’orario 16-24 un agente di bassa statura, mingherlino, palesemente non in grado di resistere all’aggressione del Guido, che era alto e forte.
L’avere messo ‘quel detenuto’ a lavorare in aumento allo scopino titolare (perché poi così andò a finire) si verificò durante la missione del direttore al carcere di Pianosa Isola nel periodo 15.11-15.12.1980, missione continuativa della durata di un mese.
Il carcere di Pianosa era privo di direttore da molti mesi, nessuno ci voleva andare, il direttore titolare ed il ragioniere capo erano ‘ammalati’ da molti mesi, fu giocoforza organizzare missioni brevi con turnazioni di un mese ciascuno.
Il secondo turno fu ‘saltato’ dal direttore della Casa Circondariale di Siena, ammalato di insufficienza renale, della quale morì anni dopo.
Toccò quindi al direttore del carcere di S. Gimignano.
In questo periodo il Guido iniziò ad essere utilizzato come scopino in portineria.
Rientrato dalla missione a Pianosa accadde a quel direttore, uscendo dall’ufficio del maresciallo comandante ed assieme allo stesso interno alla zona detentiva di notare ‘quel detenuto’ che faceva lo scopino in portineria: non era la sua mansione.
Il direttore ordinava pertanto al maresciallo comandante di impartire disposizioni perché non accedesse più. Quest’ordine non fu prontamente eseguito (quella era la stoffa e con quella il sarto doveva confezionare i vestiti), il Guido, che sentì il direttore impartire quell’ordine, decise di anticipare l’esecuzione del piano di evasione: dalla portineria, durante le pulizie tardo-serali, quando lo spaccio agenti era chiuso.
Una anticipazione temeraria, perché non supportata da una logistica esterna non ancora resasi disponibile.
Però, quel varco stava per chiudersi, anzi, avrebbe dovuto già essere chiuso.
Quindi osò, alle ore 19,15 del 21 gennaio 1981 evase.
Come ? Approfittando del servizio di pulizie, che quella sera, domenica, si recò ad effettuare da solo, l’altro detenuto rimase in cella.
Entrò nella guardiola del piantone, afferrò un massiccio posacenere in vetro marrone, sferrò alcuni colpi in testa al piantone (quello mingherlino), stordendolo (fu trovato pieno di sangue, dalle ferite alla testa per i colpi ricevuti).
L’effetto sorpresa era stata totale !
Prima di uscire dalla portineria azionò il comando di apertura a distanza del portone principale d’ingresso, l’unico fino a quel momento installato, aprì la prima porta, attraversò il corridoio di accesso al carcere in senso contrario uscendo da quel portone appena aperto col comando a distanza, girò a sinistra e scomparve nella notte.
La sentinella della garitta n. 4, che incombeva sull’ingresso del carcere, vide il Guido uscire, attraversare rapidamente ma con passo tranquillo, senza correre, gli chiese cosa stava facendo lì (!), realizzò che stava evadendo solo dopo avere chiamato il responsabile della sorveglianza interna col citofono, che gli ‘consigliò’ di sparare qualche colpo in aria per confondere le idee.
Quindi fu dato l’allarme e si scatenò l’inferno.
Il Guido però era ormai lontano.
Il Guido non fu più trovato.
Le investigazioni successive appurarono che aveva raggiunto la strada statale S. Gimignano – Poggibonsi, mediante una sterrata laterale, percorsa oii cani poliziotto, che persero le tracce alla confluenza della sterrata con la statale.
Lì il Guido ottenne un passaggio da in ignaro cittadino di Barberino Val d’Elsa, che rese successiva testimonianza ai carabinieri.
In seguito fu sentito il custode di una villetta che la famiglia Guido possedeva sul lago di Bracciano, che riferì che il Guido figlio si era presentato a tarda notte, aveva telefonato a casa sua a Roma e poi era uscito nuovamente, senza più rivederlo.
È ovvio che la famiglia, subentrata a frittata fatta (il Guido Raffale ha sempre sostenuto di non avere avuto una parte nell’evasione del figlio, che lo rovinava per sempre, com’è accaduto), si è adoperata per farlo espatriare, ma non è improbabile che la frangia degli estremisti di destra lo abbia aiutato a fuggire fuori dell’Italia.
Il Guido veniva definitivamente arrestato (era stato arrestato ed evaso altre due volte in sud America) nel 1994 a Panama ed estradato in Italia.
Oggi, ad un anno dalla scadenza della detenzione, ridotta ad anni 30 in appello, è stato ammesso al regime di “affidamento in prova al servizio sociale”, concesso dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, una misura alternativa alla detenzione che comporta la scarcerazione dell’affidato: Guido Giovanni, detto Gianni, dorme a casa sua ai Parioli dal 13 aprile.
I genitori, intervistati, hanno dichiarato (Corriere della Sera – 30 maggio 2008):
«Mio figlio ha pagato. E comunque non sarà facile rifarsi una vita alla sua età - sospira la signora Maria, discendente di un'importante famiglia di armatori napoletani Noi di sicuro in tutti questi anni non l'abbiamo mai abbandonato ».
«Cosa farà Gianni dopo aver espiato fino in fondo la sua pena? Non importa - aggiunge il padre, altissimo dirigente Bnl ora in pensione C'è qui la sua famiglia, ci siamo noi. La famiglia, secondo me, è l'unico posto dove un detenuto possa riuscire a reinserirsi. L'unica vera comunità di recupero, chiamiamola così, per chi esce dal carcere».
Neanche dopo 33 anni hanno il coraggio morale di ammettere il proprio fallimento come famiglia che non ha avuto la capacità di impedirgli di diventare un mostro, freddo, spietato, crudele, che ha causato tanto lutti e tanto dolore a due povere ragazze ed a quelli che a S. Gimignano avevano provato a creare le condizioni favorevoli ad un progetto di ricostruzione di una vita rovinata, mentre l’interessato pensava solo ad un progetto di evasione, a fuggire, ad evadere.
Le indagini amministrative successive all’evasione furono un capolavoro (voluto) di inefficienza, si cercava a tutti i costi un ‘capro espiatorio’, ma non si riusciva a trovarlo.
Si pensava alla procurata evasione ed alla corruzione.
Il Ministro di Grazia e Giustizia era Adolfo Sarti ed era preoccupatissimo di sviare l’attenzione della pubblica opinione da ciò che stava emergendo dalle indagini sulla loggia massonica P2, alla quale era iscritto e di lì a poco dovette dimettersi dal governo, uscì di scena, morendo nel 1992, mentre Valerio Zanone (classe 1936, da poco tornato alla ribalta dopo un lungo oblio nelle file de L’Ulivo, ma non ricandidato nel 2008) tuonava in Parlamento contro quel direttore, chiedendo accertamenti rapidi e punizioni esemplari.
ECCO COSA ACCADDE SUBITO DOPO.
Il direttore, il maresciallo comandante e un appuntato furono imputati di procurata evasione.
Per l’appuntato fu aggiunta l’imputazione di abuso d’ufficio, successivamente derubricata a malversazione a danno di privati (reato oggi soppresso dalla legge 86/1990).
Cos’era accaduto ? Il povero appuntato voleva acquistare casa a S. Gimignano, aveva bisogno di un mutuo ( un prestito) ed ebbe la malaugurata idea di chiedere aiuto a Guido padre (direttore centrale della BNL) il quale lo indirizzò alla Banca di Calabria, la quale concesse il mutuo (forse prestito)ad un tasso bassissimo, il 3%, circostanza che lo rallegrò senza insospettirlo, il rimanente 15% però lo pagava di tasca sua Guido padre.
Il direttore, a rischio di mandato di cattura (si temeva l’inquinamento delle prove), fu subito trasferito perché ciò non accadesse.
L’appuntato e Guido padre furono arrestati dal Giudice Istruttore (siamo nella vigenza del codice di procedura penale del 1931), l’appuntato si fece 40 giorni di carcere, il Guido padre fu arrestato in un secondo momento, e fu condotto anch’egli presso la casa Circondariale di Montepulciano.
Nessuno dei due disse alcunché, non avevano alcunché da dire, in effetti.
Vi furono anche imputati minori, esclusi dal processo dal G.I., mentre il latitante Guido Giovanni fu imputato, oltreché di evasione, anche di tentato omicidio in danno dell’agente piantone di portineria.
Il processo dunque fu celebrato in Corte d’Assise, per il direttore ed il maresciallo comandante l’imputazione fu derubricata ad evasione per colpa del custode.
La corte d’assise di primo grado applicò l’amnistia a direttore e maresciallo comandante.
Il direttore la rifiutò, per cui fu celebrato anche per lui il secondo grado di giudizio, dopo la conferma della sentenza di primo grado, il direttore si appellò alla Corte di Cassazione, inutilmente.
Il difensore, senza dire nulla all’assistito direttore, nel grado terzo di giudizio non inserì il rifiuto dell’amnistia, anche se questo punto è incerto.
Probabilmente, si limitò a rintuzzare l’appello del P.M.
Fatto sta che per il direttore e l’appuntato ebbe inizio la discesa agli inferi.
L’appuntato, sospeso dal servizio e rimastovi per molti anni (allora non era previsto il limite massimo di cinque anni), cinque - sei anni dopo si dimise e fu collocato in pensione.
Il direttore fu guardato sempre con sospetto, per molti anni, in particolare dal nuovo capo del personale, che oggi, vedi il caso, è il presidente del tribunale di sorveglianza di Roma che ha concesso al Guido Giovanni l’affidamento in prova.
Il direttore della Casa di Reclusione di S. Gimignano si chiamava Luigi Morsello, è tutt’ora vivente, vivo e vegeto ed è privo di rancori.
La dinamica dell’evasione si dispiegò con tale facilità, da sembrare subito sospetta agli investigatori.
Il Guido fu assegnato al carcere di S. Gimignano nell’anno 1977, proveniente dalla Casa Circondariale di Civitavecchia dov’era rinchiuso per le aggressioni subite dagli altri detenuti.
Il Guido, 19 anni, studente di architettura, assieme ad Andrea Ghira e Angelo Izzo, è stato uno dei tre massacratori del Circeo.
Il 30 settembre del 1975 Andrea Ghira insieme con Gianni Guido e Angelo Izzo, tre giovani della borghesia nera romana, invitarono Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, due ragazze di borgata. Ma la festa si trasformava in un incubo. Le due ragazze furono drogate, picchiate e violentate per due giorni.
Rosaria Lopez, 16 anni, fu portata in bagno, picchiata e annegata nella vasca. Dopo, i tre raggiungono la Colasanti, tentarono di strangolarla con una cintura e la colpirono selvaggiamente. Donatella riuscì a salvarsi perché si finse morta. Le due ragazze furono ritrovate nel bagagliaio di una Fiat 127 bianca intestata al padre di Guido Giovanni. La Colasanti fu ricoverata con gravi ferite.
Donatella Colasanti è morta il 30 dicembre 2005 a Roma per un tumore al seno, ancora duramente sconvolta per la violenza subita 30 anni prima. Le sue ultime parole: «Battiamoci per la verità».
Andrea Ghira e Angelo Izzo avevano un precedente per violenza a due ragazzine, furono condannati a soli due anni di carcere, con la sospensione condizionale della pena.
Andrea Ghira sfuggì a tute le ricerche degli organi di polizia.
Gli altri due furono processati e condannati.
Il Guido fu condannato all’ergastolo, come anche gli altri due, Ghira in contumacia.
Quando il Guido fu assegnato a S. Gimignano era in attesa del processo d’appello.
Il suo fascicolo personale era privo della copia della sentenza di primo grado. L’osservazione e trattamento, previste dalla legge penitenziaria del 1975 stavano muovendo i primi passi. Inoltre, questo obbligo giuridico è previsto solo per i condannati con sentenza passata in giudicato in esecuzione di pena detentiva definitiva.
Va ricordato che era il c.d. “decennio degli anni di piombo”, definizione postuma per indicare il sanguinoso periodo del terrorismo.
Va anche detto che la riforma penitenziaria del 1975 nacque monca, perché l’istituto del permesso premiale, pur previsto nel testo di legge, fu cancellato da un legislatore spaventato per quanto stava succedendo in Italia e per quanti servitori dello Stato (magistrati, poliziotti, carabinieri, agenti di custodia, sindacalisti, giornalisti, operatori penitenziari) furono barbaramente uccisi.
L’avere limitato la concessione del permesso solo per gravi motivi rinfocolò il clima di tensione all’interno delle carceri, che tornarono essere funestate da episodi di violenza di ogni genere.
Si viveva in un clima di terrore e, paradossalmente, ci si sentiva al sicuro nel mondo penitenziario solo quando si stava in carcere, per servizio e gli operatori che ci viveva (direttore, maresciallo comandante, agenti di custodia) ci viveva, sensazione che perdurò anche dopo il 1975.
Nel 1977 si decise di porre fine, fra l’altro, allo stillicidio di evasioni che funestavano le vecchie e decrepite carceri italiane, di realizzare un circuito di carceri di sicurezza, furono individuati gli istituti più idonei, la funzione di Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena fu affidata al gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, che era un uomo d’azione, non solo di riflessioni.
In meno di un mese individuò i detenuti più pericolosi da trasferire nelle carceri c.d. di “ massima Sicurezza”, definizione che prese piede ed è usata, a sproposito, ancora oggi (non esistono più carceri di massima sicurezza, esistono carceri particolarmente sicure, la norma che li prevedeva, l’art. 90, fu soppressa dalla c.d. “legge Gozzini” del 1986).
Nella ‘scremata’ operata dal gen. Dalla Chiesa incappò anche il Guido, che fu trasferito altrove, ma dopo circa un anno lo stesso fu riassegnato a S. Gimignano, in quanto “declassificato”, il che significava che non era giudicato più un detenuto pericoloso, provvedimento che fu adottato dall’Amministrazione penitenziaria centrale.
Vi restò fino al giorno dell’evasione, che avvenne alle ore 19,15 di domenica 21 gennaio 1981, una serata particolarmente fredda.
Le ricerche, immediate, delle forze di polizia non dettero esito alcuno, il Guido si era dileguato nel nulla, sparito, volatilizzato.
La dinamica dell’evasione fu di una semplicità estrema.
Il Guido si conquistò la fiducia del personale di custodia, uno dei quali poi fu accusato anche di corruzione, venne arrestato e trattenuto nel carcere di Montepulciano, oggi soppresso, per 40 giorni, venendo poi scarcerato per concessione della libertà provvisoria.
Il padre, Guido Raffale, era banchiere centrale del banca Nazionale del Lavoro, veniva frequentemente a trovare il figlio in carcere ed ogni volta si raccomandava al personale perché non accadessero altri episodi di violenza da parte degli altri detenuti e a danno del figlio.
Il Guido non subì mai in carcere a S. Gimignano violenza alcuna da nessuno.
La madre, di origine napoletana e di famiglia ricca, veniva più raramente, ogni volta con un comportamento freddo e distaccato, a differenza del marito, che era invece molto estroverso.
Abitavano a Roma, ai Parioli, noto quartiere dell’alta borghesia romana.
Durante la detenzione nel carcere sangimignanese lavorò come scrivano e spesino del sopravvitto detenuti, fu messo in cella assieme ad un detenuto molto più anziano col quale legò molto.
In seguito fu adibito al lavoro di scrivano dello spaccio agenti. Per svolgere quel lavoro si doveva attraversare la portineria: si aprivano e si chiudevano alle sue spalle due porte blindate, le disposizioni erano di essere accompagnato e controllato sempre da un agente, oltre il piantone di portineria.
Il Guido si presentava un soggetto chiuso, silenzioso, l’espressione del viso indecifrabile; celava con cura un certo disprezzo per l’istituzione in cui stava scontando un anticipo di pena, ancorché non definitivamente accertata, all’ergastolo.
Si era a conoscenza delle sollecitazioni del padre, di tentare di ricostruirsi un futuro, tentativo però che appariva velleitario, specie ad un giovane viziato, violento e crudele, che era per giunta esponente dell’estrema destra parlamentare, ma questo dato non era conosciuto in loco.
È evidente che il Guido non ci pensava proprio a restare in carcere 20-21 anni, considerata le diminuzioni di pena per buona condotta, né aveva nessuna intenzione di aggrapparsi all’altra speranza, ben più significativa, di una liberazione condizionale.
L’unico suo scopo (poi si seppe che era una vera e propria ossessione) era quello di studiare in piano di fuga, che appariva impossibile: il carcere di S. Gimignano, funestato nel 1968 dall’evasione di quattro detenuti dai tetti, da allora non ne aveva più subite.
Non solo. Nel decennio successivo, per l’infaticabile iniziativa del suo direttore, era stato gradualmente rafforzato in ogni settore.
Si era provveduto a sostituire le porte in legno con sistemi monoblocco in lamiera presso-piegata con cancello incorporato, il primo in Italia.
Le sbarre alle finestre erano state raddoppiate con infissi in metallo ferroso resistente al taglio, a maglia incrociata, realizzata con tondini di ferro perforati a caldo e dopo temperati.
Nelle finestre d’angolo delle celle le inferriate erano state triplicate, il muro di cinta parzialmente rifatto, innalzato e protetto a ridosso e su entrambi i lati delle garitte di sorveglianza da barriere di protezione con telaio in ferro e vetri antiproiettili.
Era una come una fortezza (ma era in realtà un vecchio convento), godeva della fama di carcere sicuro e ben controllato.
Il carcere di S. Gimignano fu l’ultimo ad aprire le porte delle celle dei detenuti nella regione Toscana, nel 1974, dopo due rivolte nel febbraio e luglio 1974, fu il primo a chiuderle dopo la scrematura fatta dal gen. Dalla Chiesa nel 1977.
Godeva della fiducia dei P.M di Firenze. Il dr. Pierluigi Vigna, futuro procuratore nazionale antimafia, quando arrestò Roberto Gemignani, capo del gruppo terroristico di sinistra “Azione Rivoluzionaria”, volle che fosse portato a S. Gimignano con la raccomandazione che nessuno all’interno del carcere sapessero chi era.
Per oltre 40 giorni, tenuto in reparto isolamento, nessuno seppe chi fosse, ad eccezione del direttore, del maresciallo comandante e di quell’esponente degli agenti di custodia, che restò invischiato nell’evasione del Guido.
Gemignani ebbe il nome in codice “Ciccio bello”, col quale fu registrato anche nella matricola detenuti, il solo nome scritto a matita.
Era importante che non si sapesse del suo arresto perché l’operazione antiterrorismo era in corso.
La ‘copertura’ saltò, quando la notizia trapelò dagli uffici giudiziari di Firenze e finì sulla stampa.
Questo era il carcere di S. Gimignano, un vecchio convento all’interno della cerchia muraria del centro storico, carcere oggi abbandonato.
Per concludere, i detenuti che mal sopportavano il rigoroso regime detentivo, facevano di tutto per essere trasferiti altrove [atti di autolesionismo, sciopero della fame, isolamento volontario, sequestri di persona (di altri detenuti ma per tre volte anche di personale di custodia: la prima dell’agosto 1975 – entrarono in carcere tre pistole in un pacco per uno dei due detenuti sequestratori che presero in ostaggio praticamente tutto il carcere, ivi compreso il maresciallo comandante – sequestro che finì con l’uccisione di uno dei due detenuti e la resa dell’altro; una seconda ed una terza volta nel 1976, a distanza di quarantotto ore dalla fine del precedente, durati due giorni ciascuno e conclusi con il trasferimento del detenuto che per ogni sequestro aveva preso in ostaggio la prima volta un agente e la seconda volta due].
Tanta sicurezza all’interno del carcere non c’era, la sicurezza esisteva, nel periodo 1974-1977, per chi pensava di uscire dal carcere evadendo, ma non più al suo interno.
Nel sistema difensivo c’era una sola smagliatura, di natura strutturale, la portineria, che era si blindata, ma solo parzialmente: per aprire i due portoni verso e dall’esterno e verso e dall’interno, il piantone doveva uscire per aprirli manualmente. Era in progettazione l’applicazione di comandi a distanza, che allora erano appena entrati nell’uso e che saranno adottati in tutte le carceri di nuova costruzione.
Torniamo all’evasione.
Non si sarebbe verificata se non vi fosse stata la concomitanza di tre circostanze avverse.
La prima, del tutto arbitraria, l’utilizzo di ‘quel detenuto’ per i lavori di pulizia in portineria, in sostituzione dello scopino ‘titolare’.
La seconda, l’averlo utilizzato ‘quel detenuto’ anche per le pulizie della domenica e festivi.
La terza, l’avere messo in servizio di piantone nell’orario 16-24 un agente di bassa statura, mingherlino, palesemente non in grado di resistere all’aggressione del Guido, che era alto e forte.
L’avere messo ‘quel detenuto’ a lavorare in aumento allo scopino titolare (perché poi così andò a finire) si verificò durante la missione del direttore al carcere di Pianosa Isola nel periodo 15.11-15.12.1980, missione continuativa della durata di un mese.
Il carcere di Pianosa era privo di direttore da molti mesi, nessuno ci voleva andare, il direttore titolare ed il ragioniere capo erano ‘ammalati’ da molti mesi, fu giocoforza organizzare missioni brevi con turnazioni di un mese ciascuno.
Il secondo turno fu ‘saltato’ dal direttore della Casa Circondariale di Siena, ammalato di insufficienza renale, della quale morì anni dopo.
Toccò quindi al direttore del carcere di S. Gimignano.
In questo periodo il Guido iniziò ad essere utilizzato come scopino in portineria.
Rientrato dalla missione a Pianosa accadde a quel direttore, uscendo dall’ufficio del maresciallo comandante ed assieme allo stesso interno alla zona detentiva di notare ‘quel detenuto’ che faceva lo scopino in portineria: non era la sua mansione.
Il direttore ordinava pertanto al maresciallo comandante di impartire disposizioni perché non accedesse più. Quest’ordine non fu prontamente eseguito (quella era la stoffa e con quella il sarto doveva confezionare i vestiti), il Guido, che sentì il direttore impartire quell’ordine, decise di anticipare l’esecuzione del piano di evasione: dalla portineria, durante le pulizie tardo-serali, quando lo spaccio agenti era chiuso.
Una anticipazione temeraria, perché non supportata da una logistica esterna non ancora resasi disponibile.
Però, quel varco stava per chiudersi, anzi, avrebbe dovuto già essere chiuso.
Quindi osò, alle ore 19,15 del 21 gennaio 1981 evase.
Come ? Approfittando del servizio di pulizie, che quella sera, domenica, si recò ad effettuare da solo, l’altro detenuto rimase in cella.
Entrò nella guardiola del piantone, afferrò un massiccio posacenere in vetro marrone, sferrò alcuni colpi in testa al piantone (quello mingherlino), stordendolo (fu trovato pieno di sangue, dalle ferite alla testa per i colpi ricevuti).
L’effetto sorpresa era stata totale !
Prima di uscire dalla portineria azionò il comando di apertura a distanza del portone principale d’ingresso, l’unico fino a quel momento installato, aprì la prima porta, attraversò il corridoio di accesso al carcere in senso contrario uscendo da quel portone appena aperto col comando a distanza, girò a sinistra e scomparve nella notte.
La sentinella della garitta n. 4, che incombeva sull’ingresso del carcere, vide il Guido uscire, attraversare rapidamente ma con passo tranquillo, senza correre, gli chiese cosa stava facendo lì (!), realizzò che stava evadendo solo dopo avere chiamato il responsabile della sorveglianza interna col citofono, che gli ‘consigliò’ di sparare qualche colpo in aria per confondere le idee.
Quindi fu dato l’allarme e si scatenò l’inferno.
Il Guido però era ormai lontano.
Il Guido non fu più trovato.
Le investigazioni successive appurarono che aveva raggiunto la strada statale S. Gimignano – Poggibonsi, mediante una sterrata laterale, percorsa oii cani poliziotto, che persero le tracce alla confluenza della sterrata con la statale.
Lì il Guido ottenne un passaggio da in ignaro cittadino di Barberino Val d’Elsa, che rese successiva testimonianza ai carabinieri.
In seguito fu sentito il custode di una villetta che la famiglia Guido possedeva sul lago di Bracciano, che riferì che il Guido figlio si era presentato a tarda notte, aveva telefonato a casa sua a Roma e poi era uscito nuovamente, senza più rivederlo.
È ovvio che la famiglia, subentrata a frittata fatta (il Guido Raffale ha sempre sostenuto di non avere avuto una parte nell’evasione del figlio, che lo rovinava per sempre, com’è accaduto), si è adoperata per farlo espatriare, ma non è improbabile che la frangia degli estremisti di destra lo abbia aiutato a fuggire fuori dell’Italia.
Il Guido veniva definitivamente arrestato (era stato arrestato ed evaso altre due volte in sud America) nel 1994 a Panama ed estradato in Italia.
Oggi, ad un anno dalla scadenza della detenzione, ridotta ad anni 30 in appello, è stato ammesso al regime di “affidamento in prova al servizio sociale”, concesso dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, una misura alternativa alla detenzione che comporta la scarcerazione dell’affidato: Guido Giovanni, detto Gianni, dorme a casa sua ai Parioli dal 13 aprile.
I genitori, intervistati, hanno dichiarato (Corriere della Sera – 30 maggio 2008):
«Mio figlio ha pagato. E comunque non sarà facile rifarsi una vita alla sua età - sospira la signora Maria, discendente di un'importante famiglia di armatori napoletani Noi di sicuro in tutti questi anni non l'abbiamo mai abbandonato ».
«Cosa farà Gianni dopo aver espiato fino in fondo la sua pena? Non importa - aggiunge il padre, altissimo dirigente Bnl ora in pensione C'è qui la sua famiglia, ci siamo noi. La famiglia, secondo me, è l'unico posto dove un detenuto possa riuscire a reinserirsi. L'unica vera comunità di recupero, chiamiamola così, per chi esce dal carcere».
Neanche dopo 33 anni hanno il coraggio morale di ammettere il proprio fallimento come famiglia che non ha avuto la capacità di impedirgli di diventare un mostro, freddo, spietato, crudele, che ha causato tanto lutti e tanto dolore a due povere ragazze ed a quelli che a S. Gimignano avevano provato a creare le condizioni favorevoli ad un progetto di ricostruzione di una vita rovinata, mentre l’interessato pensava solo ad un progetto di evasione, a fuggire, ad evadere.
Le indagini amministrative successive all’evasione furono un capolavoro (voluto) di inefficienza, si cercava a tutti i costi un ‘capro espiatorio’, ma non si riusciva a trovarlo.
Si pensava alla procurata evasione ed alla corruzione.
Il Ministro di Grazia e Giustizia era Adolfo Sarti ed era preoccupatissimo di sviare l’attenzione della pubblica opinione da ciò che stava emergendo dalle indagini sulla loggia massonica P2, alla quale era iscritto e di lì a poco dovette dimettersi dal governo, uscì di scena, morendo nel 1992, mentre Valerio Zanone (classe 1936, da poco tornato alla ribalta dopo un lungo oblio nelle file de L’Ulivo, ma non ricandidato nel 2008) tuonava in Parlamento contro quel direttore, chiedendo accertamenti rapidi e punizioni esemplari.
ECCO COSA ACCADDE SUBITO DOPO.
Il direttore, il maresciallo comandante e un appuntato furono imputati di procurata evasione.
Per l’appuntato fu aggiunta l’imputazione di abuso d’ufficio, successivamente derubricata a malversazione a danno di privati (reato oggi soppresso dalla legge 86/1990).
Cos’era accaduto ? Il povero appuntato voleva acquistare casa a S. Gimignano, aveva bisogno di un mutuo ( un prestito) ed ebbe la malaugurata idea di chiedere aiuto a Guido padre (direttore centrale della BNL) il quale lo indirizzò alla Banca di Calabria, la quale concesse il mutuo (forse prestito)ad un tasso bassissimo, il 3%, circostanza che lo rallegrò senza insospettirlo, il rimanente 15% però lo pagava di tasca sua Guido padre.
Il direttore, a rischio di mandato di cattura (si temeva l’inquinamento delle prove), fu subito trasferito perché ciò non accadesse.
L’appuntato e Guido padre furono arrestati dal Giudice Istruttore (siamo nella vigenza del codice di procedura penale del 1931), l’appuntato si fece 40 giorni di carcere, il Guido padre fu arrestato in un secondo momento, e fu condotto anch’egli presso la casa Circondariale di Montepulciano.
Nessuno dei due disse alcunché, non avevano alcunché da dire, in effetti.
Vi furono anche imputati minori, esclusi dal processo dal G.I., mentre il latitante Guido Giovanni fu imputato, oltreché di evasione, anche di tentato omicidio in danno dell’agente piantone di portineria.
Il processo dunque fu celebrato in Corte d’Assise, per il direttore ed il maresciallo comandante l’imputazione fu derubricata ad evasione per colpa del custode.
La corte d’assise di primo grado applicò l’amnistia a direttore e maresciallo comandante.
Il direttore la rifiutò, per cui fu celebrato anche per lui il secondo grado di giudizio, dopo la conferma della sentenza di primo grado, il direttore si appellò alla Corte di Cassazione, inutilmente.
Il difensore, senza dire nulla all’assistito direttore, nel grado terzo di giudizio non inserì il rifiuto dell’amnistia, anche se questo punto è incerto.
Probabilmente, si limitò a rintuzzare l’appello del P.M.
Fatto sta che per il direttore e l’appuntato ebbe inizio la discesa agli inferi.
L’appuntato, sospeso dal servizio e rimastovi per molti anni (allora non era previsto il limite massimo di cinque anni), cinque - sei anni dopo si dimise e fu collocato in pensione.
Il direttore fu guardato sempre con sospetto, per molti anni, in particolare dal nuovo capo del personale, che oggi, vedi il caso, è il presidente del tribunale di sorveglianza di Roma che ha concesso al Guido Giovanni l’affidamento in prova.
Il direttore della Casa di Reclusione di S. Gimignano si chiamava Luigi Morsello, è tutt’ora vivente, vivo e vegeto ed è privo di rancori.
3 commenti:
Questo mi ha colpita particolarmente!
"...Il direttore fu guardato sempre con sospetto, per molti anni, in particolare dal nuovo capo del personale, che oggi, vedi il caso, è il presidente del tribunale di sorveglianza di Roma che ha concesso al Guido Giovanni l’affidamento in prova.
Il direttore della Casa di Reclusione di S. Gimignano si chiamava Luigi Morsello, è tutt’ora vivente, vivo e vegeto ed è privo di rancori."
Così si chiude questo post.
Il Dott.Luigi Morsello è un uomo come pochi.
Inoltre, è mio fratello.
E ne sono molto fiera!
Anch'io di te, sorellina ! !
Hai veramente una forza incredibile. Io, che questa storia l'ho appresa molti anni dopo, quando tutto era stato chiarito e la tragedia superata, non riesco a parlarne con serenità. Mi fa male pensare che la vita di una persona per bene (tra l'altro un amico) e della sua famiglia corra il rischio di essere distrutta dalle circostanze e dalla mancanza di responsabilità di qualche stronzo la cui vita non porterà mai bene a nessuno.
rossana
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